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29 Luglio 2015La noia è la Nemica che tutto insozza e distrugge e ci fa mancare il terreno sotto i piedi

La civiltà moderna è attanagliata da una malattia insidiosa, strisciante, implacabile, che la corrode dall’interno, silenziosamente, ne guasta la polpa, ne offusca l’orizzonte, ne spegne o ne infiacchisce le energie: la noia. E, insieme ad essa, il rifiuto ostinato di qualunque consolazione.
La noia è una malattia moderna: ne parla, fra i primi, Francesco Petrarca; tra la sua "accidia" e il fastidio esistenziale di Alfieri, Foscolo, Leopardi, fino al male di vivere di Montale, alla nausea di Sartre, e, di nuovo, all’indifferenza e alla noia di Moravia, si tratta sempre dello stesso male, chiamato con nomi diversi, oppure non riconosciuto, frainteso, equivocato.
Kierkegaard lo aveva diagnosticato con estrema lucidità e precisione, e aveva anche formulato la prognosi: se l’angoscia degenera nella disperazione, la malattia sarà mortale; se l’inquietudine darà luogo alla "conversione", alla "ripresa", alla fede, sarà strumento di salvezza. Dobbiamo scegliere, siamo al bivio: le scelte esistenziali non sono frutto di mediazione dialettica, ma "salto", e salto nel buio; bisogna assumersi i rischi, rinunciare alle garanzie. C’è poco da fare: vivere in senso etico, vuol dire fare a meno del paracadute. Compreso il paracadute della ragione, o quello del progresso, o della scienza, e così via. Bisogna andare nudi incontro al proprio destino, scegliere quel che si deve essere, quel che si è chiamati a essere; oppure scegliere il nulla. Questa è la tragicità dell’esistenza — ma anche la sua incomparabile bellezza.
Anche Dostoevskij ha visto tutto ciò con una chiarezza quasi disumana, la chiarezza di un entomologo che osserva i suoi campioni al microscopio: gli uomini moderni sono altrettanti ossessi; sono, alla lettera, degli indemoniati; per salvarsi, devono deporre l’orgoglio dell’Io — che, in filosofia, ha un nome preciso: l’Idealismo di Fichte, Schelling, Hegel, dal quale sono derivate tutte le cose più brutte del XX secolo, i totalitarismi di sinistra e di destra — e tornare a Dio, tornare alla fede dei padri, tornare all’umiltà intellettuale e morale. Devono farsi passare la sbronza maligna, la cattiva ubriacatura che consiste nel voler essere gli dei di se stessi; in pratica, bisogna liberarsi dalla idolatria delle cose, del potere, del successo, che si traduce nell’oblio dell’essere, proprio per poter tornare all’essenziale, vale a dire all’essere.
L’uomo moderno si annoia in entrambi i significati della parola: quello di provare fastidio per l’esistenza (rifiutando, però, di lasciarsi consolare) e quello di non saper come trascorrere il proprio tempo libero. L’uomo moderno ha guadagnato tempo (almeno in apparenza), grazie ad una rigorosa pianificazione della società e all’impiego sempre più massiccio delle macchine, che lo sostituiscono (anche troppo…) nelle incombenze pratiche del lavoro, e non solo di quello, ma di cento altre cose della vita quotidiana: però codesto tempo in sovrappiù è diventato la sua maledizione, perché non sa che farsene; gli serve solo per sentire con più evidenza e raccapriccio il vuoto esistenziale in cui è sprofondato, cioè per accrescere la sua disperazione.
L’uomo moderno è disperato, ma non vuole consolazione: la disdegna, la rifiuta, la deride. Chiama "consolatorie", con ironia e sarcasmo, quelle cose che potrebbero aiutarlo a stare meglio, a recuperare il proprio equilibrio compromesso, e tratta da cialtroni e da manigoldi coloro che gli offrono una carezza o un goccio d’acqua fresca nell’arsura che lo divora. Al contrario, preso da una forma di autolesionismo che sfiora la pazzia, va in cerca di tutti quei sedicenti maestri dai quali non può udire che parole di relativismo, di nichilismo, di tristezza, di bruttezza, di ulteriore angoscia e disperazione: e costoro chiama nobili e grandi, davanti ad essi si inchina riverente, ne fa le proprie guide e i propri modelli. Cieco, prende dei ciechi come guide; disperato, sceglie dei disperati per attraversare le bassure e i passi più infidi dell’esistenza: con quali risultati, è anche troppo facile immaginare — e, del resto, lo vediamo tutti i giorni.
L’uomo che viene afferrato, risucchiato e stritolato nei meccanismi perversi della noia esistenziale (che alcuni chiamano anche "depressione", come se ridurla allo status di deviazione o patologia psicologica servisse ad esorcizzarne il terribile potere dirompente e potesse rassicurarci quanto al fatto di tenerla sotto controllo), si sente mancare il terreno sotto i piedi: è come se si trovasse gettato in una insidiosa e mefitica palude, ove ad ogni passo rischia di perdersi, scivolare, sprofondare e annegare miseramente, inghiottendo fango e acqua sporca.
Per noia si arriva fare qualsiasi cosa: guerre, rivoluzioni, attentati; a calunniare, a odiare, a disprezzare; per la noia si può tradire, mentire, assassinare; si può correre dietro una bandiera qualsiasi, entrare in una setta, diventare satanisti; si può evocare il demoniaco e scimmiottare il sacro; ci si può abbrutire col sesso, con la droga, con l’alcool; si può giocare con la propria vita, tentare la sorte alla roulette russa, oltrepassare i semafori rossi correndo a cento all’ora; ci si può suicidare, si possono mandare lettere anonime, diventare persecutori occulti o palesi; tormentare il prossimo, rendergli la vita un inferno e stare a guardare l’effetto; speculare in borsa, fondare un giornale, mettersi a scrivere, a dipingere, a trinciare sentenze su tutto e su tutti; inventare una religione, elaborare una filosofia, sviluppare una intera letteratura (come Fernando Pessoa, che, sotto diversi pseudonimi, ha fatto di sé una legione di scrittori); si può diventare vegetariani o rapinatori, sposarsi o divorziare, mettere al mondo dei figli o abbandonarli.
Una sola cosa non si può fare per noia: decidersi per la serietà della vita; prendere sul serio la chiamata dell’essere; destarsi alla consapevolezza interiore. Per noia si può scivolare verso il basso, mai salire verso l’alto; anche se intraprende qualcosa di rischioso, di pericoloso, come gettarsi da un altissimo ponte con le caviglie legate a una corda elastica appena un poco più corta della distanza che separa il ponte dal fondo dell’abisso sottostante, nessun uomo, per noia, sarà mai capace di compiere qualcosa di grande: potrà solo giocare con la vita, come farebbe un aspirante suicida. Perché la noia nasce dal disprezzo della vita, o, quanto meno, dalla sua radicale, totale incomprensione: nasce dall’erronea convinzione che la vita ci sia data per soddisfare ogni nostro desiderio e ogni nostro capriccio: e questo è non solo impossibile, ma anche terribilmente noioso. La sazietà, di qualunque genere, provoca una noia infinita. Meglio rischiare la vita, e magari gettarla, – pensano in molti – che sopportare una vita dominata interamente dalla noia, dalla sazietà, dall’assurdo, e lasciarsi logorare dal male sottile e corrosivo della noia; piuttosto che soccombere un poco alla volta allo spegnimento di ogni interesse per la vita, all’oscurarsi di ogni speranza, al venir meno di qualunque orizzonte futuro.
Disprezzare la vita ed annoiarsi, in fondo, significa disprezzare se stessi, vergognarsi di se stessi, sentirsi in colpa per qualcosa che, molte volte, non dipende da noi. Quando si vive sotto il grigio tallone della noia, l’incanto del mondo si ottunde e svanisce, e non resta altro che arida sabbia e polvere soffocante. C’è da chiedersi se un male così grande e così generalizzato nasca spontaneo nel cuore dell’uomo o se qualcuno, qualcosa, lo stia favorendo, lo stia sollecitando, lo stia alimentando, consapevolmente e deliberatamente. Propendiamo per questa ipotesi: sospettiamo fortemente che la noia abbia un ispiratore, un suggeritore, un sinistro e instancabile propagandista. Un essere che ha scelto le tenebre per se stesso, e che vorrebbe vedere smarrite in esse anche le creature umane, allo scopo di prendersi la rivincita contro tutto ciò che è bene. Un essere che vuole sporcare, insozzare, spogliare dell’anima la creazione e ridurre alla disperazione gli esseri umani.
La noia, infatti, è la subdola nemica della gioia e dell’amore: subdola perché non attacca frontalmente, ma per vie oblique: cerca il punto più debole dell’anima umana e vi introduce il suo pungiglione velenoso, guastandone ogni autentico piacere, incrinando la sua intima coerenza ed armonia. L’uomo moderno, accecato dal proprio orgoglio faustiano, crede di aver soppresso in se stesso la nostalgia delle altezze, ma ha potuto auto-ingannarsi solo a metà; per l’altra metà, sente di barare al gioco della propria coscienza e attende il meritato castigo. Eppure, è anche convinto di essere giustificato, come insegna Machiavelli, perché il fine era altissimo: incoronarsi dio al posto di Dio, prendere la storia — la propria storia individuale e la grande storia collettiva dei popoli, delle nazioni, delle civiltà — nelle sue mani, senza senso del limite, spronato solo da una terrena, meschina ed oziosa "curiositas". Una curiosità che conduce alla morte, perché disgiunta dal fine morale; inutilmente, pericolosamente lasciata a se stessa, libera di girare a vuoto, senza pace, senza bellezza, senza onestà d’intenzioni, senza purezza di cuore. Una siffatta curiosità non vale nemmeno la carta sulla quale essa magnifica se stessa: si fa passare per una elevatissima facoltà dell’animo umano, ma non è altro che furto e inganno. Ladro, dice l’immortale saggezza della «Bhagavad-Gita», non è soltanto colui che si dedica al furto, al rubare; ma chi riceve le cose buone da Dio e poi non lo ringrazia, non si pone al servizio degli altri, non vuole restituire quello che ha ricevuto, impegnandosi con tutto se stesso, con tutto l’impeto vigoroso della sua anima; ma rinserra gelosamente quanto gli è stato dato gratuitamente, senza condividerlo con nessuno, preoccupandosi sempre e solo di se stesso. Costui è certamente un ladro e un bugiardo: si è sottratto alla catena virtuosa del dare, prende senza restituire, rifiuta di restituire all’essere ciò che gli è stato affidato in usufrutto, non in proprietà; ed è un bugiardo, perché non confessa che tutto ciò di cui va fiero, tutto ciò per cui viene ammirato, tutto ciò che lo mette in grado di capire e di sapere, non è un suo merito personale, non è una sua creazione e, dunque, non dovrebbe dargli alcun motivo di vanto; al contrario, egli dovrebbe sentire il dovere di renderlo, di offrirlo a sua volta, di metterlo a disposizione degli altri.
La catena della generazione non può fermarsi mai: dagli esseri più piccoli ai più grandi, dai più semplici ai più complessi, dai più egoisti ai più generosi, essa si rinnova ogni volta che viene concepito (concepito, non messo al mondo) un bambino, ogni volta che qualche anima modesta e generosa si offre come veicolo per l’espressione del divino e per la trasmissione della vita. Nessun uomo o donna è in grado di creare la vita: ciascuno l’ha ricevuta gratuitamente; e, come l’ha ricevuta, vorrebbe darla a sua volta; o, per meglio dire, vorrebbe affermare il principio che nessun uomo è un’isola e che ciascuno dovrebbe rendersi disponibile a non interrompere la catena, a consentire che essa continuamente si rinnovi. Questo, almeno, secondo giustizia e secondo natura: il fatto che, oggi, numerosi uomini e donne non sentano, o, per meglio dire, sopprimano in sé questo istinto, mettano a tacere la voce del cuore per chiudersi nel proprio mondo autosufficiente, dimostra fino a che punto la malattia dell’uomo moderno sia divenuta grave, fino a che punto lo stia conducendo lontano dalla vita — e, in ultima analisi, anche da se stesso.
La noia non è solo una condanna, è un vizio e una colpa. Chi si annoia, si arrende ad essa e non è vittima, ma carnefice: poco importa se di se stesso o degli altri. Importa che egli armi la mano che infligge una sanguinosa ferita alla gioia di vivere, alla bellezza del mondo, e vi stenda sopra il lugubre manto della tristezza, della perdita di senso. L’uomo, da solo, forse non sarebbe capace di tanta malizia, pur così astuto ed abile contro se stesso: per questo bisogna ipotizzare un gran Nemico, che della noia si serva per intorbidare, inquinare e avvelenare, l’una dopo l’altra, tutte le sorgenti della bellezza, della bontà e della verità. L’uomo buono non si annoia mai, ed è in pace con se stesso. Per annoiarsi, bisogna essere anche malvagi — almeno un poco. I grandi malvagi scelgono il delitto; quelli piccioli, scelgono la noia. Sono dei delinquenti timidi, dei criminali paurosi o non ancora interamene convinti.
Non esistono tecniche per sconfiggere la noia, e chi lo afferma è uno sciocco o un disonesto. (o entrambe le cose), perché essa è l’espressione visibile di un male più profondo: la perdita di amore per la vita, di gratitudine verso Dio e d’incanto per lo splendore del mondo. Non si tratta, perciò, di escogitare delle strategie allo scopo di non annoiarsi: si può provare noia anche facendo molte cose; l’unico modo per non annoiarsi è amare la vita, essere grati a Dio e provare stupore e meraviglia per la bellezza del mondo. In altre parole, si tratta di sbarazzarsi del superfluo e del deleterio per riscoprire l’essenziale.
Ma come trovarlo, codesto essenziale? È più semplice di quel che non si creda: infatti, non siamo noi a cercarlo, a noi si chiede solo di non chiudergli la porta. L’essenziale, lo abbiamo già detto, è l’essere: ed è appunto l’Essere che ci viene incontro, per avvolgerci nel suo abbraccio caldo e luminoso… se noi siamo disposti a lasciarci abbracciare, consolare, trasfigurare.
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