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Nelle pietre degli antichi edifici continua a vivere il “genio” della stirpe

Esiste un’anima dei luoghi, così come esiste un’anima delle stirpi: e l’una e l’altra sopravvivono al di là dell’avvicendarsi delle generazioni, perché vivono di una vita immateriale; a condizione, pero. che la loro memoria non svanisca nel nulla, che il loro ricordo non precipiti nell’oblio, ma che i vivi si facciano gelosi e amorevoli custodi di quei ricordi e di quelle memorie, preservandole e trasmettendole a coloro che verranno dopo.

L’Europa, e l’Italia in particolare, sono piene di codeste anime dei luoghi e delle stirpi (cosa che non si può dire degli Stati Uniti d’America: ed ecco perché è sbagliato parlare di "Occidente", come se fosse una realtà omogenea), che s’intrecciano e formano un’unica, grande memoria collettiva: la memoria del passato, che non è il semplice ricordare ciò che più non esiste, ma, al contrario, l’essere consapevoli che noi siamo quello che siamo, perché i nostri predecessori furono quello che furono e ci hanno lasciato un patrimonio prezioso e insostituibile di tradizioni, di valori, di beni materiali e spirituali, che sono, per noi, come un nutrimento vitale e, nello stesso tempo, come la stella polare che brilla alta nel cielo, indicandoci la direzione da seguire.

Una società senza memoria è come un albero senza radici: non sopravvivrà al primo soffiare dei venti, ma si abbatterà al suolo, per non risorgere più. Purtroppo, la concezione rozzamente materialista e grettamente utilitarista, propria della modernità, ci ha abituati a pensare al passato come ad un inutile fardello, come a un ingombro sulla nostra strada, che bisogna rimuovere al più presto, affinché non ci impedisca di avanzare verso «le magnifiche sorti e progressive». È per questo che tanti urbanisti e tanti architetti moderni hanno dichiarato una guerra a morte, senza quartiere e senza misericordia, contro i vecchi edifici e contro i vecchi quartieri delle città, e hanno giurato a se stessi di farli sparire dalla faccia della terra, affinché non ne resti neppure la memoria: per loro, questa è la condizione preliminare e necessaria per poter costruire nuovi edifici e nuovi quartieri, senza che si proietti l’ombra fastidiosa del passato.

Questa è una visione meschina e ottusa del passato: una visione basata sull’ignoranza, sull’ingratitudine e sulla cieca sopravvalutazione, anzi, sulla idolatrica adorazione, dell’idea di un progresso astratto, illimitato e, in ultima analisi, non solo velleitario, ma anche sostanzialmente anti-umano. Perché dichiarare guerra al passato non è solo una cosa stupida e controproducente, in quanto equivale a gettar via immensi tesori di tradizione, di saggezza, di buon gusto; è anche, e soprattutto, un modo di porsi anti-umano, nel senso letterale dell’espressione poiché nega e contraddice quel che vi è di più vero e profondo nella natura umana: la coscienza delle proprie origini, delle proprie radici, e la giusta fierezza nei confronti di esse.

Come se questo male non bastasse, ad esso se n’è aggiunto un altro, e i due mali hanno finito per intrecciarsi e per rafforzarsi a vicenda, come una vegetazione parassita che si abbarbica ai tronchi sani degli alberi d’una foresta, per succhiare loro le sostanze vitali, provocandone il deperimento e, infine, la morte: il male del disprezzo di sé, delle proprie radici, unito all’ammirazione e all’esaltazione acritica, ideologica (nel senso peggiore dl termine), superficiale e velleitaria, delle altre tradizioni culturali, e specialmente di quelle più lontane. Così, il cittadino europeo contemporaneo ha imparato a disprezzare la propria civiltà e a riservare una ammirazione sconfinata alla civiltà islamica, a quella buddista, a quella induista: l’importante è che si tratti di civiltà molto lontane e di culture esotiche, il che le fa apparire senza macchia e senza imperfezione; mentre i frutti della civiltà e della cultura europea vengono svalutati, ignorati, ferocemente criticati e rifiutati, come qualcosa di cui vergognarsi.

Oppure il cittadino europeo ha sviluppato un potente complesso d’inferiorità verso lo stile di vita americano, che ammira senza limiti, e al quale vorrebbe pienamente uniformarsi: anche, e magari specialmente, nei suoi aspetti più discutibili, più esteriori, più banali, più piattamente materialisti e consumisti. Pure questo è un segno della "oicofobia" (disamore di sé) oggi imperversante in Europa: e si manifesta in cento maniere diverse, dall’abbigliamento alla cucina, dal cinema alla musica leggera, passando, naturalmente, per i sistemi scolastici e per quel poco o niente di progetto pedagogico che ancora esiste nelle famiglie e nella società europea, tutti abbandonati alla passiva imitazione del modello statunitense.

Eppure, l’Europa possiede una antica e gloriosa civiltà, che ha prodotto moltissime cose buone e ammirevoli, degne di essere non solo ricordate, ma tramandate ai posteri nella loro perenne e vitale attualità. Non c’è praticamente una città, un paese, un villaggio, in Europa, e specialmente in Italia, che non possano vantare secoli e millenni di storia, dovizia di monumenti storici, di opere d’arte, per non parlare delle bellezze naturali, meravigliosamente fuse con i segni della presenza umana (almeno prima che la Rivoluzione industriale e le sue funeste conseguenze non deturpassero, a volte in maniera irreparabile, il nobile volto del nostro continente e del nostro Paese). Ed è un vero delitto che tanta ricchezza di memorie, tanta bellezza, tanta sapienza, giacciano trascurate, neglette, perfino disprezzate: un delitto contro la nostra stessa umanità.

Così, prendendo le mosse dalla descrizione del Castello di San Martino a Vittorio Veneto, sede degli antichi vescovi di Ceneda (colà emigrati da Opitergium, distrutta dai Longobardi), monsignor Rino Bechevolo, già direttore del Museo Diocesano di arte sacra, svolgeva una interessante riflessione sul legame fra le antiche pietre degli edifici storici e il "genio" di una stirpe, cui appartengono gli esseri umani con le loro passioni, i loro ideali, i loro sogni e i loro affetti (in: R. Bechevolo, «Il Castello di San Martino, Vittorio Veneto», Edito a cura della Curia Vescovile di Vittorio Veneto, 1982, pp. 15-23):

«.. L’isolamento del Castello arroccato su uno sperone di roccia, a prima vista può sembrare anacronistico perché si ha la sensazione di ritornare indietro, quasi alla ricerca del tempo perduto.

Ma, in fondo, è proprio questo che il visitatore desidera salendo l’erta del colle: ricercare il tempo perduto, riesumare i ricordi lontani. Molte di quelle pietre sono impallidite, perché forse hanno un male dentro e tutte sono più o meno canute come gli uomini, perché passano gli anni. Questa umanizzazione delle pietre la si legge sul volto dei vecchi edifici che formano il Castello di San Martino, antioca residenza dei vescovi-conti, muto testimone di mille rivolgimenti. Quelle robuste mura nascondono in realtà una lunga storia che vale la pena di conoscere almeno per sommi capi.

Forse qualcuno si domanderà se ha un senso la passione di riannodare fili antichi e tessere una trama capace di dire qualcosa oggi a gente ingolfata da problemi esistenziali, in altre parole, l’amore per la storia patria. Pensiamo di sì. Tra l’altro, solo la conoscenza e la consapevolezza permetteranno di risolvere positivamente certi problemi di grande attualità quali, ad esempio, quello ecologico e quello della conservazione del patrimonio artistico-culturale. Le bellezze naturali sono in effetti un dono di Dio che gli uomini non hanno il diritto di deturpare. I vittoriesi anche a tale riferimento possono ritenersi fortunati: essi godono infatti di un bellissimo paesaggio il cui richiamo è evidente persino in numerose opere dei nostri grandi pittori veneti. Un paesaggio giunto sin a noi pressoché intatto e al quale si accompagna un clima quanto mai salubre. Il patrimonio creato dall’uomo – chiese, palazzi, piazze, opere d’arte ecc. – è pure considerevole. Il Castello di San Martino, pur nella sua attraente solitudine, forma un tutt’uno con l’abitato sottostante che porta l’antichissimo nome di Ceneda. Fortunatamente neppure qui è del tutto cancellata l’impronta del passato. Ed è proprio quella che affascina il visitatore non frettoloso il quale ama riconoscere, sotto gli inarrestabili livellamenti operati specialmente dall’epoca moderna, i tratti fissati i tratti di una fisionomia non alterata dal tempo. A tale proposito giova consultare la toponomastica locale. Citiamo alcuni esempi: Cavertino, Porcia, Gallina, Cal da Poz, Pontavai, Cal de Livera, Cal de Prade, Campardo ecc. sono i nomi di alcune vie o strade molto antiche che conservano il loro significato originario. Vengono poi i borghi e le contrade dove restano il sapore, l’atmosfera, il tono di un tempo; borghi e contrade contrassegnate un po’ dovunque da antiche case popolari con i tetti in cotto nerastro, palazzi che furono dimora di famiglie nobili, chiese, cappelle, vecchi campanili.

Ma una delle caratteristiche più evidenti di Ceneda sono le numerose "mure", quasi sempre modeste come altezza e spessore, costruite con sassi raccolti dal torrente Cervada, o con pietre estratte da qualche cava locale. Esse non hanno mai costituito una cinta di difesa alla città. Furono erette per delimitare e proteggere le proprietà private e forse anche allo scopo di tenere lontano gli sguardi indagatori dei vari signorotti feudali del vescovo-conte. Nonostante la speculazione edilizia che anche qui ha provocato danni non pochi, e la smania di coloro che vorrebbero rifare tutto nuovo, Ceneda può vantare ancora lunghi tratti di queste "mure" secolari dalle tinte spente, che assieme alle vecchie strade sembrano tenere in sé raccolto come un calore destinato purtroppo a svanire con l’incalzare degli anni e il mutare del costume. Un calore, ripetiamo, che le "mure" di Ceneda difendono e conservano e contendono quasi per il piacere di lasciare intatto alla città il carattere datole da una storia intessuta di opere assidue, costruita con solerzia un poco ogni giorno, forse senza ardimenti o fantasia, ma con solidità e con coraggio.

L’amore per la storia della propria città o paese, per la propria terra, ha senza dubbio una funzione importante, diremmo anzi insostituibile. Il distacco dal passato come non sentendolo più quale linfa della propria vita, soprattutto per una popolazione che normalmente vive del "genio" della propria stirpe, formatasi nel volgere di secoli e di millenni, è un grave errore perché essicca le sorgenti della vitalità dell’uomo, dilapida delle eredità di pensiero, di costume, di intuizioni umane che è difficilissimo rimettere insieme.»

Questo, che abbiamo riportato, è solo un esempio fra i mille, i diecimila, i centomila, che avremmo potuto fare: il nostro continente, e il nostro Paese specialmente, sono un immenso scrigno di tesori che si possono dispiegare a profusione; e questi tesori non sono costituiti soltanto da ciò che attualmente esiste, ma anche da ciò che ha preceduto l’esistente, che lo ha reso possibile, che lo ha reso fecondo. Perché il concetto è questo: se il presente non riconosce il suo debito e il suo legame con il passato, è condannato alla sterilità: non avrà nulla di duraturo da trasmettere, e le sue opere dureranno lo spazio d’un mattino, per poi sparire per sempre.

Chi vive in Italia, chi la conosce e la ama davvero, e non si limita a viaggiare in autostrada, a mangiare nei ristoranti di McDonald’s ed a fare la spesa, sistematicamente, nei grandi centri commerciali, dominati dal meccanismo consumista, dentro i quali ci si dimentica perfino se sia giorno o notte, estate o inverno, sa che basta fare pochi chilometri, a volte appena pochi metri, per trovarsi al cospetto di tali tesori d’arte, di storia e di natura, da poter appagare il senso estetico più esigente, insieme all’intelletto più colto e raffinato.

Scordare, ignorare o disprezzare il proprio passato, è un comportamento degno dei barbari: di barbari che si trovano al livello più basso nella scala della civiltà, perché i barbari appena un poco più evoluti sentono, oscuramente e quasi loro malgrado, il fascino della bellezza e della cultura, il fascino dell’intelligenza e di una nobile tradizione. Il re barbaro Teodorico soleva affermare che è degno di un Goto voler assomigliare a un Romano, ma indegno di un Romano sarebbe stato voler assomigliare a un Goto. Esiste una precisa gerarchia, fra chi esercita il fascino della civiltà e chi lo subisce: una gerarchia che non ha niente di prevaricante o di violento, perché viene ammessa volentieri da coloro stessi che si riconoscono inferiori. Vogliamo dunque essere più barbari dei barbari, e farci spregiatori della civiltà, disprezzando le nostre stesse radici?

Dobbiamo riscuoterci, finché siamo ancora in tempo; e allontanare dalle nostre anime il sinistro incantesimo che le tiene avvinte e soggiogate. È tempo che ci alziamo in piedi e che, riconciliandoci con il nostro passato, impariamo a guardare avanti, ma con l’ausilio della saggezza dei nostri predecessori. La ripresa, insegnava Kierkegaard, è un procedere ricordando.

Ed è veramente tempo di ripresa, tempo di futuro. Ne abbiamo, di futuro spalancato innanzi a noi, se non saremo sciocchi e ingrati; se sapremo riscoprire ed amare il nostro passato, le nostre radici…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Biswajeet Mohanty from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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