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Marcel Lefebvre: una voce che la Chiesa cattolica forse non ha ascoltato abbastanza

Domenico Del Rio, scrittore e vaticanista di fama, spentosi nel 2003, a 76 anni di età, ha tracciato questo ritratto, non troppo benevolo, ma, nella sostanza, abbastanza onesto, di monsignor Lefebvre, nel suo libro «Karol il Grande. Storia di Giovanni Paolo II», Milano, Edizioni Paoline, 2003, pp. 160-163):

«Ora, Marcel Lefebvre, figlio di un industriale di Lilla, ottantatré anni, era il vescovo più desolato che esistesse nella Chiesa cattolica. La desolazione di Lefebvre era così profonda che si esprime con frasi suggestive: "La rivoluzione è entrata nella Chiesa"; "Viviamo in una Chiesa occupata: l’ha conquistata il mondo"Poiché consacrava quattro vescovi, tutti dicevano che provocava uno scisma. Ma per lui era vero il contrario. Quel vecchio e sconsolato vescovo diceva di essere lui ad avere davanti una Chiesa scismatica, ed era lui che era rimasto solo, abbandonato, cavaliere della triste figura della vera religione di Cristo. "Questa Chiesa conciliare è una Chiesa scismatica", affermava, "perché essa rompe con la Chiesa di sempre". Ed era anche eretica. Perciò questa Chiesa conciliare non era cattolica. L’afflizione di Lefebvre era tale che egli prospettava per se stesso la solitudine totale dentro la Chiesa: "Se tutti i vescovi sono contro di me, ciò prova che essi sono contro la Chiesa". […]

La grande amarezza di Lefebvre era cominciata con il Concilio Vaticano II. Quando l’11 ottobre 1962, papa Giovanni inaugurava il Concilio biasimando i profeti di sventura, che annunziavano eventi sempre più infausti, quasi sovrasti la fine del mondo, Lefebvre, padre conciliare, era già nel pieno dell’amarezza da tre mesi. Nell’agosto, aveva rinunziato per protesta alla diocesi di Dakar, nel Senegal, dove era vescovo missionario. Non sopportava che preti negri potessero diventare vescovi. Aveva dovuto consacrare per forza il suo successore, il senegalese Giacinto Thiandoum, divenuto poi cardinale. Lasciata l’Africa, era diventato superiore generale degli Spiritani, cioè della sua Congregazione del Santo Spirito. Gli occhi azzurri di Lefebvre cominciarono a venarsi sempre più di sangue. Vedeva la massoneria, i comunisti, gli infedeli entrare nella basilica di San Pietro, dove si tenevano le sedute conciliari. Vedeva la congiura dei cardinali: il tedesco Frings, il francese Liénart, il belga Suenens, il bavarese Doepfner, l’italiano Lercaro. Soprattutto scorgeva il tradimento dei tedeschi, influenzati dai protestanti. "È il complotto dei porporati della Valle del Reno", diceva; "è il Reno che si getta nel Tevere". Organizzò allora l’opposizione in pieno Concilio. Fondò il "Coetus internationalis patruum", Comitato di padri conciliari tradizionalisti. Diceva di avere quattrocento adesioni. Diede il via alle contestazioni contro il Concilio. "Io accuso il Concilio", intitolerà più tardi un suo libro. Argomentava così: "Con il pretesto della fraternità rivoluzionaria, si abbracciano tutti, buoni e cattivi. La libertà religiosa apre la strada alla libertà di pensiero, di morale e così via. Tutto è equivoco: i protestanti possono celebrare la nuova messa, il catechismo è sconvolto e le conseguenze si cominciano a vedere con il cedimento al marxismo, a tutte le idee rivoluzionarie. L Chiesa, spinta dalla massoneria, ha deciso di eliminare tutti gli stati cattolici. Può dirsi ancora cattolica questa Chiesa che si adopera perché nostro Signore non regni più nella società?". […]

Il lamento di Lefebvre, dopo il Concilio, si era trasformato in azione. Il 1° novembre 1970, festa d’Ognissanti, fondava la Fraternità sacerdotale di San Pio X e apriva a Écône, in Svizzera, un seminario destinato a protegger ei candidati al sacerdozio dalle nuove eresie che, secondo lui, infestavano la Chiesa. Prima di quel giorno, si era dimostrato soltanto un petulante accusatore contro ogni tipo di aggiornamento ecclesiale, ora si rivelava anche un abile organizzatore. Il suo seminario, in tempi di magra vocazionale per la Chiesa, si andava stipando di giovani fervorosi, tutti in veste talare, dediti ai rosari, alle giaculatorie, agli Esercizi spirituali di sant’Ignazio e all’ascolto delle messe in latino. La fabbrica di sacerdoti di Lefebvre funzionava talmente bene che nacquero presto delle filiali. Il vescovo comprò un vecchio seminario presso Digione, messo in vendita dalla diocesi, e aprì una casa ad Albano, alle porte di Roma, che affidò alla sorella suora, Marie Gabrielle. Le sue case si spandevano per l’Europa. I suoi preti varcavano gli oceani e si stabilivano negli Stati Uniti, in Argentina. Lefebvre cominciò il suo lento andare verso la rottura totale con Roma, Paolo VI, mite pontefice, si spazientì. Dichiarò Lefebvre fuori dall’obbedienza e dalla comunione con il successore di Pietro. Lo sospese "a divinis". Voleva dire che il vescovo non poteva né celebrare la messa né amministrare i sacramenti né predicare. Per risposta, Lefebvre andò a Lilla, sua città natale, e sotto un tendone da circo celebrò una grande messa solenne. E tutta in latino. Girò tutto il mondo e trovò fedeli ovunque. In Italia, venne due volte solennemente. Il 7 giugno 1977, nel palazzo della principessa Pallavicini, accanto al Quirinale, celebrò una messa per nobildonne e aristocratici romani. Ne centro della cattolicità, nella cappella di un palazzo patrizio, lanciò il suo lamento: "La Chiesa cattolica è ridotta a uno stato pietoso. Non è più la Chiesa della verità. Il mio dolore è immenso nel vederla così." La seconda volta andò a Venezia. il lunedì di Pasqua, 7 aprile 1980, a celebrare una messa nella chiesa di San Simeon Piccolo, in abiti pontificali dorati, con tutte le cerimonie, le genuflessioni, gli inchini, i turiboli di incenso, le torce accese della vecchia liturgia. Dopo il canto del Vangelo il vescovo parlò. Parlò in italiano, con quel suo modo suadente e tremendo di dire le cose, con quel suo discorso, che era sempre uguale e che portava in giro dovunque andasse: "Come vanno le cose nella Chiesa oggi? È una catastrofe! Hanno cambiato, hanno cambiato tutto. Tutto è rovinato. E i seminari sono vuoti. I sacerdoti spargono errori. Ma on solo i sacerdoti, anche vescovi e cardinali spargono errori, il catechismo olandese, quello francese, quello italiano, da dove vegono? Da vescovi e da cardinali. Della messa hanno fatto una cena protestante. No, non è possibile. Questi vescovi, questi cardinali modernisti, progressisti, vogliono, invece, far tacere me. Sono andato a Roma dal papa quattro o cinque volte, e gli ho detto: Bisogna ritornare alla tradizione. Hanno condanna tome, ma io ho detto a Giovanni Paolo II: nemmeno i Soviet hanno fatto quello che i cardinali, a Roma, hanno fatto con me, condannandomi senza tribunale. Io mi appello a Pio X, che ha condannato il modernismo. Quello è stato l’ultimo papa santo". In San Simeon affollato si levavano sospiri. Tutti sentivano il grande peso di persecuzione che la Roma papale, prelati progressisti, cardinali eretici, patriarchi modernisti, gettavano sulle spalle di quel vecchio che era sceso dalle vallate del Rodano, per venire su canali veneziani a incitare la crociata per la salvezza della fede. […]

E, a Écône, sotto la cattedrale di tela, tra fiori, ceri accesi e musiche di Bach, infine si realizzò lo scisma. Lefebvre consacrò i suoi quattro vescovi: uno inglese, uno spagnolo, uno svizzero e uno francese. Dall’altare gettò su Roma le solite accuse terribili. "Dopo il Concilio", disse, "tutto quello che si è prodotto nella Chiesa non è cattolico. Per niente al mondo, accetterò di seguire questa Roma. La cattedra di Pietro è occupata dall’Anticristo. Anticristi occupono i posti di responsabilità della Chiesa di Roma. Prosegue rapidamente la distruzione del regno di Nostro Signore, attraverso la corruzione della messa. La corruzione della santa messa ha portato alla corruzione del sacerdozio e alla decadenza universale della fede nella divinità di Nostro Signore Gesù Cristo". A Écône , la scomunica piombò automaticamente. A Roma, il papa [Wojtyla] rimase nella sua tristezza.»

Ritratto abbastanza onesto, abbiamo detto: abbastanza, ma non del tutto. Non dice, ad esempio, che Lefebvre, in 11 anni di lavoro come Delegato apostolico nel Senegal portò le diocesi esistenti da 44 a 65, e che, a Dakar, le chiese crebbero da 3 a 13, mentre raddoppiava il numero dei cattolici; che lo straordinario sviluppo dell’Africa francofona, sia in campo economico e sociale, che culturale, in quegli anni, è dovuto, per riconoscimento pressoché unanime di amici e nemici, anche alla sua attività. E fa credere che la sola ragione della sua rinuncia alla diocesi di Dakar dipendesse dal fatto che «non sopportava che preti negri potessero diventare vescovi», mentre aveva a che fare con questioni di ben più ampia portata, prima fra tutte la questione del "dialogo" con l’Islam: questione nella quale noi, oggi, con il senno di poi – quando intere comunità cristiane dell’Africa sub-sahariana e del Medio Oriente sono perseguitate a morte da svariati gruppi fondamentalisti islamici – potremmo anche dire che egli vide più lontano di tanti vescovi e teologi che, allora, facevano troppo facile sfoggio di "progressismo" e di ecumenismo.

Inoltre il ritratto di Del Rio passa bellamente sotto silenzio alcuni torti evidenti subiti da Lefebvre, come quando, rientrato in Francia dall’Africa, ove era stato missionario per trent’anni (dal 1932 al 1962), fu destinato, benché arcivescovo, alla modesta sede episcopale di Tulle, mentre era vacante l’importante arcidiocesi di Albi: manovra il cui significato apparve evidente allorché, subito dopo, l’Assemblea dei cardinali e degli arcivescovi francesi stabilì, in maniera arbitraria e tale da escludere lui solo, che un arcivescovo, il quale non fosse insediato in una sede arcivescovile, fosse automaticamente escluso dall’Assemblea medesima.

Il fatto è che Lefebvre aveva già molti nemici, non solo nel clero francese, ma anche a Roma, già da ben prima del Concilio Vaticano II, al quale avrebbe partecipato come superiore dei Padri dello Spirito Santo e in cui avrebbe capeggiato la fazione più conservatrice, denominata Coetus Internationalis Patrum. E questo perché, fin dalla giovinezza, in cui (sotto l’influenza del padre superiore degli Spiritani, Henri Le Floch) aveva mostrato simpatie per l’Action Française – il movimento politico antidemocratico e antiparlamentare capeggiato da Charles Maurras, condannato da Pio XI nel dicembre 1926, ma riabilitato da Pio XII nel 1939 — egli aveva mostrato di non condividere certe "aperture" ecumeniche, in particolare il dialogo con l’Islam (religione che conosceva bene e da vicino, vista la sua trentennale esperienza pastorale nell’Africa occidentale) e certe innovazioni liturgiche e sociali: tanto è vero che continuò, poi, a sostenere l’organizzazione ultra-conservatrice La Cité Catholique di Jean Ousset (ex collaboratore di Maurras).

Lo scontro con Giovanni XXIII era scritto nelle cose: ed è interessante il fatto che entrambi provenissero da esperienze pastorali a diretto contatto con la società islamica (Roncalli era stato amministratore apostolico a Istanbul negli anni della Seconda guerra mondiale), ma che ne avessero tratto delle conclusioni diametralmente opposte circa la possibilità di un dialogo proficuo. Così come era scritto nelle cose lo scontro con le novità introdotte dal Concilio Vaticano II e, più ancora, da ciò che accadde nella tumultuosa fase post-conciliare, quando i vescovi e i teologi "progressisti" cercarono di forzare i tempi, e a volte anche la sostanza, per far passare delle riforme che il Concilio stesso non aveva concepito nella forma drastica in cui essi le volevano, e ciò in nome di una supposta interpretazione più fedele allo "spirito" del Concilio stesso (l’acuta osservazione è del cardinale Siri); cosa che permetteva loro di presentare come dovute e indilazionabili delle "riforme" che, in realtà, solo una minoranza dei padri conciliari desiderava, e le desiderava in nome di un non meglio specificato "progresso" nonché dello "spirito dei tempi", ma a dispetto del sentire comune del popolo cristiano, laici compresi. Tipico esempio, l’abolizione di fatto del latino e, pertanto, la scomparsa della Messa tridentina, provvedimento che non è stato previsto, né contemplato, in alcuno – ripetiamo: in alcuno — dei numerosi documenti ufficiali uscirti dal Concilio Vaticano II.

La critica di Lefebvre al Concilio era radicale, di fondo: secondo lui, esso era stato inquinato da uno spirito neo-modernista e neo-protestante; poco spazio rimaneva, pertanto, per un eventuale compromesso. Nel 1970 fondava la Comunità Sacerdotale San Pio X e il seminario di Écône, nel quale veniva mantenuto il rito della Messa tridentina; nel 1972, subiva un pesante attacco da parte del clero francese; nel 1975 gli fu ordinato, dal vescovo di Losanna, di chiudere il "suo" seminario, opponendo un rifiuto; nel 1976, fu sospeso "a divinis" da Paolo VI, di nuovo rifiutando di sottomettersi; nel 1986, si oppose pubblicamente al primo raduno interreligioso di Assisi; nel 1988 ordinò quattro vescovi, nonostante l’ammonizione di Giovanni Paolo II a non farlo, incorrendo così nella scomunica "latae sententiae". Nel 1991 si spegneva, vittima del cancro.

Certo egli si è assunto una responsabilità gravissima, aprendo uno scisma che, nel 1975, aveva detto di non volere. Rimane, però, una scomoda domanda: sono state davvero ascoltate, le sue ragioni?

La cosa veramente imbarazzante, nella vita e nell’opera di quest’uomo criticabile, ma cui non si può negare la coerenza, è che egli si è trovato a capeggiare, tecnicamente, uno scisma, rispetto ad una Chiesa cattolica che egli giudicava, di fatto, scismatica. Quando affermava di non aver fatto, dopo il Concilio Vaticano II, nulla, assolutamente nulla, che non facesse anche prima, e che non facessero, con lui, tutti i membri del clero cattolico, metteva veramente il dito sulla piaga; era come se dicesse: «Io non sono cambiato; non ho introdotto alcuna novità: mi dicano, dunque, dove sto sbagliando; altrimenti, vuol dire che ad essere cambiata è la Chiesa».

Ora, il punto è proprio questo: la Chiesa si regge sui due pilastri della Rivelazione, che sono le sacre Scritture e la sacra Tradizione. Non è ammissibile, pertanto, che essa cambi il proprio orientamento spirituale, senza contraddirsi; senza divenire altro da ciò che era, da ciò che è stata per secoli e secoli. Di questo Lefebvre accusava la Chiesa cattolica. Lo faceva con foga inusitata, con una carica di estremismo e di "vis" polemica che non conviene a un arcivescovo, a un membro della Chiesa cattolica, e che non riflette la doverosa carità cristiana. Quanto alla sostanza, però, il discorso è diverso. È più difficile dargli torto, viste anche certe derive degli ultimi decenni, che sembrano confermare molte delle sue intuizioni e delle sue critiche.

Su una cosa, però, certamente sbagliava: se è vero che «il fumo di Satana è entrato in Vaticano», cioè nel cuore della Chiesa stessa (l’espressione, come è noto, è di Paolo VI), e dunque se era pienamente legittima e giustificata la sua preoccupazione rispetto a certe forzature teologiche e a certi stravolgimenti liturgici, egli, però, ha commesso il peccato di disperare, dimenticando una esplicita rassicurazione di Gesù Cristo ai suoi fedeli (Matteo, 16, 18): «E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, E LE POTENZE DEGLI INFERI NON PREVARRANNO SU DI ESSA».

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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