
La città antica era bella. Quella odierna… Le città antiche avevano un’anima.
28 Luglio 2015
Che lezione straordinaria e commovente quel lauro abbarbicato sull’orlo dell’abisso
28 Luglio 2015A partire dall’Illuminismo, la cultura moderna è stata letteralmente presa d’assalto dai cultori del cosmopolitismo, che ne hanno fatto la religione "buona" dell’umanità; quella "cattiva", specialmente a partire dalla seconda guerra mondiale e dal suo esito disastroso per l’Europa, è divenuta l’amor di Patria, la fierezza della propria identità sociale e culturale, sbrigativamente equiparati al "nazionalismo" e, con ciò stesso, liquidati e sepolti una volta per tutte sotto il cimitero dei grandi errori e dei grandi crimini della storia.
Gli intellettuali politicamente corretti, di destra e di sinistra, sono, tendenzialmente o apertamente, cosmopoliti; il che, nelle circostanze storiche di questo nostro presente, equivale a dire che si sono fatti campioni della globalizzazione e ardenti crociati del’idea mondialista: sognano gli Stati Uniti del Mondo e s’immaginano che quando gli uomini e le comunità si saranno sbarazzati del fardello negativo delle nazioni e delle identità linguistiche, religiose, culturali, in nome di una società mondiale multietnica e multiculturale, tutto andrà nel migliore dei modi.
Che le cose non stiano proprio così; che non siano così semplici, così chiare, così logiche e lineari come essi vorrebbero far credere, appare tuttavia evidente a chiunque abbia conservato un minimo di senso critico, di conoscenza della storia e d’indipendenza di giudizio. Nonostante il coro della propaganda mondialista, le crepe dei suoi ragionamenti capziosi, l’affacciarsi continuo dei suoi interessi inconfessati e inconfessabili, insomma il trasparire del volto oscuro ed inquietante del totalitarismo democratico che si cela dietro le formule accattivanti di questi laudatori del progresso e della "civiltà", sono sempre più evidenti, e mettono in sospetto anche parecchi di quanti, in un primo tempo, ingenuamente avevano preso per buone le loro trite, ma suadenti parole d’ordine, e si erano trastullati nell’attesa del momento in cui un tale Paradiso in terra verrà, finalmente, instaurato, mettendo in fuga come topi di fogna tutti quelli che vi si oppongono o che nutrono dei dubbi sulla sua desiderabilità ed eccellenza.
Il fatto è che l’uomo, da sempre, e per sempre, ha bisogno di riconoscersi in una comunità: in una famiglia, in una città, in una nazione. Certo, anche in un continente, e, come passo finale, nell’umanità intera: ma è chiaro, per chi voglia rettamente considerare la cosa, che quanto più si allarga l’orizzonte del suo senso di appartenenza, tanto più quest’ultima tende ad affievolirsi. Il fatto di sentirsi membro dell’umanità non è più un sentimento, ma un’idea, vale a dire il risultato di un processo di astrazione; mentre il senso di appartenenza, di identità, è qualcosa di molto concreto, di sentimentale: d’istinto si amano la propria comunità e la propria terra, così come d’istinto si amano i propri genitori e la propria famiglia (a meno che esistano situazioni abnormi le quali agiscano in direzione contraria).
Ora, questi senso di appartenenza immediata, vicina, legato a ciò che entra concretamente e quotidianamente nella nostra vita, non è affatto "il male", come vorrebbe far credere la cultura politicamente corretta, oggi dominante; non ha proprio niente di negativo, anzi, è un fattore altamente positivo, perché nasce dal naturale affetto ed esprime la doverosa gratitudine che noi dobbiamo alla nostra famiglia, alla nostra comunità e alla nostra terra, che è anche la terra dei nostri nonni e dei nostri avi. Non c’è nulla di male, beninteso, finché tale sentimento non degenera in campanilismo, in chiusura, in diffidenza preconcetta verso l’altro, o, nel caso della nazione, in nazionalismo ottuso e aggressivo, foriero di contrapposizioni e di conflitti incessanti con le altre nazioni e gli altri popoli. Il che è avvenuto, non vogliamo nascondercelo: e nondimeno, sarebbe cosa sommamente ingiusta e sbagliata gettare via il bambino insieme ai pannolini sporchi.
Anche taluni intellettuali e scrittori dei quali la cultura di sinistra, da decenni dominante in Italia, tende a fregiarsi come di nomi che le appartengono, hanno sentito e riconosciuto il calore e il valore, affettivo e morale, di questo senso di identità. Fra i molti, possiamo citare il caso di Cesare Pavese, il quale, benché arruolato a forza nelle file dell’ideologia marxista "ortodossa" e si stretta osservanza (e si veda, in proposito, il ruolo nefasto svolto nella sua vita e nel suo percorso letterario dal suo vecchio professore di liceo, Augusto Monti, comunista duro e puro, sempre pronto a riprenderlo e a ricattarlo, psicologicamente e intellettualmente, anche negli anni della maturità, facendogli pesare i suoi "deviazionismi piccolo borghesi", come allora si diceva), nondimeno era profondamente convinto che il senso di appartenenza al proprio paese, inteso come la radice identitaria di ogni essere umano, fosse assolutamente necessario per ancorare la vita di ciascun singolo individuo alla vita più ampia degli altri.
Memorabile la pagina de «La luna e i falò» in cui Pavese conduce il protagonista del romanzo — soprannominato Anguilla, e del quale non viene mai detto il nome vero -, sul filo della memoria, a ricercare nelle colline delle Langhe il senso del proprio passato e della propria vita, dopo anni vissuti come emigrante in America:
«L’altr’anno, quando tornai la prima volta in paese, venni quasi di nascosto a rivedere i noccioli. La collina di Gamnella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un pendio così insensibile che alzando la testa non se ne vede la cima — e in cima, chi sa dove, ci sono altre vigne, altri boschi, altri sentieri — era come una scorticata dell’inverno, mostrava il nudo della terra e dei tronchi. La vedevo bene, nella luce asciutta, digradare gigantesca verso Canelli, dove la nostra valle finisce. Dalla straduccia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al canneto. Vidi sul ciglione la parete del casotto di grosse pietre annerite, il fico storto, la fine stretta vuota, e pensavo a quegli inverni terribili. Ma intorno gli alberi e la terra erano cambiati; la macchia dei noccioli sparita ridotta una stoppa di meliga. Dalla stalla muggì un bue, e nel freddo della sera sentii l’odore del letame. Chi adesso stava nel casotto non era dunque più così pezzente come noi. M’ero sempre aspettato qualcosa di simile, o magari che il casotto fosse crollato; tante volte m’ero immaginato sulla spalletta del ponte a chiedermi com’era stato possibile passare tanti anni in quel buco, su quei pochi sentieri, pascolando la capra e cercando le mele rotolate in fondo alla riva, convinto che il mondo finisse alla svolta dove la strada strapiombava sul Belbo. Ma non mi ero aspettato di non trovare più i noccioli. Voleva dire ch’era tutto finito. La novità mi scoraggiò al punto che non chiamai, non entrai sull’aia. Capii lì per lì cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue, non starci già mezzo sepolto insieme ai vecchi, tanto che un cambiamento di colture non importi. Certamente, di macchie di noccioli ne restavano sulle colline, potevo ancora ritrovar mici; io stesso, se di quella riva fossi stato padrone, l’avrei magari roncata e messa a grano, ma intanto mi faceva l’effetto di quelle stanze di città ove si affitta, si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti.
Meno male che quella sera voltando le spalle a Gaminella avevo di fronte la collina del Salto, oltre Belbo, con le creste, coi grandi prati che sparivano sulle cime. E più in basso anche questa era tutta vigne spoglie, tagliate da rive, e le macchie degli alberi, i sentieri, le cascine sparse erano come li avevo veduti giorno per giorno, anno per anno, seduto sul trave dietro il casotto o sulla spalletta del ponte. Poi, tutti quegli anni fino alla leva, ch’ero stato servitore alla cascina della Mora nella grassa piana oltre Belbo, e Padrino, venduto il casotto di Gaminella, se n’era andato con le figlie a Cossano, tutti quegli anni bastava che alzassi gli occhi dai campi per vedere sotto il cielo le vigne del Salto, e anche queste digradavano verso Canelli, nel senso della ferrata, del fischio del treno che sera e mattina correva lungo il Belbo facendomi pensare a meraviglie, alle stazioni e alle città.
Così questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto. Uno gira per mare e per terra, come i giovanotti dei miei tempi andavano sulle feste dei paesi intorno, e ballavano, bevevano, si picchiavano, portavano a casa la bandiera e i pugni rotti. Si fa l’uva e la si vende a Canelli; si raccolgono i tartufi e si portano in Alba. C’è Nuto, il mio amico del Salto, che provvede di bigonci e di torchi tutta la valle fino a Camo. Che cosa vuol dire? Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d’occhio e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. Queste cose si capiscono col tempo e l’esperienza. Possibile che a quarant’anni, e con tutto il mondo che ho visto, non sappia che cos’è il mio paese?»
Eppure, è possibile non sapere più che cos’è il proprio paese: possibilissimo, in un mondo che tende a omologare ogni cosa, a sbiadire e cancellare ogni differenza, a cancellare ogni traccia di identità e ad estirpare ogni radice e ogni senso di appartenenza.
I cittadini delle società moderne sono presi tra l’incudine e il martello: da un lato, il diabolico meccanismo consumista, orchestrato dalle multinazionali e dai grandi poteri finanziari, li spinge a uniformarsi a dei riti e a dei miti fondati sopra un modello "modernista" di stile americanizzante, incentrato sull’esaltazione della moda, della tecnica, dell’usa-e-getta, della megalopoli, del grattacielo, della macchina, della velocità, del "progresso" (un po’ come volevano i nostri ingenui futuristi nei primi anni primi del ‘900) e, soprattutto, del "successo" economico e sociale; dall’altro, si incoraggia in ogni modo una graduale invasione di intere popolazioni provenienti dal Sud del mondo, nei Paesi a capitalismo avanzato, ma soprattutto in Europa, invasione malamente mascherata da "migrazione" e perfino da "emergenza umanitaria", in modo da alterare, nel modo più capillare e nel tempo più breve possibile, tutto il tessuto etnico, sociale, culturale, religioso delle nostre società, sì che nell’arco di poche generazioni l’identità europea scompaia completamente e si trasformi in una forma indistinta e disordinata di mescolanza razziale, linguistica, culturale e religiosa, alla quale nessuno ha il diritto di opporsi, se non vuol venire individuato e biasimato, forse anche emarginato e respinto, come razzista, o, nel migliore dei casi, mediante il ricatto buonista, come insensibile e indifferente al dramma delle popolazioni povere dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Come se quel dramma si potesse risolvere incoraggiando la migrazione indiscriminata di masse umane promiscue, o la disperata avventura sui battelli della morte, la quale, oltretutto, serve a finanziare una immorale tratta degli esseri umani da parte di potenti organizzazioni criminali, e perfino di talune centrali terroristiche.
Sono le due facce della campagna mondialista, sostenuta e reclamizzata da gran parte della cosiddetta stampa "libera" e, in generale, dai mezzi d’informazione: i quali, già dal tipo di lessico che adoperano per descrivere il fenomeno, per non parlare dei commenti gratuiti e tendenziosi che un qualsiasi telecronista si sente in diritto di aggiungere, invece di offrire al pubblico la notizia pura e semplice dei fatti, portano avanti una strategia massiccia, implacabile, incessante, mirante a manipolare la cosiddetta opinione pubblica e a far accettare alle popolazioni europee ciò che, alla luce di un minimo di riflessione, nonché del puro e semplice buon senso, appare come del tutto inaccettabile: l’ipoteca radicale, pericolosissima, sul futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti, destinati a perdere completamente la propria identità, le proprie tradizioni, il proprio senso di appartenenza, in nome di un mondialismo velleitario e senz’anima, semplice paravento per coprire i tenebrosi disegni di controllo e di dominio globale da parte d’una una élite che si tiene nell’ombra e che funge da punta di diamante dei poteri forti della grande finanza internazionale.
Nossignori: un paese, come diceva Cesare Pavese, ci vuole; sì, ci vuole: non potremmo vivere senza quel luogo dell’anima che è il paese natale, non foss’altro che per sapere di potercene andare, un giorno o l’altro. «Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.» Non si poteva dire di più e di meglio, con così poche parole. Bisognerebbe dirlo e ripeterlo sempre, scriverlo sulle porte delle case, sulle bandiere da esporre alle finestre: un paese ci vuole. Chi non sente la dolcezza e l’importanza di questo sentimento non è un essere umano completo, ma uno sradicato; un corpo estraneo alla vita del tutto; una mina vagante, irrequieta e senza radici, dunque anche senza valori…
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