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28 Luglio 2015
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28 Luglio 2015Per indicare l’accrescimento della popolazione, noi troviamo perfettamente logico adoperare una parola, "demografia", formata da due radici, entrambe greche, cioè straniere: eppure la lingua italiana, nella sua meravigliosa ricchezza e nel suo prodigioso sviluppo storico, avrebbe in se stessa dei vocaboli perfettamente adatti a esprimere quel concetto, a cominciare da "nascor", "nascere", da cui derivano "nativitas", la nascita, ma anche "natio", la nazione; per non parlare, poi, del Rinascimento, la "ri-nascita" (della civiltà).
E nella parola "nascita" c’è molta più forza che nella parola "popolazione", perché il verbo indica una azione, il sostantivo indica un fatto, cioè qualche cosa di statico. La popolazione non sta ferma: cresce o diminuisce; ma "crescere" o "diminuire" sono termini alquanto neutri, che possono andar bene per qualsiasi cosa, anche per la descrizione dell’andamento commerciale di una azienda (con tutto il rispetto dovuto all’economia, che è pure una cosa necessaria): mentre l’andamento di una popolazione umana è una cosa viva, ha a che fare con la speranza nel futuro, con l’amore della tradizione, con la solidità dei padri e con la tenacia dei figli.
Perché facciamo questo discorso? Perché in tutti i campi della vita, a cominciare dalle parole che adoperiamo, si nota la nostra tendenza — di noi, in quanto italiani – al ripiegamento in noi stessi, all’oblio delle radici, alla esagerata e, spesso, immotivata ammirazione per modelli stranieri, i quali vengono assunti acriticamente e ci appaiono migliori solo in ragione di una esterofilia, che è il rovescio della medaglia della nostra oicofobia, del nostro rifiuto e disprezzo per noi stessi, per la nostra civiltà, per la nostra cultura, e per quella che una volta si chiamava Patria (altra parola caduta in disuso, e peggio: adoperarla in senso serio, e non ironico, è già visto come qualcosa di politicamente sospetto….).
È un discorso, il nostro, già di per sé considerato quanto meno come inopportuno: volerlo fare, pertanto, significa entrare con gli scarponi chiodati nel negozio di cristalleria del conformismo sempre più imperante. Perfino le persone che si credono trasgressive, non fanno altro che accodarsi alla moda dominante: «Tu non parlerai italiano! Tu non sarai fiero di essere italiano! Tu non amerai l’Italia, perché la nostra Patria è il mondo, ed è finito il tempo dell’amore per le piccole patrie!». Questo è il motivo dominante che si dà ormai per scontato, al punto che non ci prende nemmeno il disturbo di predicarlo esplicitamente, perché tanto non ce né bisogno: è ormai penetrato nella mente e nel cuore degli Italiani in misura tale, che essi rispondono a qualunque sollecitazione (per esempio, una discussione in cui taluno osi sollevare il benché minimo dubbio sulla sua giustezza) con un vero e proprio scatto del riflesso condizionato. Peccato che a parlare così, contro le "piccole" patrie e a favore del globalismo totalitario, siano in tanti, almeno in apparenza; ma poi, all’atto pratico, a pensarla così siamo quasi soltanto noi: tutti gli altri parlano con fierezza la propria lingua, sono fieri di essere Francesi, Tedeschi, Inglesi, e amano il proprio Paese, almeno quanto noi disamiano il nostro. Lo disamiamo per sport, per pigrizia, per ignoranza, per viltà; ma soprattutto per conformismo, perché vediamo che (quasi) tutti lo fanno.
Così, se dobbiamo acquistare un’automobile, la preferiamo straniera; se vogliamo fare un viaggio, andiamo all’estero (anche se non conosciamo gran parte del nostro Paese); se desideriamo che i nostri figli facciano carriera, li mandiamo a studiare in qualche università estera; se dobbiamo affrontare una cura medica o sottoporci a una operazione chirurgica, ci ricoveriamo in una clinica straniera; se abbiamo un gruzzoletto da parte, cerchiamo di collocarlo presso qualche istituto di credito estero. Con la sola eccezione del calcio, facciamo il tifo per chiunque non sia l’Italia. Non parliamo della cultura, dei romanzi, dei film, dei programmi televisivi, della musica leggera… per carità, l’importante è che non siano autori od opere italiani. Lodare un regista o un cantante italiano, ci sembra quasi un delitto di provincialismo. Ce la siamo sentita dire e ripetere, questa parola, "provincialismo", come la sintesi di tutti i mali possibili e immaginabili: suvvia, non sarete mica dei miseri provinciali? S’intende che la disprezzata "provincia" è l’Italia, mentre il "mondo" sono tutti gli altri Paesi: tutti, nessuno escluso.
Abbiamo gettato via il bambino insieme all’acqua sporca; non abbiamo capito che, se il nazionalismo borioso è un male, il disprezzo del proprio Paese è ancora peggio. C’è una ragione storica per tutto questo: la secolare divisione dell’Italia in tante realtà politiche diverse; l’unificazione tardiva e, quel che è più grave, portata a termine da una minoranza, il cui sentire era radicalmente diverso, anzi opposto, a quello della stragrande maggioranza del popolo (Massoneria, anticlericalismo, illuminismo, immanentismo); gli errori in politica estera, culminati nell’obbrobrio dell’8 settembre 1943, con la coda della guerra civile; il fatto che il movimento politico, divenuto poi regime, che volle "completare" l’opera del Risorgimento, ossia formare il popolo italiano, è morto di morte violenta, travolto sotto il peso di una sconfitta schiacciante, diventando il paradigma ideologico negativo per antonomasia: per settant’anni, essere "antifascisti" era l’uniforme d’obbligo di qualunque "buon" italiano, e specialmente delle teste pensanti (si fa per dire…): uomini di cultura, intellettuali, giornalisti, artisti, registi cinematografici. E, naturalmente, presidenti della Repubblica (alla faccia del dovere di rappresentare, almeno idealmente, tutti i cittadini). Sicché, la stessa maledizione che aveva colpito quel movimento e quel regime, si è abbattuta su una parte dei valori che esso volle incarnare: quelli autenticamente nazionali e patriottici. Ecco perché, da noi, essere "patriottici" è diventata una brutta parola, una parolaccia, mentre nel resto del mondo essa è non solo lecita e ammessa, ma perfino ovvia.
Uno degli slogan più famosi del periodo fascista, «Preferite i prodotti nazionali!», è divenuto il simbolo stesso della chiusura provinciale, del bieco nazionalismo, della superbia ottusa e ignorante di un popolo che voleva "far da solo". Quel popolo, eravamo noi. Evidentemente, è cosa più bella e appropriata indossare magliette che inneggiano a una qualche università americana, sfoggiare computer e telefonini giapponesi, parlare e perfino cantare in lingua inglese (quanti cantanti stanno ormai piegandosi a questa moda, che poi è anche una strategia per vendere dischi all’estero, ma spacciando il tutto per una forma di "apertura" verso il villaggio globale).
Scriveva Pietro Silvio Rivetta nel suo libro «Preferite i prodotti nazionali! Curiosità linguistiche stravaganti e sagge» (Milano, Casa Editrice Ceschina, 1938, pp.209-17):
«Come motto, il nostro «Preferite i prodotti nazionali!» ha, al confronto con i suoi equivalenti esotici il difetto di avere una parola in più.
Ma è, questo, proprio un grave difetto? E sono i due motti britannico e francese davvero equivalenti al nostro?
Essi si limitano ad esortare il pubblico a ricordarsi di essere rispettivamente francesi o inglesi nelle loro operazioni commerciali: "Achetez français!", "Buy British!".
Il nostro "preferite!" può sembrare persino meno energico.
Ed invece è proprio il contrario.
Il preferire implica una libertà di scelta e un confronto.
Il comperare ("achetez!" "buy!") si riduce ad una operazione commerciale: si può comperare anche ad occhi chiusi. Il preferire, invece, implica una valutazione del merito e di tante altre considerazioni: implica una partecipazione spirituale, quella partecipazione che il Fascismo vuol porre a guida d’ogni nostra azione.
"Achetez!" e "buy!" sono due imperativi i quali non vanno oltre la tasca e il portafoglio: il nostro "preferite!" vuol invece penetrare nell’animo, sì che l’azione dell’acquirente sia l’effetto di una convinzione e d’un entusiasmo.
E qui l’etimologia viene a rincalzo del bell’imperativo patriottico.
Che significa "preferire" secondo le sue linguistiche origini? Tra due o più cose noi preferiamo la migliore, quella che maggiormente ci attrae: ma invece che esprimere un nostro moto verso di essa, il verbo latino – "praeferre" – indica quasi il gesto con il quale noi, riconosciutone il merito, portiamo ("ferre") più avanti ("prae") che le altre la cosa migliore. […]
Il "prodotto", come vocabolo, è prodotto italiano al 100 per 100.
È d’origine nobilissima.
Ben si congiunge, anche storicamente, con l’esortazione iniziale del motto «Preferite i prodotti nazionali!»
I "producta"- neutro plurale e globale – furono nella filosofia stoica quelle "cose preferite" che propriamente non costituiscono il vero bene, ma che pure, nella scelta, sono da anteporsi ad altre: tali sono la bellezza, la salute ecc. (Cicerone, De finibus bonorum ac malorum", III, 52).
Potrebbero avere una più bella origine i nostri "prodotti"?
Né men nobile è l’etimologia, legata ad un gigantesco verbo latino: "ducere".
"Pro-ducere", "produrre", non esprime soltanto il fatto materiale agricolo o industriale.
Per i Romani "producere exercitum in aciem" era "condurre l’esercito nella battaglia", farlo avanzare disciplinato.
Il significato di creare fu derivato da questo di "condurre innanzi", "portare in avanti" ed ebbe anch’esso un valore morale, prima ancora di quello materiale ("Magnanimos nos natura produxit", "La natura ci ha creati generosi", Seneca, Epist. CIV, 23). […]
Rimane per concludere l’etimologica analisi del motto per l’indipendenza economica, il non meno istruttivo esame dell’aggettivo che lo conclude: "nazionali".
Il nome "nazione" è stato foggiato su modello romano anche in quei paesi che non ebbero un diretto dominio di Roma: non è soltanto "nation" in francese e in inglese, o "nación" nella Spagna e "naçao" in Portogallo, o "natsiune" in Romenia: anche i Tedeschi hanno "nation" con tutti i derivati e composti: i "colori nazionali" sono "nationalfarben", e lo "hitleriano "nationalsozialismus" è formato con due voci latine e conserva persino la tipica desinenza classica.
"Nation" è voce corrente nei linguaggi scandinavi: i Russi hanno, per la loro "nazionalità" e pei suoi derivati, affianco a "norodnost", voce slava, anche "natsionalnost". […]
La "natio" latina era il fenomeno meraviglioso e onorato della "nascita": i Romani ebbero persino una dea di tal nome: "Natio".
E ben fecero ad onorarla quale benefica divinità, ché, senza la nascita nessun altro fenomeno umano è possibile.
La fecondità del popolo romano fu il fondamentale coefficiente della diffusione della civiltà latina. Come avrebbe potuto altrimenti dominare il mondo e lasciarvi le indelebili impronte un popolo che, racchiuso nella stretta cerchia romulea, divenne poi tanto numeroso da inviar soldati e coloni sino agli estremi limiti dell’Impero?
E, in una seconda grandiosa ondata di civiltà nelle forme più nobili, si affermò nuovamente il vocabolo latino della natalità: "Rinascimento", rinascita delle arti classiche.
Con due formidabili parole di questo calibro, nazione e Rinascimento, abbiamo proprio bisogno di adottare due esotici figlioli linguistici e formare la "demografia" con tutti i demografici derivati?
E "demografia" è anche parola burocraticamente flaccida per esprimere una grandiosa potenza nazionale.
Il "movimento demografico" è, etimologicamente, una semplice operazione contabile: "demos" è la popolazione e "grafia" è la scrittura, la numerica partita doppia del dare e dell’avere, attivo e passivo nei confronti della morte.
"Scrittura del popolo" è ben poco, per indicare il fenomeno della natalità.
I figlioli non basta scriverli sulla carta. Dovremmo, anzi, usare il vocabolo "demografi" per indicare ironicamente coloro i quali si dedicano largamente alla letteratura incitante alla procreazione, ma rimangono scapoli senza parole.
Per l’attività feconda latina lasciamo tutto il giusto prestigio alle voci latine della natalità. […]
L’invocazione oraziana "Di, Romulae genti date remque prolemque" sia esaudita pur nel linguaggio: abbiamo, pure linguisticamente, tale vitalità feconda da poter produrre anche nel vocabolario le "belle famiglie" delle parole italianissime.»
Che altro aggiungere? È detto tutto… Ma quando impareremo a tenere la schiena un po’ più dritta?
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