
In Franco Amerio la teologia s’incontra con la fede per uscirne rafforzata e vivificata
28 Luglio 2015
Per san Paolo, il dilagare dell’omosessualità viene dal rifiuto di rendere a Dio il culto dovuto
28 Luglio 2015L’esperienza dei preti operai, anche se numericamente e ideologicamente può dirsi pressoché conclusa, ha aperto discussioni e polemiche e ha attraversato, secondo i punti di vista, come un gioioso squillo di tromba, o come una dolorosa ferita che non ha smesso di sanguinare, la storia della Chiesa cattolica del secondo Novecento; vale pertanto la pena di spendervi ancora qualche riflessione, poiché molte delle questioni in essa coinvolte possiedono una portata più ampia, che investe l’intero significato della vita sacerdotale e della natura della presenza dei preti nella società odierna, laicizzata e secolarizzata, anzi, post-cristiana se non proprio anti-cristiana.
Il fenomeno si manifestò in Francia, in maniera quasi improvvisa, negli anni dal 1946 al 1954, sotto gli auspici del cardinale Emmanuel Suhard, arcivescovo di Parigi dal 1940; ma, in effetti, era stata preparata da due circostanze significative: una inchiesta sul territorio metropolitano, promossa dal medesimo cardinale, relativa al fenomeno della scristianizzazione, specialmente nell’ambiente operaio, dalla quale era scaturita la pubblicazione di un libro, «La Francia, terra di missione?», passato però quasi inosservato, dati i tempi (era, infatti, il 1943, nel pieno dell’occupazione tedesca di Parigi); e l’iniziativa clandestina che aveva visto un certo numero di preti francesi raggiungere, in incognito, i loro connazionali che erano stati adibiti al lavoro nelle fabbriche del Terzo Reich, parte come prigionieri di guerra o come vittime di rastrellamenti, parte come operai "volontari": preti che avevano cercato di assicurare il servizio religioso anche al rischio di essere scoperti e rimandati indietro, o internati nei campi di concentramento, ove alcuni trovarono la morte.
Fin dall’inizio, se si vuol dire le cose come stanno, l’esperienza dei preti operai francesi, presto diffusasi anche in Italia e in molti altri Paesi d’Europa, incontrò critiche e fece divampare polemiche, ponendosi oggettivamente come un fattore problematico e divisivo all’interno della Chiesa cattolica. Le accuse partivano spesso dai loro superiori gerarchici, i vescovi, e riguardavano principalmente due aspetti: sul versante liturgico e organizzativo, il fatto che essi trascurassero o modificassero troppo liberamente gli orari, le cerimonie, le modalità del loro servizio pastorale (per esempio, abolendo l’uso della lingua latina nella messa), e che si facessero troppo assorbire dal modo di vivere degli operai, fino a non praticare più una vita spirituale adeguata, fatta di preghiera, meditazione e raccoglimento; sul versante, per così dire, politico, di avere adottato la prospettiva propria dei partiti di sinistra, la lettura dei fenomeni sociali fatta dal marxismo, e di porsi, in definitiva, in solidarietà pratica con il comunismo, in tutte le questioni concernenti la partecipazione dei cattolici alla vita politica.
Fu per questo che, da Roma, il papa Pio XII e il cardinale Giuseppe Pizzardo, dopo attenta analisi del fenomeno, imposero l’alt all’esperienza dei preti operai, e ordinarono ai seminaristi di non andare a lavorare nelle fabbriche, e ai preti operai di lasciare il loro posto e rientrare nelle loro diocesi e parrocchie, entro il principio di marzo del 1954. Il fenomeno, però, non si esaurì subito, perché una buona parte dei preti operai, all’incirca una metà di essi, rifiutarono di obbedire all’ordine e scelsero di "rimanere fedeli alla classe operaia", alla quale avevano deciso di votarsi, anche andando incontro alle estreme conseguenze, ossia l’abbandono del ministero sacerdotale. Nel 1959 Pizzardo, prefetto della Congregazione per i seminari, rese pubblica una lettera nella quale intimava ai preti operai la scelta definitiva, gesto che segnò il punto di non ritorno nella vicenda. Pochi anni dopo, nel 1965, i preti operai ebbero la loro "rivincita", allorché il Concilio Vaticano II riconobbe la bontà della loro iniziativa e ne autorizzò la ripresa.
Eppure, dopo aver conosciuto un picco negli anni ’70, il fenomeno è ormai ovunque in calo e si è ridotto a dimensioni trascurabili; tutt’altro che trascurabili, invece, sono state le questioni che tale esperienza ha portato all’attenzione dei credenti, sia di ordine teorico, che pratico.
Ha scritto Maurilio Guasco nel suo saggio "Seminari e clero parrocchiale" (nel volume: "I cattolici e il dopoguerra", a cura di Elio Guerriero, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1991, pp. 18-20):
Uno degli elementi che avrebbe spinto la Santa Sede ad assumere un atteggiamento diffidente verso i preti operai era rappresentato, come avremo subito occasione di vedere, dalla loro vita di preghiera. Come è possibile, si chiedeva, per un prete impegnato in fabbrica, almeno otto ore al giorno, trovare poi il tempo da dedicare a quelle pratiche di pietà che rappresentavano, almeno nella tradizione sacerdotale più recente, impegni inderogabili per chi avesse scelto la vita sacerdotale? Come sarebbe diventata la loro vita sacerdotale, se privata di quegli strumenti fondamentali rappresentati dalla quotidiana recita del breviario e del rosario, dalla preghiera di adorazione al Santissimo Sacramento, dalla Messa e dalla quotidiana meditazione?
Ma proprio su questo punto si sarebbe aperto un ulteriore dibattito, d’altronde già in corso alla fine degli anni Quaranta: quel’elenco di pratiche di pietà richieste al prete diocesano costituiva davvero l’essenza della sua vita spirituale?
Il problema non era nuovo, e si era posto in modo evidente anche nel corso del secolo XIX: numerose congregazioni erano nate per cercare risposte ai grandi problemi del tempo. Ma talvolta esse erano la risposta anche a un altro problema, classico nella storia della spiritualità: l’esistenza o meno di una spiritualità del clero diocesano, il difficile rapporto fra vita attiva e vita di preghiera, la delusione sentita spesso dal clero diocesano per il proprio impegno pastorale e la conseguente fuga da quell’impegno, per inventare nuove forme di presenza al mondo. Le nuove congregazioni ricevevano l’impulso proprio da preti diocesani alla ricerca di una più profonda spiritualità, o di un impegno nel mondo che avesse la sua specificità e non la apparente dispersività della vita di parrocchia.
Vi era un riferimento sicuro, per questi interrogativi: il massimo autore della scuola di spiritualità francese, Olier, aveva affermato fin dal XVII secolo che proprio il servizio pastorale, e preferibilmente quello parrocchiale, rappresenta la maggior forma di santificazione del prete, e in esso si realizza la sua spiritualità. Lo stato sacerdotale non è affatto uno stato inferiore allo stato del religioso, ma porta, se vissuto come tale e non cercando altre forme di spiritualità, alla santificazione di chi vi appartiene. La vita interiore del prete sarà alimentata proprio dalla sua vita di impegno parrocchiale.
Tali riflessioni ritornano negli autori del secolo XX, e gli anni Quaranta riaprono il dibattito sull’esistenza o meno di una specifica spiritualità del clero diocesano. Si riscoprono linee di tendenza, o modelli significativi: fra questi, il fondatore del Prado, Antonio Chevrier, e ancora più Giovanni Maria Vianney, universalmente noto come il Curato d’Ars. I due preti, pur così diversi fra loro, hanno non pochi punti in comune: sono preti diocesani e lo restano (il Curato d’Ars un po’ a malincuore); hanno come scopo essenziale della vita l’evangelizzazione dei poveri e degli ambienti più scristianizzati: o perché sono inviati in un villaggio in via di scristianizzazione, o per scelta all’interno di una ben più ampia struttura urbana. Hanno scelto la povertà estrema, l’identificazione con Cristo, la passione per il Vangelo come mezzo di testimonianza, in una forma di totale dedizione, senza alcun risparmio della propria persona. Chevrier nutre una vera e propria devozione per il Curato d’Ars, più anziano di lui di quarant’anni: nella sua camera del Prado, sull’inginocchiatoio, troneggia il crocifisso; ai due lati, due statue che rappresentano i suoi modelli di vita e i suoi ispiratori, san Francesco d’Assisi e il Curato d’Ars. In quelle immagini, sono racchiusi tutti i temi della sua spiritualità, delle sue scoperte, che trasmette ai suoi preti. Da san Francesco ha imparato il culto per il presepio e il culto per la povertà, che conserva per tutta la vita. Non è un culto fatto di vaghi sentimentalismi e di rimpianti infantili. è la scoperta del totale annientamento di Cristo, della sua incarnazione, della scelta della condivisione della condizione umana, una scelta che si realizza nella stalla, nella povertà, e nella spogliazione totale. Dal Curato d’Ars ha imparato la donazione totale alla propria missione, il radicamento dentro la parrocchia, il senso acuto e sofferto della grazia di Dio di cui il sacerdote è dispensatore, la totale dedizione ala missione; ha imparato il distacco totale, la scelta degli altro, la convinzione che non ci si fa preti per sé, ma per gli altri.
Si tratta di figure di preti del XIX secolo che ridiventano familiari ai preti e ai seminaristi del secolo XX: il Curato d’Ars è considerato il modello del parroco, e a più riprese la Congregazione dei Seminari e gli stessi pontefici lo additano come esempio; Antonio Chevrier ritrova attualità proprio negli anni in cui si riscoprono elementi essenziali della sua spiritualità, negli anni in cui si approfondisce la riflessione sul concetto di incarnazione, di condivisione, di partecipazione alla vita degli uomini. Negli anni in cui insieme con l’apostasia delle masse si riscopre anche la necessità di entrare di quelle masse, di rivivere nuove forme di incarnazione. Cristo ha condiviso la vita degli uomini, è vissuto in mezzo a loro; questa sarà la vocazione del prete secolare, del prete di parrocchia. Il religioso è chiamato ad altri impegni: il prete di parrocchia condivide come Cristo la vita degli uomini, diventando povero con i poveri; la scelta della povertà è semplicemente la scelta della conformità a Cristo. Nessuna scoperta di nuove spiritualità, dunque, ma la riscoperta del fondamento cristologico di ogni spiritualità, e quindi anche le scelte conseguenti: un ministero rivolto essenzialmente ai poveri, la scelta preferenziale di parrocchie delle periferie urbane, uno stile di vita dimesso.
Ma chi sono i nuovi poveri, privati soprattutto del’annuncio evangelico, dove sono le nuove povertà spirituali spesso collegate anche con le povertà materiali, quali strumenti ha la Chiesa per scoprirle e ancora più per capirle? Il più grave scandalo del secolo XIX era stato, secondo un’affermazione spesso citata di Pio XI, la perdita da parte della Chiesa della classe operaia. Vi è un muro di separazione tra la Chiesa e la massa, ripeteva con angoscia il cardinale Suhard, eletto vescovo di Parigi nel 1940. Un muro che bisognava infrangere, o almeno aggirare.»
Ecco: vorremmo partire da quest’ultima domanda, alla quale il Nostro non risponde, o meglio, alla quale dà lui stesso la risposta: chi sono i nuovi poveri? Secondo lui, le "nuove" povertà sono spesso collegate con la povertà materiale; ma, in tal caso, che cosa vi sarebbe di nuovo, in esse? Non sono forse sempre esistiti, i poveri, fin da prima che nascessero la stessa Chiesa cattolica, lo stesso cristianesimo? In che senso, dunque, la Chiesa sarebbe chiamata ad interrogarsi sul significato delle "nuove" povertà? In senso puramente materiale?
Questo, secondo noi, è stato precisamente l’errore che hanno commesso quei teologi, e quei preti e quei laici, che, a un certo punto, hanno deciso di farsi carico, a nome della Chiesa, della soluzione, o almeno di un valido impegno, contro le povertà materiali entro la società moderna e industrializzata, e specialmente all’interno della classe operaia. Hanno deciso, cioè, di farsi paladini di una crociata, o, se si preferisce, di rendere una testimonianza, che non sarebbe di spettanza del cristiano in quanto cristiano, ma di quelle forze, di quelle istituzioni, di quelle persone, le quali, in quanto umane, e non in quanto cristiane, prendono a cuore i problemi sociali e soprattutto quelli dell’equità e della giustizia, e si impegnano per affrontarli, da un punto di vista umano e in un’ottica di partecipazione e di servizio alla comunità. Solo che per condurre tale battaglia non c’è bisogno dei preti, in quanto preti: possono farla benissimo, anzi, devono farla, sindacalisti, economisti, amministratori pubblici, uomini politici, e così via.
Il prete è una persona che si è consacrata a Dio e che ha deciso di vivere la sua consacrazione in mezzo ai suoi simili, nella vita sociale ordinaria; mentre il religioso è una persona che si è consacrata a Dio e ha deciso di dedicarsi totalmente al suo servizio, separandosi materialmente, ma non idealmente, dalla società: anche da un convento di clausura, il religioso o la religiosa, con la preghiera, con la meditazione, con il culto reso a Dio, partecipano ai bisogni, alle sofferenze, alle speranze del corpo sociale, e rappresentano, per esso, come un faro che brilla nella notte. Il prete, il prete diocesano, in obbedienza al suo vescovo, è un ministro del culto che vuole portare la parola di Dio, e il mistero soprannaturale dei sacramenti e della grazia, nella vita della comunità: il suo compito, la sua vocazione, la sua ragion d’essere, non sono quelli di risolvere i problemi sociali, né di immergersi totalmente nella vita sociale, come una persona qualsiasi. Il prete non è una persona qualsiasi: quando parla, quando tace, e soprattutto quando amministra la messa e le altre cerimonie sacre, in tutto quello che fa o che non fa, è un ministro di Dio; e attraverso i suoi gesti, le sue parole, i suoi silenzio, perfino i suoi pensieri, è Dio che parla agli uomini, ed è la grazia di Dio che si riversa su di loro. Ma se il prete si immerge totalmente nella vita del mondo, e sia pure con buone intenzioni; se si fa assorbire interamente dalla vita del mondo, ad esempio nel lavoro di fabbrica; se abolisce la differenza fra se stesso e i laici (come fanno i pastori protestanti) e se non parla, non pensa, non sente più come un uomo di Dio, che è pastore di tutti gli uomini, i sani e i malati, i giusti e gli ingiusti, i poveri e i ricchi, ma abbraccia la causa di un gruppo, di una categoria, di un settore della società, implicitamente o esplicitamente in polemica e in lotta (la lotta di classe) contro un’altra categoria di persone e un’altra parte sociale, egli viene meno al suo dovere, alla sua missione, alla sua ragion d’essere.
Il fatto di diventare un "comunista", o di lasciarsi attrarre nell’orbita ideologica del marxismo, non è che la logica conseguenza dell’avere abdicato alla propria condizione specifica, al proprio statuto ontologico: quello di essere un ministro di Dio, uomo fra gli uomini, sì, ma giammai totalmente immerso nelle dinamiche del mondo, bensì sempre con lo sguardo rivolto al Cielo, in modo da poter mostrare ai suoi simili — tutti, ricchi e poveri — la via da seguire per realizzare il senso e lo scopo della vita umana, che è il ritorno dell’anima al suo Creatore. Non c’è alcun dubbio che molti preti operai, forse tutti, siano partiti con le migliori intenzioni di questo mondo: ma era la strada ad essere sbagliata, in se stessa e senza possibilità di dubbio. L’uomo di Dio deve farsi tutto a tutti, come Cristo; ma l’uomo di Dio non è Cristo, è solo uno che cerca di essere simile a Lui; non possiede la sua forza sovrumana, divina: è soggetto alle umane debolezze e tentazioni; ed è semplicemente impossibile che un uomo di Dio, facendosi operaio in fabbrica, non finisca per diventare sempre meno prete e sempre più operaio. È la forza stessa delle cose che lo spinge in quella direzione: e l’unico elemento che potrebbe trattenerlo e rimetterlo sulla strada giusta, la grazia, difficilmente lo potrà soccorrere, se egli, dopo aver trascorso otto ore alla catena di montaggio, non riuscirà a disporre né del tempo materiale, né del raccoglimento necessario, per ritrovare, attraverso una intensa vita spirituale, il suo legame con la dimensione soprannaturale.
Che la classe operaia si sia allontanata dalla Chiesa, questo è un fatto; ma i preti operai, e i loro ispiratori, se ne sono accorti con centocinquanta anni di ritardo, e sono caduti nell’eccesso opposto dei confratelli che li hanno preceduti agli inizi della Rivoluzione industriale: dalla totale assenza sono passati al totale coinvolgimento. Oltretutto, non si sono accorti che la "classe operaia" non è una categoria metafisica, ma una realtà mobile, che, negli anni dopo la Seconda guerra mondiale, era ancora in espansione, ma che poi ha iniziato fata" bisogni" (molti dei quali indotti artificialmente) hanno provocato il passaggio dalla società industriale a quella post-industriale, con la relativa contrazione della classe operaia e l’enorme diffusione delle classi medie, prodotta a sua volte dalla diffusione delle attività terziarie. E così come l’avvento del comunismo mondiale sembrava alle porte, ancora negli anni intorno al 1968, così l’espansione illimitata della classe operaia ne sembrava il necessario strumento e la necessaria condizione: ma non era vera né l’una cosa, né l’altra. La classe operaia ha perso, e da tempo, la sua centralità nel mondo del lavoro, e, di conseguenza, nella società; così come il marxismo ha perso, e da tempo, la sua presa ideologica sulle masse, e non è ormai che un rudere della storia, da quasi tutti maledetto, ma molti — fra i giovani d’oggi — pressoché ignorato; rimpianto da pochissimi.
Il punto è che un sacerdote, esattamente come un religioso, in tanto è un buon operaio della Vigna, in quanto alimenta in se stesso una ricca e costante vita spirituale. Non deve rinunciare a questo bene insostituibile per nessuna ragione al mondo; quando crede di essere diventato qualche cosa di più, perché non trova il tempo di recitare il breviario, ma in compenso è considerato dagli operai di una fabbrica come uno di loro (e «Uno di loro» è appunto il titolo del libro scritto dal primo prete operaio italiano, Sirio Politi), in realtà è diventato qualche cosa di meno: ha perso la sua essenza, non è più lo strumento della grazia di Dio fra gli uomini, ma un lavoratore e un sindacalista, magari rispettabilissimo, però come ce ne sono tanti. Essere uomo fra gli uomini, per un prete cattolico, non significa diventare, in tutto e per tutto, uno di essi, bensì essere "come" uno di essi: ma sempre imprestato loro da Dio – non "regalato" -, e sempre con l’anima rivolta al Cielo, non solo alla terra…
Fonte dell'immagine in evidenza: RAI