
Il Cristianesimo e l’Impero romano erano, di fatto, due realtà incompatibili?
29 Luglio 2015
La grandezza d’un popolo si misura nella disfatta
29 Luglio 2015Gli imperi, e le civiltà, sorgono e crollano: tutto passa nella storia; cadono anche le costruzioni politiche più solide, quelle che sembravano incarnare il valore assoluto e definitivo delle umane vicende, ad esempio l’Impero Romano, sintesi della civiltà antica, che, dopo aver ospitato e favorito la diffusione del cristianesimo quale religione universale, è caduto nella polvere, esso che sembrava destinato a non finire mai.
L’Impero Romano non era uno stato qualsiasi: oltre che il più grande impero mai esistito, era anche quello che abbracciava quasi tutti i territori che furono sede delle civiltà antiche: l’intero bacino del Mediterraneo, la porzione di Europa fino alla linea del Reno e del Danubio (Britannia compresa), e una buona parte del Medio Oriente. Con la sola esclusione del Regno dei Parti (in seguito divenuto Impero Sassanide), Roma riuniva in un’unica compagine politica il retaggio delle precedenti civiltà e dei precedenti stati, dall’Egitto alla Siria, dall’Italia al Nord Africa, dalla Grecia alla Macedonia, e anche la maggior parte del mondo celtico, la Penisola Iberica, la Gallia e la Britannia, la regione del Danubio superiore. Al di fuori dell’Impero Romano, dunque (e, come si è detto, a parte il caso della Persia), non vi erano che popolazioni barbare o territori deserti e inabitabili, ad esempio i mari settentrionali, che Pitea di Marsiglia aveva dichiarato difficili da navigare, perché "solidi" (cioè ghiacciati), oppure i deserti africani, ove ben pochi si erano avventurati, perché si pensava che la zona torrida fosse talmente bruciata dal sole, da rendervi impossibile la vita umana.
Dunque, dal punto di vista dei suoi cittadini (ché tali erano divenuti tutti i suoi abitanti, provinciali compresi, con l’editto di Caracalla, ossia la "Constitutio Antoniniana", del 212 d. C.), l’Impero Romano era il mondo, o quasi: "Urbem fecisti, quod prius Orbis erat", dirà, nel suo commosso saluto, il poeta Rutilio Namaziano: di quello che era semplicemente un globo, tu hai fatto una sola città. Di conseguenza, l’eventuale caduta dell’Impero Romano era considerata come un evento praticamente impossibile: o meglio, come un evento che avrebbe preannunciato la fine del mondo. Se l’Impero Romano ERA il mondo, la fine dell’Impero equivaleva alla fine di tutto, alla fine della storia e del genere umano. Nondimeno, i due fatti altamente traumatici, verificatisi con la sconfitta di Adrianopoli, da parte dei Goti, nel 378, e con il sacco di Roma, nel 410, rendevano possibile ciò che, prima, era apparso incredibile: il crollo dell’Impero; di conseguenza, si affacciava anche la terribile prospettiva della fine del mondo.
Pagani e cristiani erano ferocemente in polemica gli uni contro gli altri, a questo proposito. Entrambi si rinfacciavano la responsabilità di quel che stava accadendo: per i pagani, la sconfitta militare e il sacco di Roma (rinnovato altre due volte: nel 455 per mano di Genserico, nel 472 ad opera di Ricimero: il barbaro "esterno" e quello al servizio dello Stato) erano la diretta conseguenza dell’abbandono degli antichi culti; per i cristiani — o, almeno, per una parte di essi – erano il castigo divino per le scelleratezze, le crudeltà e le empietà commesse al tempo del paganesimo. Certo, dopo Costantino, l’Impero era divenuto cristiano; anzi, a partire da Teodosio, esso si era totalmente identificato con la nuova religione, proscrivendo nella maniera più severa le antiche religioni: e molti apologisti cristiani vedevano nella sua grandezza smisurata (in senso geografico) un fattore voluto dalla Provvidenza, al fine di rendere più agevole la diffusione del Vangelo in ogni parte del mondo. E dunque, come ammettere che Dio abbandonasse i suoi, ora che avevano trionfato?
Il problema era complesso. La concezione storica del cristianesimo era basata sul tempo lineare: dunque, la fine del mondo era la logica conclusione della creazione: tutto deve tornare a Dio, così come tutto è incominciato dall’atto creatore di Dio. Inoltre, i Vangeli – e specialmente il quarto, per non parlare del libro dell’"Apocalisse" – avevano attribuito a Gesù la rigorosa distinzione fra la realtà terrena e quella ultraterrena: la prima è provvisoria e dovrà finire, anzi, la sua fine è ormai imminente; la seconda è eterna, perché è la realtà vera. Inoltre, il "mondo" (specialmente nella teologia di San Giovanni, ma anche in quella di San Paolo) è, sostanzialmente, il regno del peccato: non bisogna attaccarsi ad esso, perché i figli di Dio non vivono secondo il mondo e secondo la carne, ma secondo lo spirito, nella luce della Rivelazione divina.
Ed ecco che l’escatologia cristiana si trova davanti ad un bivio: da un lato, per esempio con San Ambrogio, essa vede nel trionfo del cristianesimo la realizzazione del piano di redenzione divino, e dunque non può credere che l’Impero Romano abbia esaurito la sua missione e che possa incombere, su di esso, una fine imminente; dall’altro, e pur partendo da posizioni analoghe, è consapevole — specialmente con Sant’Agostino — che l’Impero è stato solamente un mezzo, un veicolo, e che il suo destino non è, né potrebbe essere, quello stesso del cristianesimo: quest’ultimo mira alla salvezza delle anime, dunque il suo compito si prolunga nel tempo, finché il mondo esisterà e fino a quando tutti i popoli della terra, anche i più lontani, non saranno stati convertiti, mentre l’Impero, come un guscio ormai vuoto, avendo esaurito, forse, la sua funzione, può anche soccombere: questo non porterà alla fine di quello. E Agostino, si badi, scrive queste cose mentre la sua città, Hippo Regius, nell’Africa settentrionale, è stretta d’assedio dai Vandali, cioè nel momento più drammatico della crisi politica e militare imperiale: qualche mese dopo la morte del grande vescovo, la città sarebbe caduta e Genserico vi sarebbe entrato, avviando una crudele persecuzione, lui ariano e barbaro, della Chiesa cattolica e dei cittadini romani.
Ha scritto lo storico e filologo classico Luigi Bessone (da: L. Bessone, «Scripta selecta. Cesare, Catullo, Tibullo, Properzio, Ovidio»; Torino, Società Editrice Internazionale, 1987, pp. 297-299):
«Ancora per tutto il III sec. d. C., nonostante il cinquantennio di anarchia militare (235-285) con le conseguenze a tutti ben note e l crescenti scorrerie e infiltrazioni barbariche all’interno dell’impero romano, nessuno, almeno fra i pagani, ebbe sentore che l’"immensum imperii corpus", per dirla con Tacito, potesse un giorno non reggere più all’urto combinato dei popoli "barbari" e alla potenza disgregatrice delle forze contrastanti in lotta all’interno per l’affermazione dei propri diritti o per la rivendicazione di ruoli e di privilegi. Anche le voci che si levano in campo cristiano a profetare la fine imminente del mondo romano, associata a quella del mondo intero (‘escatologismo legava in un destino indissolubile Roma e il Cristianesimo) appaiono piuttosto espressione di speranze e paure alimentate da testi quali il "Libro di Daniele" e l’"Apocalisse" di Giovanni, che non frutto di una disamina serena dei problemi e degli umori dell’epoca. La stessa ideologia pagana della "senectus imperii", secondo cui con l’"amissa libertas", e cioè col passaggio dalla repubblica al principato, sarebbe iniziato il processo di senescenza del mondo romano, stimolava negli avversari del paganesimo un tipo di considerazioni di cui risulta esemplare un passo dell’"Ad Demetrianum" di Cipriano vescovo di Cartagine: "Pensi davvero che un mondo così invecchiato possa mai trovare quell’energia che poté dargli la fresca giovinezza? È inevitabile che perda vigore tutto ciò che, avvicinandosi alla fine, volge al tramonto e alla morte." La riorganizzazione operata da Diocleziano e la pacificazione promossa da Costantino parvero assicurare nuova linfa all’organismo imperiale ormai esausto, da un lato predisponendo sistemi di intervento più tempestivo ed efficace nelle varie zone minacciate e dall’altro cointeressando alla difesa della romanità la forza emergente del momento, i cristiani. Il fatto inopinato che fece toccare con mano l’imminenza del pericolo fu la disfatta subita dall’imperatore Valente ad Adrianopoli nel 378, a opera dei Goti. Per la società romana si trattò di "un vero trauma collettivo" (F. Giunta) e Adrianopoli venne a rappresentare una "data epocale", una di quelle date che segnano svolte decisive nel corso della storia. Eccone il commento lapidario nella "Storia ecclesiastica" di Rufino: "Quae pugna initium mali Romano Imperio tunc et deinceps fuit". L’opinione pubblica, sbigottita, assunse allora due atteggiamenti antitetici. Alcuni eminenti pagani, come il retore Libanio e lo storico Ammiano Marcellino, ma altresì cristiani autorevoli come Sinesio e Giovanni Crisostomo propugnavano la guerra a oltranza, una lotta senza quartiere contro i barbari invasori. Una vittoria definitiva sui Goti venne auspicata tanto dal vescovo Ambrogio di Milano come dal poeta gallo romanizzato Ausonio. Altri, ispirati dalla linea politica di Teodosio e dalla propaganda di retori come Temistio, propendevano invece per un’intesa con i Goti che, garantendo la sicurezza reciproca, coinvolgesse questi ultimi nella difesa del suolo imperiale dalle orde che a ondate si riversavano sui confini. Era ormai questa l’unica via obiettivamente praticabile e infatti si impose, ma se sul momento sembrò dare buoni frutti, comportava altresì gravi rischi, che puntualmente si evidenziarono con la scomparsa del grande imperatore e la divisione dell’impero nelle due "partes" d’Oriente e d’Occidente. La profonda frattura fra l’elemento militare barbarico e la componente civile dello Stato si riproponeva ai vertici con l’insanabile dissidio che opponeva la corte e il Senato (tutt’altro che concordi anche fra loro) ai capi militari, quei generali di estrazione barbarica che,m assurti ai vertici del potere, faticavamo a conciliare la duplice e contrastante esigenza di tutelare l’impero e di interpretare le istanze dei gruppi che li avevano espressi. E tutto questo a prescindere dalle pur frequenti e peraltro inevitabili ambizioni personali. Il rapido deteriorarsi della situazione ebbe il momento culminate nel sacco di Roma del 410, a opera dei Visigoti di Alarico. Con la caduta della "città eterna" crollava un mito, la fede nell’invincibilità di quella città che da secoli veniva celebrata come investita dagli dei di una missione perenne e universale di unificazione e incivilimento dei popoli. Fra pagani e cristiani riesplose la polemica, col rinfacciarsi a vicenda la colpa dell’accaduto. La visione escatologica aveva già trovato una lucida formulazione in Sant’Ambrogio che, considerando l’impero romano come il presupposto necessario a una sempre maggiore espansione del Cristianesimo, ne aveva dedotto che il prevalere dei Goti sui Romani avrebbe comportato, con il crollo dell’impero, la fine di tutto. Già nel 396 San Girolamo aveva scritto: "Il mondo romano va in rovina"; e ora, dopo il sacco di Roma, ribadisce: "Dopo che è stata spenta la splendidissima luce di tutta la terra, è stato troncato il capo dell’impero romano; e per dire con maggiore verità, in una sola città è perito tutto il mondo". Ma le tesi escatologiche trovarono recisa confutazione da parte di Sant’Agostino, la cui fede nella civiltà romana uscì, per così dire, rafforzata dalle dure prove cui il mondo romano era allora sottoposto: "Roma non muore; per caso è flagellata, non uccisa; per caso è punita, non distrutta. Roma non perisce se non scompariranno i Romani". Le tesi avveniristiche di Agostino, implicanti, tra l’altro, un avvicinamento romano-gotico in una realtà nuova, furono avallate dall’impostazione data da Orosio alle sue "Storie contro i pagani", volte a dimostrare che in un mondo nel quale romanità e Cristianesimo sono ormai tutt’uno si giustifica anche la presenza dei barbari, e la coesistenza dei due mondi non è più un sogno irrealizzabile. La fede alimenta la speranza in un futuro concepito come unione spirituale sotto il segno dalla civiltà di Roma. Chi non la condivide perché pagano, da un lato si isterilisce nella vana polemica contro le cause della rovina dell’impero romano, accomunando nella condanna goti e cristiani, collaborazionisti e imperatori "filobarbari"; dall’altro, trova motivo di conforto nel pensare a quello che Roma è stata, a che cosa essa abbia rappresentato per tanti secoli nella storia dell’umanità. La voce più significativa in tal senso è quella di Rutilio Namaziano, un Gallo romanizzato e assurto al rango di "praefectus urbi" a Roma.»
A questo punto, la domanda che possiamo farci — la stessa che avevamo affacciato all’inizio – è se il cristianesimo possa identificarsi con un ordinamento politico e sociale, per quanto grande, e con una civiltà, per quanto essa pretenda di essere quella "definitiva": situazione che accomuna il nostro tempo con quello di Ambrogio e di Agostino. Non ha forse sostenuto, qualche anno fa, il politologo statunitense Francis Fukuyama, che la storia è giunta al capolinea, perché la fine della guerra fredda e il "trionfo" (a suo dire) del capitalismo e della democrazia liberale, hanno segnato un punto di non ritorno, una condizione definitiva per la civiltà umana? E non siamo forse noi tutti, cittadini dell’Europa e del Nord America, portati a identificare la civiltà moderna con "la" civiltà in quanto tale, e, pertanto, a pensarla come definitiva, perfetta, insostituibile?
Evidentemente, è lo stesso errore di prospettiva che viziava lo sguardo degli intellettuali del tardo Impero Romano: lo stesso errore che li portava a considerare come immortale il proprio Stato, e che induceva alcuni cristiani a ritenere che il cristianesimo non avrebbe potuto né diffondersi, né sopravvivere, se Roma fosse stata travolta dai barbari, sì che l’Impero non potesse più offrire alcun sostegno alla religione.
Era un errore: ora lo sappiamo, perché lo abbiamo visto. Il cristianesimo è sopravvissuto al naufragio dell’Impero; anzi, in un certo senso, se ne è avvantaggiato, e su un duplice fronte: da un lato, perché così ha potuto diffondersi anche fra i popoli che mai Roma era riuscita a piegare e a conquistare; dall’altro, perché, liberatosi dall’abbraccio un po’ soffocante dell’Impero, la Chiesa cristiana ha potuto stabilire definitivamente la propria autonomia spirituale — e, per un lungo periodo, anche quella politica. Gli storici, peraltro, stanno ancora discutendo, e probabilmente continueranno a farlo, se la Chiesa, a un certo punto, abbandonando al proprio destino l’Impero, ne abbia affrettato la fine, o se, al contrario, dissociando le proprie sorti dalle sue, abbia favorito il processo d’integrazione dei barbari nell’area della civiltà romana e, in prospettiva, reso molto più facile la ricostruzione spirituale del mondo post-romano, vale a dire la nascita dell’Europa moderna. Tuttavia, non è questo che, nel momento presente, ci interessa: ci interessa capire se il cristiano debba identificarsi con l’ordine sociale e politico in cui è inserito, e in cui è inserita la sua Chiesa, oppure se debba essere capace di guardare oltre, qualora le circostanze lo impongano: nel nostro caso, oltre la civiltà moderna e oltre le realtà nazionali, così come le conosciamo adesso.
È un arduo quesito, sotto tutti i punti di vista: morale, culturale, perfino politico; e non ce ne nascondiamo l’estrema difficoltà. Il cristianesimo è venuto a identificarsi, di fatto, con la civiltà occidentale; ma la civiltà occidentale moderna è, nella sua essenza, non-cristiana, per non dire anti-cristiana; inoltre, minoranze cristiane e piccole Chiese cristiane esistono anche al di fuori dell’ambito della civiltà occidentale, e, benché oggi rappresentino delle realtà quantitativamente trascurabili, nessuno può dire se lo saranno anche domani, oppure se diverranno la base di un ulteriore, travolgente sviluppo. In fondo, la culla del cristianesimo, la Palestina, non è mai stata interamente cristianizzata; e le regioni dell’Impero Romano che per prime lo accolsero, come la Siria e l’Asia Minore, hanno cessato di esserlo da gran tempo, sotto il peso dell’invasione e della lunga dominazione musulmana. Ma chi avrebbe potuto immaginare che un Paese del lontano Oriente, come le Filippine, sarebbe divenuto a stragrande maggioranza cristiano? Allo stesso modo, quegli stessi popoli invasori che abbatterono l’Impero Romano, i Goti, i Franchi, poi si convertirono e fecero rinascere l’Impero cristiano, con Carlo Magno; e nuovi popoli di barbari invasori — i Vichinghi, gli Ungheri -, dopo essere stati anch’essi cristianizzati, formarono un valido antemurale ai confini d’Europa, fermando nuove irruzioni barbariche di popoli che non si convertono mai — i Saraceni, i Tartari, i Mongoli.
Ci sembra di poter concludere che il cristianesimo non deve identificarsi con nessun ordine temporale, con nessuno stato e con nessun popolo; anche se è perfettamente naturale che i popoli cristianizzati da più lungo tempo sentano un legame speciale con la loro religione, legame che li porta a vedere quest’ultima, e la realtà socio-politica entro cui vivono, come fossero un tutt’uno. Ma non è così. Questo mondo, non è il mondo del cristiano: e ciò è vero per qualunque realtà terrena, ma lo è, a maggior ragione, per la civiltà occidentale moderna, nata in opposizione al cristianesimo e finalizzata a sradicarlo con una sottile opera interna, quotidiana, paziente, pensata e diretta da forze esplicitamente anticristiane, forze che — da un punto di vista cristiano – si possono definire, in maniera oggettiva e letterale, come diaboliche.
Ecco perché la fine della nostra civiltà, se pure è alle porte, non sarà, necessariamente, anche la fine del cristianesimo. Esso ha sempre dato prova della massima vitalità quando è stato assalito frontalmente: ed è quello che sta accadendo ultimamente. Quando, invece, viene attaccato dall’interno, in maniera subdola, silenziosa, strisciante, spesso non ha mostrato adeguate capacità di reazione: non ha saputo vedere il pericolo, non ha saputo rispondervi in maniera chiara ed energica. E poi, il mondo non è eterno; e la civiltà umana è un prodotto storico, destinato a finire. Perché bisognerebbe vedere ciò come una catastrofe? Importante non è finire, ma il modo in cui si finisce…
Fonte dell'immagine in evidenza: RAI