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Se perdiamo la capacità di sognare avremo perduto noi stessi

Oggi si adopera molto, e si abusa, del verbo "sognare" e, più ancora, dell’espressione "coltivare il proprio sogno": linguaggio zuccheroso e generico, dietro il quale si nasconde, spesso, il vuoto spirituale più desolante; popolato, in compenso, di confuse e indistinte velleità, di irragionevoli e sconclusionate aspettative. Pare che qualunque balordaggine diventi qualcosa di sacro, se viene contrabbandata dietro l’espressione: "inseguire il proprio sogno": quasi che il sogno fosse lì, davanti a noi, come una farfalla che ci svolazza sulla punta del naso e noi lì, sudati e affannati, ma gioiosi, a darle la caccia per prenderla e ficcarla nella nostra reticella. Quando è vero, semmai, che il sogno è dentro di noi, è parte di noi: e, se si tratta di un bel sogno, sarà esso stesso a visitarci, a illuminarci, a indicarci la strada; se no, potremo sprecare la vita intera ad inseguirlo, non lo raggiungeremo mai, perché si raggiunge solo quel che si merita.

Tutto questo non toglie che la capacità di sognare sia importante, anzi, fondamentale per l’equilibrio interiore della nostra vita: chi perde i propri sogni (al plurale, e non al singolare, come tanto spesso si usa dire), si perde se stessi: questo è un aforisma degli aborigeni australiani, la cui complessa cosmogonia e la cui antichissima mitologia riposano, appunto, sulla credenza in un’epoca remota e tuttavia decisiva della storia del mondo, detta, appunto, il Tempo del Sogno. Non già — diciamolo subito – nel senso che qualunque sogno sia bello e meritevole di essere preso come la stella cometa della nostra vita; ma al contrario: nel senso che la capacità di sognare, vale a dire di avvolgere il reale nel velo dell’idea, della bellezza e della poesia, è indispensabile per conservare quello stupore e quell’incanto del mondo che contraddistinguono i bambini, e la cui assenza, nello sguardo e nel comportamento degli adulti, tradisce, così spesso, la delusione esistenziale, l’odissea dell’amarezza e del rancore, la perdita di qualunque illusione e di ogni speranza.

Un adulto che ha conservato in sé lo stupore davanti al reale e l’incanto del mondo, è un adulto che ha saputo difendere quanto di meglio si può ereditare dall’infanzia, purché, ovviamente, egli sappia coniugarlo con la saggezza, con la riflessione, con l’introspezione, le quali, lungi dal distruggere la dimensione del sogno, la rafforzano e la irrobustiscono nel cimento quotidiano della vita, permettendogli di affrontare le peggiori tempeste e di attraversare gli aridi deserti della solitudine, della sconfitta, dell’angoscia e del turbamento. Un adulto siffatto sarà, a sua volta, una preziosa fonte di freschezza e di entusiasmo per i bambini, per i suoi figli in primo luogo, e poi per tutti i piccoli con i quali entrerà in contatto, come zio, come nonno, come maestro, come vicino di casa o in qualunque altra veste o funzione: perché i bambini hanno bisogno di adulti che li aiutino a sognare, che raccontino loro delle belle fiabe, che li accompagnino nella scoperta del mondo misterioso che sta oltre le apparenze, al di là della opaca superficie delle cose.

Un bambino che abbia avuto la fortuna d’incontrare un adulto così, ne resterà positivamente influenzato per tutta la vita; potrà divenire un poeta, un artista, un mistico; oppure potrà ammantare di poesia ogni ora della sua vita, anche se si troverà a svolgere le mansioni più prosaiche e se verrà assorbito dalle responsabilità e dalle preoccupazioni più assillanti.

Una tale fortuna è capitata allo scrittore Ernst Wiechert (1887-1950), figlio d’un guardaboschi della Prussia Orientale; per lui, quella persona adulta, capace di farlo sognare, fu la zia Veronica, che egli avrebbe ricordato con nostalgia e gratitudine nel volume autobiografico «Boschi e uomini» (titolo originale: «Wälder und Menschen. Eine Jugend»; traduzione dal tedesco di F. Federici, Milano, Bompiani, 1955, pp. 74-6, 80-1):

«Molto prima che venisse di moda il "ritorno alla natura", zia Veronica mangiava gnocchi d’avena e, quando mio padre fumava, alzava la mano dicendo: "Il diavolo ti esce fuori dalla bocca".

Può darsi che non fosse la persona più adatta per stare con un bambino incline al sogno e tutto volto verso l’irreale; eppure oggi mi chiedo spesso: "Sarei diventato poeta, se n on avessi trovato la sua mano che, in qualunque momento, poteva guidarmi oltre la soglia, al di là della quale comincia l’altro mondo, quello invisibile".

Sempre, quando è carnevale, o sta per venire o per finire, il passatoi risorge dalla terra dell’infanzia, chiusa tra i grandi boschi. Nel tempo di carnevale risorgono i miei buoni morti, i miei immortali: zia Veronica, dai grandi occhi estatici, con la quale trascorrevo ogni anno la notte di carnevale…, il gatto Sempreverde…, la Bibbia pesante che oscilla sulle sue ginocchia… cosa leggeva, allora, quand’ero bambino? E prendo la Bibbia dal mio tavolino da notte e cerco… l’Ecclesiaste, al terzo capitolo. Ecco il fatto mai dimenticato… E vedo il gesto con cui inforca gli occhiali sugli occhi lucidi, e la sento ridire: "Per tutto c’è il tempo stabilito, e ogni impresa sotto il cielo ha la sua ora… Nascere e morire, piantare ed estirpare ciò che è piantato…, Strangolarsi e guarire, demolire e costruire, piangere e ridere, lamentarsi e danzare… Disperdere le pietre e ammonticchiarle, aver nel cuore ed essere lontano dal cuore…".

E mentre ho ancora tra le mani il pesante volume, tanto greve, come se reggessi i quarant’anni trascorsi da quel giorno, ecco risorgere le grandi parole che zia Veronica fece echeggiare nel mio cuore fanciullo, parole che allora non capivo, ma il cui suono era tanto grande e solenne e che dicevano di strangolamento e di guarigione, del cuore e della lontana dal cuore.

Quand’ero fanciullo vivevo nel bosco come un piccolo animale nella sua tana e nessuno straniero bussava mai alla porta della nostra casa. La neve mi esaltava, e mi esaltano i sogni, e solo in occasione delle grandi feste pioveva su di me la luce di un mondo estraneo. Perché Papà Natale veniva fino alle nostre finestre attraverso i boschi, nel giorno dell’Epifania venivano i bambini stranieri dai paesi a levante con una stella rossa, e la sera di carnevale ce ne andavamo nella cittadina da zia Veronica. Era un viaggio di cinque chilometri attraverso i boschi silenziosi. Mi avvolgevano negli scialli e mi mettevano sotto la coperta, cosicché, esposti all’aria non rimanevano che gli occhi, e vedevo i pini neri sfilare e dietro i pini ardere, come un incendio, il cielo vespertino. Le spalle del cocchiere mi sovrastavano come una montagna e, quando chiedevo sottovoce se i lupi ci seguissero, quello rispondeva senza parlare, alzando la frusta, così che le campanelle appese ai pettorali dei cavalli tintinnassero più forti e coraggiose.

E così mi conducevano nel regno delle fiabe; perché zia Veronica era la fiaba. I miei genitori mi depositavano da lei e ripartivano per il ballo mascherato, l’unico loro ballo in tutto l’anno. Zia Veronica mi cava fuori dai miei scialli, mi metteva a sedere sulla sua poltrona, calava gli occhiali sul naso e stava per un bel pezzetto a guardarmi. "Diventerai un poeta, tu, Andrea", diceva ogni volta, pensierosa. "Ti cucirò una giacca variopinta, perché sei diverso dai tuoi fratelli, e perché si possa riconoscerti quando ti venderanno in Egitto…".[…]

Vecchia buona zia Veronica! Quarant’anni più tardi ti accolsero nell’ospizio dei vecchi del nostro capoluogo, perché vi passassi i tuoi ultimi giorni, e ogni Natale ti mandavo un piccolo ricordo, perché pensassi a me e due candeline di più potessero adornare il tuo albero. Non avevi ammassato tesori, perché le tue dita sapevano voltare le pagine della Bibbia e suonare la cetra, ma non sapevano scrivere i conti. Anche laggiù, tra tutti quegli esseri stanchi e consumati dalla vita, fosti ancora una luce radiosa e consolatrice, piena di saggezza e d’intuizione, e nelle lettere che mi scrivevi per l’anno nuovo non dimenticavi mai di chiedermi se fosse ancor salda la mia fede nel Signore. In molte città ho letto al pubblico le tue fiabe, finché finii col saperle a memoria; per mai acquistarono al mio orecchio un suono stanco e monotono, e sempre ho sentito il pianto salirmi agli occhi quando ho pronunciato le parole della Bibbia, e nel silenzio della sala sentivo echeggiare non la tua, ma la mia voce.

Ho conquistato così per te un pochino di immortalità, prima assai che ti venisse elargita quella che attendevi e nella quale credevi con la stessa fiducia che nel Vangelo.»

Sì, è stato davvero fortunato Ernst Wiechert, ad incontrare, nel cammino della sua vita di bambino, una persona eccezionale come la sua zia Veronica: ne ha ricevuto delle impressioni, degli stimoli, degli esempi così potenti di amore per la vita, di stupore e d’incanto del mondo, di gioiosa apertura verso il reale, quali non avrebbe potuti mai riceverne da una dozzina di precettori o di educatori professionali.

Le impressioni fondamentali si formano nei primi anni di vita: quando il bambino entra nell’età scolastica, il suo mondo interiore non è più vergine, come potrebbe sembrare all’adulto, che lo osserva dall’esterno: in pratica, fra i cinque e i sei anni al massimo, i giochi sono fatti; e tutto quello che verrà dopo, per quanto importante potrà essere, non arriverà mai ad esercitare su di lui una influenza altrettanto significativa, né in bene, né in male.

Se, in quei primi anni di vita, il bambino ha la ventura di incontrare una persona adulta che lo introduce nel mondo incantato dei sogni, quella esperienza numinosa, impareggiabile, getterà una luce di splendore su tutta la sua vita di adolescente e, poi, di adulto; lo accompagnerà per sempre, fino agli ultimi giorni della sua vita, e gli trasmetterà entusiasmo, conforto, fiducia nella bontà del reale, aiutandolo a superare i momenti difficili, le situazioni ingrate: perché la capacità di guardare al reale con stupore e gratitudine è la chiave per ricostruire le energie che vengono quotidianamente assorbite e logorate nella lotta quotidiana contro le avversità, grandi e piccole, di cui è fatta una esistenza umana, anche la più fortunata e serena.

Una vita umana non può dirsi bene orientata, qualora si limiti al calcolo utilitaristico dei pro e dei contro, al perseguimento di interessi puramente materiali, al soddisfacimento di bisogni — anche legittimi — che non s’innalzino mai al di sopra della dimensione immanente e finita. Una vita umana, per realizzare l’obiettivo che le è proprio — costruire la persona buona — ha bisogno anche di qualcosa che le indichi le altezze, che sostenga e incoraggi in essa gli impulsi più sensibili, gli slanci più generosi. Ha bisogno di aria, di luce, del profumo di quel che non si traduce in una convenienza immediata, ma dischiude la prospettiva dell’eterno. E questo è un orientamento che non si può improvvisare, specialmente nell’età adulta, ma che va coltivato e alimentato, fin da piccoli, con l’aiuto di qualche persona adulta che sia capace di farlo.

Gli adulti, ovviamente, possono dare ai bambini solo quel che possiedono e non quello di cui sono privi. Un adulto inaridito dalla vita, deluso, amareggiato; un adulto che non ha mai guardato più in là della punta del proprio naso, che non ha mai avvertito il bisogno di volare in alto, di annusare il profumo dell’assoluto e dell’eterno, non solo non potrà guidare il bambino nel senso che abbiamo detto, ma eserciterà su di lui una influenza nefasta, contribuendo a farne, nel più breve tempo immaginabile, un precoce vecchietto, una creatura avvizzita anzitempo: perché, lo ripetiamo, colui che perde la capacitò di sognare, perde anche se stesso.

Qualcuno potrebbe obiettare che, se la vita è una lotta — e non vi sono dubbi al riguardo -, allora, coltivando nel bambino la capacità di sognare, si rischia di farne un disadattato, e, quel che è peggio, di consegnarlo, inerme e indifeso, davanti alle difficoltà che lo aspettano, le quali richiedono ben altre doti, che non il saper sognare, per essere superate: doti di tipo pratico, e anche una certa dose di astuzia e di malizia.

Noi non lo crediamo. Sarebbe come dire che non bisogna amare troppo o che non bisogna avere troppa fiducia nel prossimo. Il pericolo non sta nell’amare troppo o nell’avere troppa fiducia, ma nell’amare nel modo sbagliato e nell’avere fiducia verso le persone sbagliate. Il pericolo, insomma, non è nella quantità, ma nell’indirizzo che si dà ai propri sentimenti e alle proprie relazioni con gli altri. Così come l’amore non è mai troppo, né la fiducia, allo stesso modo la capacità di sognare non è mai troppa. Che cosa vuol dire: "troppo"? La verità, la bontà e la bellezza non sono mai "troppe"; né può esserlo la giustizia. Il fatto è che esistono maniere giuste e maniere sbagliate di sognare: e questo è il pericolo. Ma i sogni della fantasia infantile, non sono mai cattivi. E nessun adulto ha mai subito un danno dal fatto di aver saputo sognare nella propria infanzia; semmai, è vero il contrario…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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