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C’è un solo discepolo: l’uomo; una sola verità: l’essere; un solo maestro: Dio

Chi è il discepolo, chi è il maestro, e quale dev’essere la relazione che si stabilisce fra di essi, posto ch’essa sia autentica?

Non sono affatto domande oziose; sono fondamentali: se non mettiamo bene a fuoco, con una esigente ricerca del vero, la reale natura del discepolo, la reale natura del maestro e la reale natura della relazione che si stabilisce fra l’uno e l’altro, tutto il fatto educativo precipita nel vuoto, o, peggio, sprofonda nelle mefitiche paludi della menzogna, della falsa verità.

Il discepolo, per definizione, è colui che vuole imparare; in senso spirituale, è colui che vuole imparare l’essenziale. Ma lo vuole veramente? Oppure è sufficiente ch’egli creda di volerlo, mentre, in realtà, non lo vuole affatto, specialmente se la cosa finisse per rivelarsi assai più faticosa, assai più impegnativa di quello che aveva immaginato? E come si fa, come fa egli stesso per sapere se di un vero discepolo si tratta, animato da una autentica volontà d’imparare, a qualsiasi costo, oppure d’una banale contraffazione di quel che un discepolo dovrebbe essere?

Passiamo al maestro. Chi può dirsi tale, chi può considerarsi tale, ed essere considerato tale anche dagli altri, dai possibili discepoli? Evidentemente, colui che conosce l’essenziale; non solo: ma anche colui che sa come si trasmette l’essenziale a un discepolo, ossia la condizione educativa; altrimenti, il suo sapere sarebbe sterile e inerte, né potrebbe giovare ad alcuno — neppure a lui stesso. Infatti, conoscere la verità solamente per se stessi, senza sapere o potere o volere condividerla con altri, è ben misera cosa; vorremmo dire che è impossibile, perché la verità trasforma colui che la possiede, e lo rende capace di trasmetterla a sua volta. La verità è come l’amore: chi ne possiede il segreto, non può tenerlo per se stesso; ma chi non può tenerlo per se stesso, lo sa anche comunicare agli altri — diventa un conoscitore del cuore umano.

Ecco una definizione, dunque: il vero maestro è un conoscitore della verità, e anche del cuore umano; le due cose vanno di pari passo, perché la verità giace nel fondo del cuore dell’uomo, e chi arriva al fondo di esso, arriva anche al segreto della verità. Impossibile immaginare le due cose come separate e indipendenti: esse procedono di pari passo, appaiate, come due buoi aggiogati al medesimo aratro; e insieme, di comune intesa, arano la terra feconda, che è l’anima del discepolo, rivoltandola zolla per zolla: perché solo a tale condizione essa potrà dare frutto.

Ecco, dunque, come dev’essere la relazione fra discepolo e maestro: deve essere realizzata in modo tale che il discepolo ne sia intimamente trasformato, non sia più lo stesso uomo che era prima; ma non per diventare una copia o uno strumento del maestro, bensì per rinascere a se stesso, per realizzare in se stesso il proprio dover essere: in breve, per fare di sé quel che è giusto sia fatto, quello per cui egli, come ogni altro essere umano, è stato chiamato alla vita.

Sören Kierkegaard, in quel bellissimo libro di filosofia che in pochi, tutto sommato, anche fra i suoi ammiratori, si son presi la briga di leggere, intitolato «Briciole di filosofia» – e che, insieme al suo seguito ideale, la monumentale «Postilla conclusiva non scientifica alle "Briciole di filosofia"», entrambi formati con lo pseudonimo di Johannes Climacus, fa del pensatore danese un maestro del pensiero dialettico, pur essendo egli il massimo critico della dialettica idealista -, ha svolto forse le più profonde riflessioni sul rapporto fra il discepolo e il maestro di verità (da: S. Kierkegaard, «Opere», a cura di Cornelio Fabro, Firenze, Sansoni Editore, 1993, pp. 207-209):

«Se il maestro dev’essere occasione che ha il compito di far ricordare al discepolo, allora non è affatto in grado di ricordargli ch’egli in fondo conosce la verità, perché il discepolo è precisamente la non-verità. Ciò per cui il maestro può essere per lui l’occasione per ricordare, è ch’egli è la non-verità. Ma con questa consapevolezza il discepolo viene a trovarsi escluso dalla verità, più che se egli non sapesse di essere la non-verità. A questo modo, appunto col risvegliare il ricordo nel discepolo, il maestro allontana da sé il discepolo; soltanto che il discepolo col ritornare in se stesso non scopre ch’egli prima sapeva la verità, ma scopre la sua non-verità Rispetto a questo atto di coscienza vale il principio socratico che il maestro è soltanto occasione, chiunque egli sia, fosse pure un Dio; poiché la mia non-verità io non la posso scoprire che da me stesso, perché essa non è scoperta se non quando sono IO a scoprirla (con il presupposto sopra indicato circa il momento, questa è l’unica analogia al metodo socratico).

Se ora il discepolo deve ricevere la verità, allora bisogna che il maestro gliela porti; non solo, ma bisogna che gli dia anche la condizione per comprenderla; perché se lo stesso discepolo fosse per se stesso la condizione per comprendere la verità, egli non avrebbe bisogno che di ricordare; giacché la condizione per comprendere la verità e come il poter interrogare sulla medesima: condizione e questione contengono il condizionato e la risposta (altrimenti, se così non fosse, il momento non dovrebbe essere inteso che in senso socratico).

Ma colui che dà al discepolo non soltanto la verità ma anche la condizione, non è un maestro. Ogni insegnamento riposa in ultima analisi su questo, che la condizione è presente: se questa manca, il maestro non può nulla, perché in caso diverso egli non dovrebbe formare ma creare il discepolo, prima d’incominciare a istruirlo. Ma questo non è possibile ad alcun uomo: se ciò si potesse fare, dovrebbe essere opera di Dio stesso.

In quanto ora il discepolo esiste, egli è certamente creato e quindi Dio deve avergli dato la condizione per comprendere la verità (perché altrimenti prima egli sarebbe soltanto un bruto, e sarebbe stato il maestro ad avergli dato la condizione per comprendere la verità, a farlo per la prima volta uomo); ma in quanto il momento deve avere un’importanza decisiva (se non si assume questo, noi stiamo ancora nella situazione socratica), il discepolo dev’essere senza condizione, quindi deve esserne spogliato. Questo non può accadere con l’intervento di Dio (sarebbe una contraddizione), e neppure per un puro caso (sarebbe una contraddizione che ciò ch’è più basso possa superare ciò ch’è più alto); bisogna quindi che ciò sia accaduto a causa di lui stesso. Se l’uomo avesse potuto perdere la condizione non a causa di lui stesso e si trovasse nello stato di perdita senza che ciò accada a causa di lui stesso, allora egli sarebbe in possesso della condizione soltanto in modo casuale, il che è contraddittorio, poiché la condizione per la verità è una condizione essenziale. La non-verità non è quindi soltanto essere fuori della verità, ma è essere polemicamente contro la verità, vale a dire — in altri termini — ch’egli ha sprecato e spreca la condizione.

Il Maestro è allora Dio stesso, il quale agendo come condizione fa sì che il discepolo si ricordi ch’egli è non-verità e che lo è per propria colpa. Ma questo stato di essere la non-verità e di esserlo per propria colpa, come lo potremo chiamare? Chiamiamolo il PECCATO.

Quindi il Maestro è Dio che dà la condizione e dà la verità. Come dobbiamo ora chiamare un simile maestro? […] Chiamiamolo un SALVATORE, poiché egli salva il discepolo dalla non-libertà, lo libera da se stesso; un REDENTORE, poiché libera colui che s’era fatto prigioniero da se stesso, e nessuno è così tremendamente prigioniero, e nessuna prigionia è così difficile a spezzare come quella in cui l’individuo tiene se stesso! E non si è detto ancora abbastanza; poiché mediante la non-libertà il singolo si è reso colpevole di qualche cosa: e se quel Maestro gli dà la condizione e la verità, allora Egli è anche un RICONCILIATORE il quale toglie l’ira che grava sulla sua colpa.

Un Maestro simile il discepolo non lo potrà mai dimenticare, perché nello stesso momento egli ricadrebbe in se stesso, come colui che, un tempo in possesso della condizione, dimenticando ch’esiste Dio, sprofondò nella non-libertà. Se essi s’incontrano in un’altra vita, allora quel Maestro potrà dare la condizione a colui che non l’avesse ricevuta, per lui Egli apparirà un altro. La condizione è in verità un deposito, di cui il fiduciario deve sempre dare conto. Ma un Maestro simile, come lo chiameremo? Un Maestro può di certo giudicare se il discepolo fa qualche progresso o non; ma giudicarlo non lo può, perché dev’essere abbastanza socratico da vedere ch’egli non dà al discepolo la cosa essenziale. Quel maestro allora in fondo non è maestro ma Giudice.»

Tirando un po’ le somme del discorso, e servendoci del pensiero di Kierkegaard come d’una strada già tracciata, per proseguire, eventualmente, per la nostra via: il maestro è colui che sa, il discepolo colui che non sa, e che sa di non sapere; inoltre, che desidera imparare. Ma la scelta del discepolo sarà fatta dal maestro, e non viceversa; perché, fra chi sa e chi non sa, a scegliere dev’essere il primo, non il secondo; altrimenti, come farebbe a scegliere, quest’ultimo? Il maestro, dunque, si sceglie il proprio discepolo, e lo pone nella condizione di poter imparare: ché, altrimenti, tutta la sua scienza sarebbe vana, e il suo insegnamento, velleitario e inutile.

Dove trovare, però, un maestro che non solamente conosca la verità, e tutta la verità (perché conoscerne solo una parte, o alcune parti, equivale a non conoscerla affatto: con l’aggravante di credersi sapienti, quando si è sommamente ignoranti), ma sia anche in grado di porre il discepolo nella condizione di poterla apprendere? Qual è il maestro che ha un potere sulla condizione? Nessun maestro umano risponde ad un tale requisito: nessun maestro umano conosce la verità tutta intera; e nessuno è capace di porre il discepolo nella giusta condizione, per il semplice fatto che la condizione non dipende tanto dalle circostanze esterne (che già sono difficili da controllare e dominare, per qualsiasi maestro), ma anche e soprattutto dal livello di consapevolezza del discepolo medesimo, che dipende da lui e da lui solo. Nessun maestro umano, infatti, sarà mai capace di creare tale consapevolezza, se il discepolo non lo vuole realmente; e, per volerlo realmente, deve essere consapevole della realtà del proprio livello di consapevolezza: ma ciò non dipende da nessun altri che lui. Il maestro può lavorare su ciò che già esiste, e sia pure in potenza, aiutandolo a svilupparsi; ma non può creare, di bel nuovo, quello che non esiste.

Eppure, c’è un maestro che può fare tutto questo, e, inoltre, che lo vuole, alla sola condizione che il discepolo si lasci scegliere, si lasci illuminare, e che si abbandoni totalmente a lui. Non è un maestro umano: è il Maestro per eccellenza, Dio; e non un Dio qualunque, creato dalla mente e dai desideri degli uomini, ma il Dio che si è fatto uomo, ossia che si è messo, da se stesso, come le sue creature, nella condizione: la condizione dell’uomo che cerca la verità, che anela alla verità, che vive solamente per la verità. La condizione del perfetto discepolo; un discepolo che, umanamente parlando, e solo umanamente parlando, non esiste; e che, appunto, è propria di un unico discepolo fra milioni e milioni: il discepolo che si fa maestro di se stesso, che trova la verità in se stesso, che diviene così Maestro con la maiuscola: il Dio che si fa uomo e che condivide la vita degli uomini, sino al punto più basso: il tradimento e l’abbandono dei discepoli (ch’egli aveva innalzato alla dignità di amici), la tortura, una morte pubblica e socialmente vergognosa. Per poi risorgere, di nuovo Maestro, e Maestro per sempre e per ciascuno di noi.

Il Maestro divino sceglie i suoi discepoli, ma non esclude nessuno: di fatto, tutti sono da lui scelti, ma pochi sono quelli che rispondono. Il perché di questo apparente paradosso, non dipende da Lui: per amare la verità, bisogna essere in due; e l’uomo è libero di amare o non amare, dunque anche di amare la verità, o di non amarla. Eppure, tutti sono scelti, tutti sono chiamati: e, anche questo, è un attributo del solo Maestro divino: nessun maestro umano lo potrebbe fare, neanche il più grande. E questo perché il maestro umano non può porre la condizione; se lo potesse, allora non avrebbe più bisogno di scegliere questo o quel discepolo: potrebbe sceglierli tutti, chiamarli tutti. Ed è appunto quel che fa il divino Maestro, nella sua sapienza e bontà infinite. Se tutti gli uomini rispondessero, non vi sarebbe libertà: perché vi sia libertà, bisogna che vi sia qualcuno che non la vuole, che la rifiuta, in nome della sicurezza, del "pane", dell’ordine assicurato da qualcun altro.

In conclusione, possiamo dire che esiste un solo discepolo, l’uomo di buona volontà, che sia leale con se stesso e con ciascun altro; che esiste una sola verità, l’essere, al di fuori del quale non vi sono che le lande desolate del nulla, della disperazione e della follia; e che esiste un unico maestro, Dio, il Dio che si fa uomo: tutti gli altri non sono che impostori, impegnati a recitare una commedia assai mediocre; tutto il resto non è che vanità, disordine e finzione. Dunque, a ciascuno di noi la scelta…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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