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Thomas J. J. Altizer, ovvero il grande equivoco della teologia fondata sulla “morte di Dio”

Noi, oggi, siamo abituati ad adoperare una espressione come "morte di Dio", e perfino una espressione come "teologia della morte di Dio" (anche se non sempre è altrettanto chiaro a quali concetti rimandino siffatte parole); ma, probabilmente, non tutti si sono chiesti quando e dove, esattamente, abbiano fatto il loro ingresso, o piuttosto la loro irruzione, nel nostro universo lessicale ed in quello speculativo.

Molti pensano che il padre nobile di questa "teologia" sia il buon vecchio Nietzsche; altri, più aggiornati, pensano a Dietrich Bonhoeffer — il quale, essendo caduto vittima delle persecuzioni naziste, è rivestito da un’aura di santità che tende ad accreditare anche le sue idee religiose, per quanto esse siano, in realtà, assai involute e, a dir poco, discutibili; sbaglierebbero gli uni e gli altri: l’espressione "morte di Dio" è entrata nell’uso comune a partire dal biennio 1965-66, allorché la rivista «Time» la diffuse mediante una serie di articoli scritti dai maggiori esponenti della cosiddetta "teologia radicale" americana: Paul Van Buren, William Hamilton, Gabriel Vahanian, Harvey Cox e Thomas J. J. Altizer. In questa sede, noi prenderemo in considerazione quest’ultimo autore, a titolo d’esempio, poiché nei suoi scritti e nel suo pensiero si compendia l’intera questione della "teologia radicale", altrimenti nota come "teologia della morte di Dio".

Che cosa sostengono, in buona sostanza, costoro; che cosa sostiene Altizer, che ne è un tipico esponente? Sostengono che Dio è morto, perché Egli stesso ha scelto di moire: precisanente, con il fatto dell’Incarnazione e della Passione, Gesù Cristo ha posto la parola "fine" alla trascendenza del divino, perché ha assunto su di sé, senza riserve e senza residui, tutta la propria umanità, spogliandosi del divino e facendosi uomo tra gli uomini, definitivamente e non solo temporaneamente. Per Altizer, dunque, non c’è stata alcuna Ascensione: il Figlio non è tornato al Padre, in attesa della fine dei tempi; non ritornerà come giudice della storia e delle anime: quel che aveva da dire agli uomini, lo ha detto, e per sempre, con la sua morte nella croce. La sua ultima parola agli uomini, dunque, è che devono smettere di guardare il Cielo e devono rivolgere ogni loro pensiero alla terra: il Dio che essi aspettano, è già venuto e non tornerà. Facendosi uomo e morendo come uomo, Cristo ha abolito la distanza fra il Cielo e la terra, ha santificato integralmente la terra e ha secolarizzato, per così dire, l’universo della fede. Non c’è altro Dio in cui credere, adesso, che l’uomo stesso, né altra religione che la piena accettazione della vita terrena, senza riserve e senza residui (e qui, effettivamente, essi mostrano la loro dipendenza dal buon vecchio Nietzsche, dal suo vitalismo intransigente e dal suo superomismo fatalistico).

Insomma: Dio è morto e sepolto, evviva Dio; evviva il nuovo Dio, che è l’uomo stesso. Questa è la "nuova"religione cristiana, sfrondata dalle incrostazioni simboliche paoline e dallo "gnosticismo" giovanneo; e qui emergono gli altri debiti dei "teologi radicali" americani, in parte da Bonhoeffer, in parte da Bultmann.

Ferdinando Ormea, saggista e gran divulgatore delle opere di Teilhard de Chardin in Italia, così riassume i nodo tematici del pensiero teologico di Thomas Jonathan Jackson Altizer nel suo saggio monografico, più ampio di quel che il titolo potrebbe far pensare, «La religione del giovane Hegel» (Roma, Napoleone Editore, 1972, pp. 28-32):

«Il Dio trascendente è DEFINITIVAMENTE morto con la morte del Cristo sulla croce. Il cristiano deve ora credere che, con la vita e con la morte di Gesù, Dio ha voluto in tutto e per tutto congiungersi con il mondo.

Il Cristiano deve veramente credere che il Dio trascendente si è svuotato nel Cristo, è diventato totalmente presente in Lui. Ma il Cristo era realmente, effettivamente carne, carne umana, ed è effettivamente morto sulla croce.

Il Dio trascendente è DEFINITIVAMENTE morto con la morte del Cristo sulla croce. Il cristiano deve ora credere che, con la vita e con la morte del Cristo, la trascendenza si è totalmente e definitivamente trasformata in immanenza, ed è del tutto finita come trascendenza. Dio non dovrà più essere cercato in cielo ma su questa terra. Sono stati necessari alla cristianità quasi duemila anni perché questa si rendesse conto che il Dio distinto dall’uomo e dal mondo non esiste più. Mentre in un primo tempo Altizer ripeteva con insistenza che "la morte di Dio è accaduta nel nostro tempo, nella nostra storia, nella nostra esistenza", ora, dopo uno studio più accurato della dialettica hegeliana, ritiene che la morte di Dio si è universalizzata, non è solo un fatto esistenziale, ma un fatto cosmico. In termini hegeliani la morte di Dio è un auto annullamento dello spirito. Lo spirito primordiale si distrugge nel mondo e diventa carne e questo auto annullamento è ad un tempo "storico ed ontologico" […]

Aggiungiamo subito che per Altizer questa morte di Dio è un dato definitivo. Non si tratta di un’eclissi o di un nascondersi di Dio. "Dio — precisa Altizer — è veramente scomparso, non è nascosto alla nostra visione, è realmente morto. Solo se accettiamo la morte di Dio come un evento definitivo e irrevocabile, potremo aprirci alla piena attualità della nostra storia, all’epifania del mondo della fede. Quale sarà pertanto il compito della teologia? Anzitutto "non sarà sufficiente che la teologia accetti semplicemente la morte di Dio. Se la teologia deve morire sul serio, essa deve VOLERE la morte della cristianità, deve liberamente scegliere il destino che le si presenta,e e perciò deve cessare di essere se stessa. Tutto ciò che la teologia era stata fino ad oggi, ora deve essere negato, e negato non solamente perché è morto, ma perché la teologia non rinascerà MAI PIÙ, a meno che non attraversi e liberamente voglia la propria morte e dissoluzione". Ma compiuto questo primo passo un ulteriore passo deve essere fatto. Non si tratta di accettare supinamente, passivamente, questa morte di Dio e della teologia tradizionale, ma di CAPIRE cosa significhi e coinvolga tale morte della teologia. Opponendosi nettamente, totalmente, alla vecchia teoria cattolica dell’"analogia entis", allo scolasticismo medievale e moderno, ad ogni teologia che affermi che ciò che noi chiamiamo Dio è essenzialmente diverso da ciò che noi chiamiamo e comprendiamo come uomo e come mondo, noi riusciremo a renderci conto del vero significato dell’incarnazione. L’incarnazione è in realtà l’incontro diretto, reale e attuale di Dio e del mondo, come una "coincidentia oppositorum", come una coincidenza e coerenza di opposti; Dio e il mondo o la creatura e il creato. L’incarnazione, solo ne neghiamo TOTALMENTE ogni forma di teologia classica, cattolica e protestante, annullerà ogni opposizione ILLUSORIA tra Dio e mondo, e rappresenterà, realizzerà una viva riconciliazione di opposti prima estranei tra loro, tra una trascendente forma di Dio estraneo al mondo ed una forma di mondo caduto, spezzato ed estraneo a Dio. "Io — sostiene Altizer — oso insistere che l’incarnazione è una coincidenza di opposti REALI. Ma come conseguenza dell’incarnazione la reale opposizione tra Dio e mondo è trascesa. Da questo punto di vista il principio scolastico che v’è una differenza essenziale ed eterna tra Dio e il mondo deve necessariamente avere come conseguenza il RIFIUTO, il rifiuto VERO dell’evento, o almeno della realtà dell’incarnazione. E l’accusa del cristianesimo radicale a quello ortodosso è che quest’ultimo è semplicemente non cristiano". […]

L’autoannullamento di Dio nel mondo che si attua mediante l’incarnazione è correlato ad un preciso finalismo. Il processo dialettico mira verso un suo fine terminale. Vi è un "eschaton", verso il quale tutto e tutti siamo in cammino. "Dio tutto in tutti" è una fine cosmica e non semplicemente esistenziale, come Altizer avrebbe detto anni fa nella sua seconda fase di sviluppo. Oggi egli non ritiene più che non vi sia un ordine, una direzione, una finalità, nella storia del cosmo, all’infuori della situazione esistenziale…»

Potremmo continuare, ma crediamo che basti e che il lettore si sia fatto un’idea sufficiente del pensiero teologico di Altizer, quello più "maturo", corrispondente alla terza fase della sua evoluzione speculativa.

Che dire di questo teologo che proclama la morte della teologia, di questo cristiano che proclama la fine della cristianità, di questo credente che dichiara la necessità di non credere più a Dio, ma solo all’uomo e al mondo, perché Dio, dopo l’incarnazione, ha rinunciato ad essere Dio e si è fatto tutto in tutti — in breve, di questo religioso che professa il più puro naturalismo e il più rigoroso panteismo materialista? Si potrebbero liquidare i suoi spropositi come semplici aberrazioni, come il delirio febbrile di una mente impazzita per l’ebbrezza d’aver trovato, essa soltanto, la giusta chiave d’interpretazione del cristianesimo (con tutti quegli "adesso" e quegli "oggi", nei quali esplicitamente Altizer afferma d’averne trovato, lui, proprio lui, il vero senso ed il vero compimento, rendendone possibile la comprensione e la realizzazione da parte dei cristiani). Si potrebbe, tutt’al più, lamentare che con simili sproloqui egli non sia approdato alla logica e coerente conclusione di abbandonare il nome di cristiano, di rinnegare Cristo e di proclamare che Dio non esiste (che sciocchezza, dire che Dio è morto: la sua morte non dipende da noi, da noi può solo dipendere la credenza nella sua morte); si potrebbe deprecare che, restando all’interno del cristianesimo e continuando a parlare di cristianesimo, questo teologo che non ammette alcuna teologia, perché non ammette alcun Dio fuori del mondo, abbia seminato confusione, turbamento, forse anche angoscia, fra i credenti.

In realtà, nella sedicente teologia radicale, bene esemplificata in questa pagina di Altizer, c’è molto di più e molto di peggio della semplice incoerenza e della semplice presunzione intellettuale, sia pure esasperata fino al narcisismo più solipsistico. Dopo aver fatto una scorpacciata e una autentica indigestione di Nietzsche, Bultmann, Bonhoeffer, appaiono chiaramente le vere radici del pensiero di Altizer e dei suoi compagni di strada: il panteismo idealistico e la dialettica triadica di Hegel, l’evoluzionismo cristocentrico di Teilhard de Chardin (donde il particolare interesse per Altizer da parte di Ferdinando Ormea, grande ammiratore di entrambi questi pensatori), e, ancora più a monte, di ottimismo pelagiano e di gnosticismo naturalistico. Il reale non è creazione di Dio, ma spirito che pensa se stesso: Dio che diviene, che si fa natura, che si fa storia; e la natura e la storia corrono entrambe, spontaneamente, verso il Cristo futuro (ma un Cristo, chi sa come, immanente!), non perché Dio le chiama a sé, la redime, invitando l’uomo a collaborare con la propria redenzione, ma così, perché la natura è vitale e buona in se stessa e perché, dopo il fatto dell’incarnazione, essa ha assorbito in sé il principio del divino, così come la terra assorbe in sé il seme che darà vita alla pianta futura. La storia, pertanto, si muove spontaneamente verso il proprio compimento: come in Marx, il suo movimento dialettico, dal punto di vista umano, è sostanzialmente inutile, perché, in ultima analisi, esso si realizzerà comunque, e l’uomo non deve fare altro che prenderne piena ed intera consapevolezza.

In definitiva, per Altizer il mondo non ha alcun bisogno di essere redento: esso non è stato ferito dal peccato; a questo punto, però, non si capisce il senso dell’Incarnazione: perché Dio si è fatto uomo, se non c’era bisogno di redenzione? Inoltre, l’idea che Dio, incarnandosi, abbia "svuotato" sé stesso della propria divinità, per trasmetterla, in un certo senso, al mondo, dovrebbe logicamente portare a una divinizzazione del mondo e ad una auto-divinizzazione dell’uomo: ma è stato davvero questo il senso dell’Incarnazione? Cristo sarebbe dunque venuto al mondo perché il mondo diventasse totalmente autonomo, totalmente auto-sufficiente, totalmente buono? Diciamo ancora meglio: Cristo è venuto al mondo per uccidere Dio (si badi: non l’idea di Dio; ma Dio stesso) e per rendere inutile la teologia e porre fine alla cristianità?

Ebbene, arrivati a questo punto, crediamo che bisognerebbe avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome: questo non è più cristianesimo, e sia pure riveduto e corretto; questo non è affatto cristianesimo: questo è ciò che, nel libro della «Apocalisse», si attribuisce all’Anticristo. Altizer delinea, né più né meno, nella sua teologia radicale, l’avvento delle regno di Satana in luogo del regno di Dio: il regno della sconfinata superbia e della rivolta contro Dio, quella stessa superbia da cui è cominciata la caduta dell’uomo, e da cui la natura tutta è risultata ferita, deturpata, ed è divenuta bisognosa di redenzione.

Quello che sembra incredibile è che né lo stesso Altizer, né gli altri teologi della morte di Dio, né i loro interlocutori e i loro contraddittori, si siano resi conto fino a che punto ci si trovi qui in presenza di una teologia del Demonio, di una contro-iniziazione finalizzata al trionfo del Male. Il male è carenza di bene, diceva sant’Agostino: e una umanità la quale si creda così perfetta e "liberata" da non avere mai più bisogno di Dio, anzi, da sentirsi divina essa stessa, è l’espressione faustiana, demoniaca, di un mondo terribilmente impoverito di bene, oltre che terribilmente impoverito d’intelligenza.

Altizer e gli altri, però, non hanno avuto il fegato e l’onestà di portare la loro idea sino in fondo. Hanno continuato a giocare con le parole e a nascondersi, un po’ meschinamente, dietro di esse. Che cosa vuol dire, per esempio, che l’opposizione tra Dio e mondo è irreale, illusoria, e che i cristiani "maturi", i cristiani "adulti" (come dire che gli altri cristiani, in realtà, pargoleggiano) devono convincersi, ora e per sempre, che un Dio distinto dal mondo e distinto dall’uomo non esiste più? Dunque, tale distinzione, "ab origine", esisteva? E se esisteva, perché esisteva, visto che Dio, incarnandosi, avrebbe voluto sopprimerla? Sì, è vero che san Paolo afferma che Dio, alla fine, sarà tutto in tutti: "alla fine", però, ossia quando Cristo ritornerà per porre fine al mondo e alla storia, e non già sin d’ora, e per sempre, dopo il fatto dell’Incarnazione. Infatti, Altizer non parla della Resurrezione: questo piccolo, insignificante dettaglio della teologia cattolica, sul quale i teologi "classici" (come lui li chiama, con sufficienza e con disprezzo) hanno costruito, per un paio di migliaia d’anni, le loro elucubrazioni e le loro mitologie.

Ma è possibile, è pensabile, e soprattutto ha ancora un qualche significato, un Cristianesimo senza la resurrezione di Cristo?

Eppure, san Paolo — nella Prima Lettera ai Corinzi – è chiarissimo su questo punto: se Cristo non è risorto, allora la speranza dei cristiani è vana, e la morte avrà pur sempre l’ultima parola, sull’uomo e sul creato intero.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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