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Regola numero uno: imparare l’umiltà, ovvero ridimensionare l’ipertrofia dell’ego

La regola aurea, per una vita serena e per trovare la giusta direzione nella ricerca del Vero, è sempre la stessa che predicavano i monaci medievali e che i grandi mistici e le grande mistiche dei secoli passati, ma anche del tempo presente, non hanno mai scordato, e della quale hanno saputo fare, anzi, la stella polare e il costante riferimento dei loro pensieri, dei loro sentimenti, delle loro parole e delle loro azioni: imparare, giorno per giorno, l’arte dell’umiltà; ovvero, se vogliamo dirla in un linguaggio oggi più familiare, vista la quasi totale secolarizzazione delle pratiche meditative e dei percorsi di ricerca spirituali: ridimensionare l’ipertrofia dell’ego.

La grande malattia di cui soffrono, da sempre, gli esseri umani, ma specialmente nel mondo moderno, è la crescita abnorme, sproporzionata, tirannica, dell’ego; l’emergere prepotente delle pulsioni egoistiche, alle quali né la volontà, né il senso morale, sembrano avere più nulla da contrapporre; l’assoluta incapacità, per la maggior parte degli esseri umani, di porre un limite a tali pulsioni, e, insieme ad esse, al proprio smodato narcisismo, sì da non riuscire a vedere più niente, intorno a sé, assolutamente niente altro che non siano innumerevoli specchi riflettenti l’immagine dell’ego, onnipresente, ossessionante, insaziabile, quasi demoniaca.

Ora, l’ego non è l’io, e tanto meno il sé: non è l’io, ma solo una parte di esso, quella più rumorosa e invadente, quella più istintiva e irrequieta; e non è il sé, perché quest’ultimo è il risultato della elaborazione finale, o, in ogni caso, è il frutto di un continuo cammino di auto-consapevolezza e di maturazione della coscienza, ottenuto mediante prove ed errori, sacrifici, rinunce, difficoltà, battaglie e sconfitte, nella ricerca incessante della luce: di quella condizione privilegiata nella quale le cose acquistano un significato diverso e tutto il quadro dell’esistenza si trasfigura e s’illumina, per così dire, dall’interno, rivelandosi infinitamente affascinante.

È solo quando ci si avvicina a quello stato, che ci si rende conto di quale dono immenso, inestimabile, sia la vita umana: ed è solo allora che ci si rende conto di come nessuna fatica e nessun sacrificio siano troppo grandi, se il fine è quello di arrivare anche solo a intravedere, fugacemente, ma con intensità indimenticabile, tutto lo splendore e tutta la suprema armonia dell’essere, così come essa si rivela non già da un punto di vista incompleto e parziale, ma nella sua totalità e, per così dire (ma è solo un modo di dire), dall’alto. È come vedere la valle dalle pure altezze della montagna, invece che dal livello delle bassure paludose.

Liberarsi dall’ipertrofia dell’ego, dunque; ma come? Perché l’ego è un complesso di emozioni, di pensieri, di brame, di timori, un nodo aggrovigliato e in perenne, frenetico movimento, del quale sembra quasi impossibile riuscire a liberarsi, o da cui sembra difficilissimo evadere, anche solo per pochi attimi, anche solo per respirare una boccata d’aria fresca e frizzante, dopo aver dovuto respirare così a lungo un’aria viziata ed opprimente; e la mente, la sua principale manifestazione, non sta mai quieta, non sta mai tranquilla, non si posa mai, non conosce requie: non si fa in tempo a bloccare un pensiero, che subito ne rampollano altri due, tre, dieci, mille.

Pare l’idra di Lerna: impossibile arrestarla, se si tenta di affrontarne le molte teste, una alla volta; si direbbe un compito superiore all’umano. Invece, non è poi così difficile come potrebbe apparire; specialmente se ci si allena alla disciplina dell’umiltà e ci si alleggerisce, un poco alla volta, un giorno dopo l’altro, di qualche frammento dell’ego, fino a diventare leggeri.

Ha scritto, a questo proposito, l’abate benedettino tedesco Benedikt Baur (nato a Mengen, nel Baden-Württemberg, il 9 dicembre del 1877 e morto a Beuron, nella medesima regione, il 10 novembre del 1963), nel suo libro «Luce dell’anima» (titolo originale: «Werde Licht», Freiburg, Herder Verlag, 1956; traduzione dal tedesco a cura delle monache benedettine del monastero di S. Paolo in Sorrento, Roma, Casa editrice Herder, 1961, pp. 220-222):

«L’orgoglio è debolezza. L’orgoglio crede di poter fare tutto da sé; non ha bisogno né di Dio né degli uomini perché basta a se stesso.  Con quali conseguenze? Tutti i giorni deve esperimentare quanto poco l’uomo valga in se stesso, quanti errori commette, quante volte cade. Tutti i giorni subisce delle dolorose disillusioni. Allora s’indispettisce, si irrita, diventa di cattivo umore. Cerca il proprio onore; vuole avere quello che è appariscente, calcola, segue i mutevoli interessi del proprio vantaggio, le opinioni altrui, la moda, la corrente del momento e perciò è costantemente eccitato, inquieto, agitato. L’orgoglio ha il cuore ristretto, limitato al suo io ed ai suoi meschini interessi.  Ha in se stesso la sua mercede; sarà umiliato. Non soltanto Dio lo respinge, ma anche il mondo lo disprezza, anche se lo adula e lo serve. Non basta: sarà di castigo a se stesso. L’orgoglio non può ricevere benedizione: "Dio resiste ai superbi"; perciò l’orgoglio porta necessariamente all’agitazione interiore, alla divisione dell’anima: le forze dell’uomo, non avendo a disposizione la forza di Dio, s’indeboliscono.

L’orgoglio confida nel suo talento, nella sua intelligenza, nei suoi sforzi e nel suo lavoro. "Canna fessa che, se uno ci si appoggia sopra, gli entra nella mano e gliela fora" (Is., 36, 6). L’orgoglio è debolezza perché "Dio ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare i forti; acciocché nessun individuo si glori al cospetto di Dio" (1 Cor. 1, 27). 

[…] L’umiltà è forza. Essa è unita sempre e dappertutto alla nobiltà di cuore, la quale è l’ornamento di tutte le altre virtù. Infatti essa non è mai contenta dell’apparenza, delle cose fatte a mezzo; non si pasce di immaginarie approvazioni e di successi passeggeri; è instancabile e insaziabile nel bene, serena nel sacrificio, ingegnosa nelle sue manifestazioni d’affetto. Perché? Perché ha per radice l’umiltà. L’uomo umile non pensa a se stesso, non dà nessuna importanza al giudizio del mondo, degli uomini, al proprio onore, al proprio vantaggio, alla soddisfazione dei propri desideri e delle proprie inclinazioni; ma si preoccupa solo della santissima volontà di Dio e della sua gloria. Tutto quello che risplende all’infuori di Dio non esiste per lui! solo quello che viene da Dio e porta a lui, ha importanza.

L’uomo umile è disinteressato e perciò non conosce l’invidia e la gelosia; gli basta che "il Cristo sia annunziato" (Filipp., 1, 18). Le azioni degli altri non hanno su di lui effetto paralizzante, ma anzi lo spronano ad essere più fedele, per rendersi utile alla società.

L’uomo umile è il più coraggioso: minacce, scherni, calunnie non lo smuovono; adulazioni ed allettamenti non hanno alcun effetto su di lui; è pronto a fare tutto quello che la volontà di Dio gli chiede. A lui si può affidare qualsiasi incarico, anche il più difficile e il più umiliante, poiché non si spaventa davanti a nessuna fatica, a nessuna sofferenza; può tutto in colui che è la sua forza. Meno l’uomo umile confida in sé, più incrollabile è la sua fiducia nell’onnipotenza divina, che gli rende possibili le cose più grandi.

Quante volte i grandi genii si affaticano, eppure tutti i loro sforzi non danno grandi risultati, mentre al contrario altri, che, per genialità e talento, non possono reggere al loro confronto, sono benedetti in tutto quello che intraprendono. è il segreto dell’umiltà, della diffidenza di sé, della fiducia in Dio nella sua grazia. "Dio dà la sua grazia agli umili", "chi si umilia sarà esaltato". […]

Anche il segreto della forza del cristiano è lo spirito d’umiltà che lo anima.  "Dio dà la sua grazia agli umili". Quanto più grande è l’umiltà e tanto maggiore è nell’anima la disponibilità e lo spazio per l’azione di Dio. Tutto quello che di buono e di grande verrà operato negli uomini e per mezzo loro, può fiorire e svilupparsi solo sotto la protezione dell’umiltà. 

Perché tanta debolezza, tante colpe e tante ricadute? Perché nella nostra pietà ci fidiamo di noi stessi e ci dimentichiamo di Dio, che solo opera in noi il volere e l’agire (Filipp., 2, 23). "Chi si esalta sarà umiliato".»

Può darsi che questo discorso possa apparire troppo "religioso" e, ovviamente, troppo "cristiano", il che — non ce ne meraviglieremmo — induce talune persone a scostarsi, pressoché d’istinto, da un’acqua freschissima, perché sul fatto di essere divorate dalla sete prevale il pregiudizio ideologico laicista, in base al quale ciò che più conta non è la sostanza di una cosa, ma l’etichetta con la quale si pretende di identificarla. Ebbene: provi il lettore, fosse pure il più esigente, a sopprimere ogni riferimento alla religione e allo stesso cristianesimo; provi a tradurre in termini puramente filosofici i concetti qui sopra esposti; e, quanto al fatto che l’autore è un monaco benedettino, immagini di non averlo mai saputo e faccia pure finta che egli sia un laico, e che non faccia alcun riferimento a un determinato credo religioso.

Il discorso, allora, suonerebbe press’a poco così: il vero nemico di una vita serena e di una sincera ricerca della verità, è l’ego: per spogliarsene, è necessario liberarsi di una certa quantità di orgoglio, di presunzione, di arrogante fiducia in se stessi, per farsi piccoli, miti, senza alcuna ambizione mondana; bisogna bonificare, ripulire l’anima dal veleno della mente inquieta e febbrile, che gira incessantemente su se stessa; infine, si deve lasciar andare l’inutile bagaglio della paura e del desiderio smodato, dell’attaccamento alle cose, della sciocca e illusoria identificazione del proprio io con esse. Nessun riferimento a Dio, se così si preferisce; ebbene, la sostanza del discorso non cambia. Il riferimento a Dio vi aggiunge qualcosa, anzi molto; dà al ragionamento una prospettiva nuova e più alta: pure, non è assolutamente indispensabile. Quel che è necessario, è il non adottare un punto di vista puramente e semplicemente materialista: è sufficiente conservare almeno un barlume, almeno una scintilla di nostalgia per la dimensione spirituale dell’esistenza. Ed ecco che le cose si fanno subito chiare, acquistano un significato illuminante.

Non è affatto un discorso confessionale, limitante, esclusivista; non è affatto un discorso che possa essere compreso e condiviso solo da chi ha fatto la scelta di aderire a una certa fede, o di entrare a far parte di una certa chiesa. È un discorso universale, infinitamente saggio, infinitamente prezioso, infinitamente compassionevole. La compassione, innanzitutto, deve essere verso se stessi: non si può amare l’altro, se prima non si ama se stessi. E non si può amare se stessi se si accetta l’idea di rimanere eternamente schiavi delle catene dell’ego. Questa è la tragedia, in gran parte non riconosciuta, dell’uomo moderno: che egli crede di amarsi e di volersi bene, solo perché indulge a mille capricci e a mille debolezze, che solleticano la sua vanità superficiale; ma, a ben guardare, non solo non si vuole bene, ma nemmeno si ritiene degno di consolazione. Rifiuta di essere consolato e si scaglia con rabbia contro chi gli porge gli strumenti della consolazione: è divenuto il peggiore nemico di se stesso, e questo appunto perché ha consegnato il dominio di se stesso alle forze primordiali, selvagge, irragionevoli dell’ego.

Così come non vuole essere consolato, l’uomo contemporaneo non si ritiene degno neppure di redenzione. Vorrebbe redimersi da solo: redimersi dai propri errori, ma anche dalla sofferenza, dalla vecchiaia, dalla morte; ma, ovviamente, non ne è capace. Allora passa da un orgoglio luciferino a un estremo di scoraggiamento e di auto-umiliazione: dispera di potersi salvare, dispera di poter essere mai salvato. Però non si umilia nella maniera giusta: la disperazione, di per sé, non conduce da nessuna parte, ma solo all’ulteriore abbassamento, alla distruzione delle proprie potenzialità spirituali. È un buco nero che divora tutto ciò che di bello e di buono offrirebbe l’esistenza umana. L’umiliazione diventa una porta preziosa spalancata sulla verità, solo se essa è vista e accettata come un passaggio necessario, come una presa d’atto dell’insufficienza umana.

Non c’è nulla di male nell’essere umani, e dunque imperfetti. Quello che è male, è il non riconoscere il proprio limite e la conseguente pretesa di farsi Dio: che è precisamente il peccato mortale dell’uomo accecato dall’orgoglio, fin dai tempi di Adamo ed Eva. Eccoci tornati là donde eravamo partiti: al problema dell’orgoglio. Dove c’è orgoglio, c’è anche un tradimento dello statuto ontologico proprio dell’essere umano: una pretesa di farsi Dio; pretesa blasfema, causa d’infinite sciagure. L’uomo non può farsi Dio, dunque non può redimersi; tuttavia, può essere redento, se accetta il proprio statuto ontologico di creatura. Ed ecco la "ricetta" dell’umiltà: facendosi umile, spogliandosi del fardello dell’ego, l’uomo torna ad essere amico di se stesso; e pure amico di Dio…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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