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Pierre-Simon Ballanche vede la storia umana come perpetuo processo di caduta e redenzione

Pierre-Simon Ballanche (nato a Lione il 4 agosto 1776 e morto a Parigi il 12 giugno 1847) è un filosofo e scrittore francese relativamente poco conosciuto nella sua stessa patria, e praticamente sconosciuto al di fuori di essa.

La cosa non stupisce per niente: Ballanche, dopo la Restaurazione, si era alquanto avvicinato al movimento degli "ultras" e tanto basta e avanza, nella cultura francese moderna – laicista, progressista, massonica, anticlericale, positivista –, per decretare l’ostracismo nei confronti di chiunque ricordi l’esistenza di una Francia "diversa", religiosa, legata ai valori della tradizione, critica nei confronti di ciò che, a partire dall’epoca dei "lumi", viene fatto passare per il progresso della nazione, mentre non è altro che la pretesa di cancellare dieci secoli di storia e, insieme ad essi, la dimensione spirituale e trascendente della vita.

Eppure, va detto subito che Ballanche non è un cieco reazionario, né, come cattolico, un uomo arroccato su posizioni temporaliste e indifendibili; pur non essendo un liberale, non è nemmeno accostabile a De Maistre, e perfino rispetto a Chateaubriand appare più dinamico, più aperto, più propenso ad ascoltare tutti, a tener conto di tutto, e insomma, per dirla con una espressione forse semplicistica e un po’ abusata, ma certamente efficace, ben consapevole del fatto che Dio riesce ascrivere dritto anche sulle righe storte. Per lui, infatti, non ci sono eventi della storia, per quanto in se stessi negativi, che non possano entrare a far parte di un circuito virtuoso, esattamente come il peccato, qualora il peccatore ne prenda piena coscienza e si apra a un bisogno di espiazione e di riparazione, può aprire la strada al cammino dell’anima verso la riconciliazione con Dio e, di conseguenza, verso la propria redenzione.

Come pensatore, e specificamente come filosofo della storia, Ballanche era affascinato da una questione in particolare: esplorare la connessione che, secondo lui, esiste fra il dramma collettivo della generazione e distruzione delle società umane, che continuamente si rinnova, e il dramma individuale della caduta e redenzione dell’uomo, a partire dal Peccato originale; connessione che, sempre a suo avviso, è rintracciabile nella dottrina della perfettibilità umana. Gli esseri umani, sia considerati singolarmente, sia considerati quali membri del gruppo sociale, sono suscettibili di imparare e di migliorarsi, proprio sfruttando gli errori e le sconfitte; e così come il cristiano sa come rialzarsi dal peccato, anche i popoli e le civiltà possono innalzarsi e rigenerarsi, mettendo a frutto le esperienze, anche dolorose, delle generazioni precedenti.

Caduta, espiazione, progresso: ecco la triade fondamentale operante nel divenire della storia, così come nella vita del singolo; laddove, come si vede, il "progresso" cui pensa Ballanche è cosa ben diversa da ciò che intendono, con lo steso nome, gli esponenti del pensiero secolarizzato e materialista, che si sono proclamati eredi e diffusori dei principi dell’89: perché si tratta, per lui, di un progresso eminentemente spirituale. In altri termini, Ballanche è stato uno dei pochi, dei pochissimi, che hanno osato parlare di progresso non in senso puramente edonista e utilitarista, e questo in piena ideologia progressista; e, nello stesso tempo, uno dei pochi, dei pochissimi, che hanno avuto la franchezza di recuperare la grande tradizione cattolica e di presentare il cristianesimo come un sistema di valori quanto mai adatto per dare una risposta anche ai bisogni dell’uomo moderno, perché i problemi nuovi della società moderna non modificano il fatto che la struttura morale ed esistenziale dell’uomo è sempre uguale, e che il vero progresso o è un processo di avanzamento e perfezionamento intimo, sofferto, come lo è il cammino del cristiano verso Dio, oppure, semplicemente, non è nulla.

Acuta la sintesi del suo pensiero proposta da Mario Luzi in un saggio composto assai prima che il suo autore diventasse uno dei più famosi poeti italiani viventi, e intitolato «Un filosofo dimenticato», di cui riportiamo i passaggi salienti (da: M. Luzi, «Aspetti della generazione napoleonica ed altri saggi di letteratura francese», Parma, Guanda Editore, 1956, pp. 66-70):

«Indubbiamente egli sembra ignorare i termini dell’arte come quelli di una filosofia metodica e troppo spesso i suoi scritti hanno l’apparenza di sogni o effusioni di un’anima candida e di un ingegno indisciplinato; eppure, così indifese e aleatorie oppure così chiuse in simboli lontani, le sue intuizioni riflettono assai fedelmente e non di rado in modo geniale i temi che preoccupavano il suo tempo. Sono i temi della trasformazione e della rigenerazione sociale che gli scrittori contemporanei trattavano criticamente o tecnicamente: in un pensatore come Ballanche lo spostamento sul piano della metafisica era inevitabile, pure sono gli stessi temi fondati sulla stessa sensibilità. Ma in quest’uomo mite e serafico in cui non esistono certo riguardi né calcoli né intenzioni reali e in cui fa evidentemente difetto il senso concreto dei limiti, le proposizioni comuni alla pubblicistica del suo tempo vanno impavide fino all’utopia e alle affermazioni estreme. Né il suo cattolicesimo si arresta di fronte alle interpretazioni più ardite o diventa comunque una remora o assume una coloritura conservatrice come in altri scrittori dell’epoca da De Maistre allo stesso Chateaubriand, ma anzi alimenta una percezione del dinamismo profondo della storia, prospetta la drammatica necessità dell’evoluzione umana, giustifica i cruenti sussulti della vicenda inesauribile. In realtà le leggi che regolano ciclicamente il corso dell’umanità sono per Ballanche le stesse che implica il mistero cristiano: la caduta, l’espiazione, il progresso. Dovunque e in qualsiasi tempo noi possiamo attingere la conferma dell’umanità che volontariamente, per il peccato di alcuni, decade e della vittima espiatoria, sia essa Antigone o Luigi XVI, che con il suo sacrificio riabilita l’uomo e riapre il cammino della libertà e del progresso. Questa legge cristiana è onnipotente nella storia, perché la rivelazione ha avuto luogo in tutti i tempi e in tutte le epoche ha preso forme diverse secondo il genio dei popoli; e se essa si ripete indefinitamente è che l’uomo è perfettibile e attraverso successive iniziazioni, attraverso cadute e riabilitazioni ci si incammina verso la vera legge di Cristo la quale, tradotta in termini sociali, corrisponde allo stato plebeo, vale a dire per usare le stesse parole di Ballanche, "à l’homme évolutif et progressif": tale stato democratico si fa luce faticosamente attraverso i secoli e i millenni passando per la barbarie, la teocrazia, l’aristocrazia. Questa è una sintesi davvero troppo rapida per il pensiero di Ballanche quando scrive la sua opera centrale, gli "Essais de Palingénésie sociale", il cui primo libro ("Prolégoménes") apparve nel 1827 e il secondo ("Orphée") nel 1829. Appropriazioni remote e vicine, da Vico agli idealisti, sostanziano una interpretazione integralmente cristiana della storia umana con procedimenti che dalla speculazione vera vanno fino al simbolismo, alla gnosi e alla profezia. E a questo proposito potremo sbagliarci, ma l’avere assunto i tre sublimi momenti della dottrina cristiana a vera e propria dialettica della vita del mondo, dà a Ballanche il titolo di vero filosofo e lo colloca genialmente nella cornice del pensiero romantico, nonostante gli elementi filosoficamente spuri che muovono da codesta identificazione. […] Si è forse troppo vantata l’antecedenza del "Du sentiment" sul "Génie du Christianisme"; esso rimane al confronto un’ingenua, idillica effusione senza la profondità del moto e la carica di umanità tormentata dell’opera maggiore, senza dire delle "canne d’organo" dello stile di Chateaubriand; è tuttavia innegabile che predicando la supremazia del sentimento — che offre all’uomo tutti i tesori, le arti, la morale, l’amore della natura (e Ballanche dice "campagne"), la malinconia — sulla ragione i cui errori erano allora dolorosamente recenti; sostenendo il potere della religione sulle anime e la virtù ispiratrice del cristianesimo, Ballanche ci porta già nella sfera del romanticismo cattolico, sia pure in uno stato di rêverie -, più che di convinzione motivata e certa. Il libro passa comunque inosservato e solo come editore Ballanche potrà consolarsi con lo strepitoso successo del "Génie" il cui autore è d’ora in poi un amico al quale resterà devoto tutta la vita. Quel tanto di astruso e di sottilmente infiammato ha tolto e toglierà ancora i denti e le unghie al suo pensiero; ciò si riflette anche sulla forma e sulla struttura dei suoi scritti che appunto per questo riesce difficile classificare e apprezzare in una sede distinta. […] Si deve probabilmente a tale vaghezza di propositi formali e a tale astrusa fertilità d’immaginazione se il dolce "philosophe de l’Abbaye-aux-Bois" concepì un’opera come "Antigone", artisticamente indefinibile, ma ricca di tante intuizioni che lo avrebbero portato rapidamente al centro del proprio pensiero. Il tentativo è di ricreare e insieme di interpretare cristianamente la figura della figlia di Edipo secondo quell’assunto che da qui prende forma: che la mitologia è un primo aspetto della rivelazione, né è pensabile un’età da cui il Verbo sia assente; assunto, possiamo notare, che inversamente inteso porterà ai nostri giorni Simone Weil a rifiutarsi al cristianesimo. Antigone è dunque una santa, provata dal dolore ed eletta alla espiazione che riabiliterà col suo sacrificio i suoi simili dall’errore e dalla colpa significata dal padre. L’intuizione qui contenuta del cammino dell’umanità accende ora arditamente il pensiero di Ballanche e quando nel 1820 scrive "l’homme sans nom", il mite e serafico "hiérophante" è già pervenuto a riconoscere nella Rivoluzione una crisi necessaria all’evoluzione umana; il martire espiatorio è questa volta Luigi XVI che col suo sacrificio ha convalidato il tragico sforzo dell’umanità verso la libertà e la riabilitazione. A questo punto Ballanche è maturo per la "Palingéniésie" che, abbiamo detto, resta l’opera centrale e segna il momento in cui, a nostro avviso, è vero e geniale filosofo. Ma, qual era la sua natura indecisa tra il sognatore e il pensatore, tra il profeta e il filosofo, non poteva tenersi a lungo su quella posizione di persuasivo rigore. Con la "Ville des expiations", apparsa nella "France littéraire" nel 1832 e raccolta in volume dagli "Entretiens Idéalistes", Ballanche ci riporta infatti all’indefinita vaghezza delle sue prime aspirazioni che ora spaziano senza freno nel campo di un augurato avvenire: l’evoluzione dei tempi può aver tolto molta parte del suo carattere utopistico all’immagine della città ideale, minuziosamente ordinata e regolata, dove i criminali, una volta abolita la pena di morte, sarebbero stati condotti a purificarsi nel lavoro e nella preghiera e liberati dall’ignoranza da missionari e corretti da giudici ispirati da santo zelo cristiano; non è meno certo che Ballanche abbandona il suo atteggiamento filosofico, rompe il suo passo meditativo per abbandonarsi a una nobile profezia filantropica.»

L’aspetto, secondo noi, più interessante e originale della filosofia della storia di Ballanche è la sua capacità di fornire una spiegazione "progressiva" e sostanzialmente ottimistica del grande problema che stava turbando, negli stessi anni, anche i due massimi esponenti del Romanticismo italiano, pensatori, oltre che poeti, l’uno e l’altro: il cattolico Manzoni e l’ateo Leopardi; vale a dire il problema del male, sia nella piccola storia del singolo individuo, sia nella grande storia dei popoli e delle civiltà umane. Il male è qualcosa di reale, e, più precisamente, è un allontanamento dal piano di salvezza ordinato da Dio in favore dell’uomo; eppure, esso è anche una possibile via di redenzione, tanto è vero che la stessa Redenzione dell’umanità ad opera di Cristo è stata originata da una colpa, sì, ma da una "felix culpa", che ha riaperto al genere umano la via della salvezza.

Rimane, peraltro, il mistero del male che viene assunto su di sé da quanti si offrono come vittime sacrificali: e, su questo aspetto, Ballanche si sofferma su una figura esemplare, quella di Antigone, in uno dei suoi più importanti poemi filosofici, vedendo nella figura dell’eroina greca – dolce, dolente, e tuttavia forte e serena -, il simbolo della perenne volontà e capacità di riscatto degli uomini nei confronti della palude dell’ingiustizia, della crudeltà e di tutti gli altri mali che allontanano gli uomini dal sentiero della verità, della giustizia e dell’amore. In questo, Ballanche è stato veramente grande, perché ha saputo vedere ciò che sfuggiva a tanti altri.

E se a qualcuno ciò sembrasse poco, vogliamo ricordare che quasi tutti i pensatori e gli scrittori moderni, prima e soprattutto dopo di lui, sono rimasti invischiati nelle aporie paralizzanti e nella amara frustrazione di non riuscire a trovare la benché minima spiegazione, convincente e rasserenante, del male morale, e specialmente di quello che colpisce gli innocenti. Per Ballanche, invece, la risposta è chiara: la sofferenza non è inutile, né una beffa incomprensibile, che colpisce a casaccio; se assunta volontariamente e serenamente, e offerta a Dio, diviene quanto di più prezioso possa darsi nella storia umana: un’incessante occasione di bene, d’innalzamento e perfezionamento.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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