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Il grande equivoco su von Balthasar: aprire la Chiesa al mondo, non adeguarsi ad esso

Flussi e riflussi della cultura dominante e politicamente corretta. Quando pareva che il teologo svizzero Hans Urs vion Balthasar (nato a Lucerna nel 1905 e morto a Basilea nel 1988) fosse uno dei grandi precursori e dei padri nobili del Concilio Vaticano II, un po’ tutti, sia dentro, sia fuori dalla Chiesa cattolica, ne tessevano l’elogio e ne magnificavano le impareggiabili virtù profetiche; ma quando, poi, a Concilio concluso, egli si è mostrato e si è detto assai perplesso e deluso nei confronti degli indirizzi della Chiesa post-conciliare, e della teologia cosiddetta progressista, sostenendo, senza troppi giri di parole, anzi, con una certa asprezza e persino con una nota di sarcasmo, che vi era stato un gigantesco malinteso e che l’auspicata apertura al mondo non significava affatto, secondo lui, adeguarsi al mondo e rinunciare al proprio specifico messaggio, annacquandolo e deformandolo oltre ogni limite, allora quegli stessi adulatori sono diventati freddi e scostanti nei suoi confronti e l’hanno "punito" nella maniera più raffinata e più adeguata al caso di un grande pensatore, come lui è stato: con la strategia del silenzio.

Di Hans Urs von Balthasar, prima così frequentemente citato, si è, semplicemente, smesso di parlare; una cortina di silenzio è stata fatta scendere su di lui; lo si è seppellito, da vivo e poi da morto, nello scantinato dell’oblio, insieme ad altri pensatori, scrittori e uomini di cultura scomodi e politicamente "scorretti": perché non tutti, ma molti di quelli che lo avevano lodato e ammirato, non lo avevano fatto per avere realmente compreso e condiviso il suo pensiero, ma in maniera del tutto strumentale, ossia perché quel pensiero era sembrato loro una delle armi adatte per attaccare certe posizioni, diciamo così, tradizionaliste della Chiesa cattolica e della teologia cattolica; ma, ora che il maestro aveva, in un certo senso, rinnegato i suoi (interessati) discepoli, questi ultimi si sentivano sciolti da qualunque vincolo di fedeltà o di rispetto nei suoi confronti. L’utile strumento era diventato indocile, stava sfuggendo loro di mano; dunque, non restava altro da fare che sbarazzarsene al più presto, e stendere su di esso il velo dell’oblio.

E sì che von Bathasar non aveva certo mostrato timidezza o mancanza di coraggio, nel corso della sua burrascosa e solitaria carriera di teologo cattolico e fondatore di una comunità secolare, la Comunità di san Giovanni, non troppo apprezzata in certi ambienti vaticani: lo avevano perfino costretto a uscire dall’ordine dei Gesuiti, gli avevano fatto il vuoto intorno, lo avevano ostacolato in cento modi, allorché aveva intrapreso la sua strada di teologo che non guarda in faccia a nessuno e non fa sconti ad alcuno. Non gli avevano perdonato, forse, l’amicizia un po’ sospetta con il teologo protestante Karl Barth; o un eccessivo amore per Mozart, per la musica e per le arti "profane"; e, peggio di tutto, la tenera e indefettibile amicizia per quella che era stata, in un certo senso, la sua compagna spirituale di tutta la vita, la mistica Adrienne von Speyr (1902-1967), personaggio ancor più scomodo di lui: per le sue visioni, per i suoi libri non sempre "allineati", per tutto ciò che lei, donna, rappresentava, nella Chiesa pre-conciliare, in un mondo occupato quasi soltanto da uomini; amicizia che continuò fino alla morte di lei, avvenuta dopo una lunghissima e dolorosa malattia, e dopo che von Balthasar si era trasferito a vivere in casa di lei e del marito suo, del qual era grande amico e con il quale condivideva la devozione per quella donna eccezionale. Basti dire che von Balthasar considerò sempre la propria opera di teologo (che è semplicemente immensa, per quantità e qualità) come inseparabile da quella di Adrienne von Speyr, anzi, come direttamente influenzata da quella, e come debitrice, in ogni senso, della sua ispirazione, delle sue sollecitazioni, del suo stesso esempio di virtù cristiana incarnata in un corpo fragile e sofferente, ma totalmente disponibile a farsi docile e gioioso strumento della grazia divina.

Dicevamo che sia il fragore mediatico, sia il silenzio assordante degli ultimi anni, sono stati il frutto di un grande equivoco, o, peggio, di una deliberata strumentalizzazione del suo pensiero, da parte di quegli ambienti cattolici che, dopo essersi impegnati in ogni modo per spingere sempre più "avanti" la teologia post-conciliare, non smettono di sostenere che la grande spinta innovatrice, inaugurata da Giovanni XXIII, si è arenata per l’indebita resistenza dei vescovi conservatori, e sognano e predicano ulteriori "aperture", ulteriori abbattimenti di "barriere", ulteriori bordate contro le ultime roccaforti del tradizionalismo, da essi individuato come il nemico numero uno, da combattere e da colpire senza misericordia, sempre — beninteso — in nome del Vangelo: ma del Vangelo letto e interpretato nella maniera "giusta", ossia nella maniera loro.

Ci piace riportare una pagina di Peter Henrici che ben chiarisce questo concetto, contenuta in una delle biografie più oneste e più complete del teologo svizzero (da: Karl Lehman e Walter Kasper, «Hans Urs von Balthasar. Figura e opera»; titolo originale: «Hans Urs von Balthasar: Gestalt und Werke», Koln, Communio, 1989; traduzione dal tedesco di Ellero Babini, Casale Monferrato, Alessandria, Edizioni Piemme, 1991, pp. 74-77):

«… Da vent’anni [siamo verso il 1963] Balthasar si era impegnato affinché si giungesse a vedere il centro della Chiesa là dove invece si vedeva perlopiù la sua periferia: nel suo impegno per il mondo. Ora gli toccava di vedere che l’apertura al mondo veniva fraintesa come l’adeguamento al mondo, ricerca affannata di conformità al mondo. Il centro, l’elemento propriamente cristiano,viene dimenticato o addirittura va perduto. "La Chiesa, così si dice, per apparire credibile deve essere conforme all’epoca attuale. Questo significherebbe, se preso sul serio, che Cristo in quel tempo fu conforme ai tempi, quando condusse avanti la sua missione, che per Giudei e pagani era scandalo e follia, morendo sulla croce. Certamente questo evento scandaloso accadde in maniera conforme al tempo, nel "kairòs" del Padre, nella pienezza dei tempi, persino, precisamente quando Israele era maturo per sbocciare come un frutto, e i popoli erano maturi per accogliere questo frutto nei loro campi aperti. Moderno però Cristo, a dire il vero, non lo diventa mai, e nemmeno lo diventa mai, per volontà di Dio".,

Il libretto "Wer ist ein Christ?" (1965), dal quale ora abbiamo preso la citazione, l’allora assistente spirituale lo dona ai suoi amici della "Akademische Verbindung Renaissance". Il tomo è ancora pieno di comprensione, e di spirito di conciliazione – "come in occasione delle grandi pulizie di primavera raramente si procede senza una certa qual atmosfera dionisiaca delle padrone di casa e delle collaboratrici domestiche, così si potrà lasciar passare per buona e giustificare una simile levata di scudi in termini di sensibilità e suscettibilità polemica dei cristiani nel presente" — le richieste sono però senza compromessi:"Insuccessi, battute d’arresto, ricadute, ribassi, diffamazioni, disprezzo, e infine come quintessenza della vita una grande bancarotta: tutto questo fu il pane quotidiano di Cristo, e continuerà ad essere il destino della Chiesa in quest’epoca del mondo, e chi vuole appartenere alla Chiesa, deve tenersi pronto a simili cose, poiché tutto ciò non verrà mai superato da alcuna evoluzione."

Per questo ogni impegno nel mondo sfocia nella preghiera, dei laici così come delle comunità cristiane di vita nel mondo. "La cosa più essenziale nelle loro energie: la preghiera, la sofferenza, l’obbedienza di fede, la disponibilità (magari non utilizzata), l’umiltà, sfugge ad ogni statistica. Su questo contano, a ragione, quelle comunità di vita cristiana nel mondo ("instituta saecularia") che rinunciano ad un apostolato diretto (statisticamente afferrabile) in favore di una semplice presenza nel mondo scristianizzato ("présence au monde"). Altre comunità, che con ogni mezzo ambiscono a posizioni di potere mondano, e culturale, per poter così, come si presume, aiutare la Chiesa, non fanno altro che recarle del danno, e fanno sì che loro stesse e la Chiesa, vengano, non a torto, odiate [e qui, ciascuno sarà libero di fare le sue riflessioni riguardo a certi movimenti ecclesiali, come Comunione e Liberazione, fondata da don Luigi Giussani, da cui sono usciti politici del tipo di Roberto Formigoni: con quanta credibilità per il messaggio evangelico e con quanto vantaggio per la stessa Chiesa cattolica, è, evidentemente, oggetto di giudizio personale]".

Con queste poche frasi si può cogliere il tono di fondo degli scritti polemici balthasariani. Essi vennero compresi poco; chi pensava superficialmente superficialmente in categorie di destra e sinistra, conservatore e progressista, vedeva in essi una svolta di direzione, che egli, a seconda del proprio gusto, rifiutava o salutava con gioia. Chi ne era colpito pensava (e ne dava la colpa) all’amarezza o all’insufficiente informazione di quell’uomo solo e abbandonato. Amarezza però pare che non ci sia proprio nei testi, non se ne vede neanche l’ombra; solo talvolta traspare un "humour" mordace, che può giungere sino al sarcasmo. Il fatto che essi fossero condotti avanti in maniera così tagliente e con evidente gusto nello scriverli rende questi scritti polemici forse più offensivi del necessario. La polemica mirata, a dire il vero, Baltahasar la ha esiliata in saggi e recensioni di libri, che egli non fece mai ristampare: "le polemiche non devono venir fatte diventare eterne".

E dietro a tutto ci sta una molteplice conoscenza del retroterra, dei retroscena, uno sguardo forse troppo negativo, ferito, sulle condizioni in ci si trovava la Chiesa, come lo aveva l’amico di Balthasar, De Lubac, insieme a insufficiente informazione circa i segnali positivi di novità nella Chiesa. Chi tuttavia legga gli scritti polemici senza essere prevenuto, troverà in essi più equilibrio di quanto fu visibile attraverso il setaccio dei mass-media»

Di che cosa, in buona sostanza, fa rimprovero, von Baltahasar, ai troppo disinvolti "innovatori" del Concilio e del post-Concilio? Egli, si badi, non discute più di tanto, né si sofferma in modo particolare, sulle ragioni teologiche di fondo che possono costituire la linea di divisione fra il suo pensiero e il loro — e quando diciamo il "loro", intendiamo, tanto per essere chiari, quello di Karl Rahner, ma anche quello di Jacques Maritain, il quale ultimo, però, se non altro, ha avuto il merito di fare ammenda di certi entusiasmi e di certi slanci eccessivi, o, almeno, di segnalare in che cosa i "novatori" si fossero spinti troppo oltre, tradendo il vero spirito conciliare -, ma si limita ad una constatazione ineccepibile, sia sul piano teologico, sia su quello storico: Gesù è stato un personaggio scomodo al suo tempo, non è stato affatto un uomo in sintonia col suo tempo, se, con tale espressione, si intende che egli si sia particolarmente sforzato di adattare il proprio messaggio alla mentalità e alle istituzioni del suo tempo. Al contrario: Gesù è andato contro lo spirito del suo tempo: tutta la sua vita è stata una battaglia contro la pretesa di ammorbidire e adattare la parola di Dio ai gusti degli uomini; la sua stessa morte sulla croce, scandalosa e ignominiosa per quanti non l’avevano capita, né avevano accolto la sostanza del suo messaggio, ne rende testimonianza: essa non è stata che il coerente suggello di una missione che non ha avuto per scopo quello di piacere agli uomini, ma di piacere unicamente a Dio.

Qui, si direbbe, risiede la radice del grande equivoco in cui sono incorsi certi teologi post-conciliari, come, appunto, Karl Rahner (di quelli dei nostri giorni, come Vito Mancuso, non parliamo nemmeno: semplicemente, essi usurpano il nome di teologi, e certo non sono teologi cattolici): l’amore per il popolo, per i poveri, per gli umili di cuore, per le persone comuni, illetterate, prive di potere, non significa per niente che Gesù abbia "abbassato" il suo messaggio al livello della percezione del comune sentire; essa è stata scandalosa, puramente e semplicemente, sia per i potenti, sia per gli umili, perché veniva a sovvertire le norme del giudaismo e perché spalancava orizzonti totalmente diversi, chiamando gli uomini a convertirsi in uno spirito nuovo, quello di Ezechiele: chiedendo a Dio un cuore di carne, sensibile, capace di amare e di soffrire, al posto del vecchio cuore di pietra, pietrificato, appunto, nella selva dei legalismi, dell’osservanza puramente esteriore, se pur scrupolosissima, della Legge. Gesù si preoccupava così poco di piacere al mondo, che, il più delle volte, dopo aver guarito i malati o liberato gli indemoniati, comandava loro, severamente, di non dirlo a nessuno; e quando, presa dall’entusiasmo, la folla, in seguito al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, voleva farlo re, egli si sottrasse in fretta, andando a rifugiarsi nella solitudine e nella preghiera.

Ebbene: come Gesù stesso ha ammonito i suoi discepoli, nel corso dell’Ultima Cena, non c’è servo superiore al padrone; e, se hanno perseguitato lui, presto avrebbero perseguitato anche loro. Pregando, poi, il Padre per essi, Gesù non ha chiesto che li difendesse dalle persecuzioni, ma, semplicemente, che li proteggesse dal male: il male non è quello che gli altri vogliono infliggere al seguace di Cristo, ma la perdita della vera fede. Alla luce di tutto questo, come si può onestamente sostenere che la Chiesa cattolica, per essere fedele a Cristo, deve andare incontro allo spirito dei tempi; che deve spogliarsi della propria tradizione, a cominciare dalla liturgia; che deve proclamare il relativismo e rinunciare al proprio specifico messaggio di verità: che deve, cioè, rinunciare alla sostanza del Vangelo? Come si potrebbe presentare una tale operazione come benefica per la Chiesa e per il cristianesimo; come si potrebbe, onestamente, sostenere che essa rappresenterebbe un progresso sulla via della realizzazione del "vero" cristianesimo, della manifestazione della "vera" fede? Il fatto di piacere al mondo, di essere graditi al mondo, di non essere affatto in contrasto con il mondo, vorrebbe forse dire, per i cristiani "moderni", aver raggiunto il proprio scopo, più e meglio di quanto fatto dai cristiani delle generazioni precedenti?

Ma se la cultura moderna, ad esempio, proclama la perfetta liceità dell’aborto, del divorzio, delle unioni omosessuali, dell’eutanasia, ciò significa che il cristiano, per essere aperto verso di essa, per essere dialogante, per essere, appunto, sensibile alla modernità, deve approvare tali cose, o fingere di non vederle e lasciar fare qualsiasi cosa, anche quelle più platealmente in contrasto con la lettera e con lo spirito del Vangelo? Significa che, per amare il prossimo, bisogna assecondarlo nei peggiori errori, nei vizi più gravi, nelle colpe più laceranti? Certo, ne conosciamo di cristiani di tal fatta; ne abbiamo visti ormai parecchi, anche fra i membri del clero cattolico, di simili cristiani tutti dialogo e strizzatine d’occhi con il mondo moderno, i quali, guarda caso, paiono avere un solo, irriducibile, ossessionante avversario: i propri confratelli che la pensano "all’antica", ossia che non sono inclini a tali compromessi, a tali capitolazioni.

Povero von Balthasar, come si è sbagliato. Senza dubbio, un uomo come lui era in perfetta buona fede, quando proclamava che la Chiese deve fare della periferia il proprio centro, aprendosi al mondo; tutta la sua vita, specchiata e lineare, sta a dimostrarlo: ma di sicuro non intendeva quello che intendevano gli innovatori a oltranza. Tanto è vero che il precursore del Concilio Vaticano II ha subito lo smacco di non essere nemmeno inviato a quel concilio: bisognava che ci fossero soltanto i teologi d’una certa tendenza, d’un certo orientamento: lui — lo s’intuiva -, avrebbe dato solo fastidio.

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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