La Lucia manzoniana dà lezione d’amore dando lezione di pudore
28 Luglio 2015
La teologia si è autodistrutta quando ha fatto suo il messianesimo marxista
28 Luglio 2015
La Lucia manzoniana dà lezione d’amore dando lezione di pudore
28 Luglio 2015
La teologia si è autodistrutta quando ha fatto suo il messianesimo marxista
28 Luglio 2015
Mostra tutto

Ma cosa può capire un neokantiano come Cassirer della grandiosa visione d’uno Spengler

Abbiamo sostenuto altra volta che il criticismo kantiano non è che la formulazione più esplicita, coerente e rigorosa di quella auto-limitazione del pensiero, di quel voluto abbandono della metafisica, di quella fuga dalla teologia che caratterizza la cultura moderna (cfr. il nostro saggio «L’"io penso" kantiano e l’auto-castrazione del pensiero moderno», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 10/05/2007).

Ci proponiamo di veder, ora, come gli strumenti a disposizione del neo-criticismo siano del tutto inadeguati, non diciamo per porre nella maniera giusta il problema della conoscenza del reale, ma anche solo per arrivare a comprendere il percorso di quei pensatori che, partendo da altre premesse e muovendo in una diversa prospettiva, hanno compiuto uno sforzo per porre quel problema, il quale, da che esiste la filosofia, è il cuore della speculazione stessa, cosa che ai neo- kantiani, sia ortodossi che eterodossi, sfugge inevitabilmente.

Emblematico ci è sembrato il caso di Ernst Cassirer, il quale, pur potendo vantare una produzione ricchissima e quasi sterminata, e pur essendosi occupato, anche come storico della filosofia, di quasi ogni branca del conoscere e del pensare, di fatto manifesta tutta la gretta limitatezza della sua "forma mentis", tutta la pedante, boriosa, saccente presunzione accademica, nel significato peggiore di quest’ultima parola, distribuendo pagelle di merito a tutti e a ciascuno senza mai scendere dalla cattedra per un momento, senza mai lasciarsi sfiorare dal benché minimo dubbio di avere la chiave esclusiva per comprendere e per giudicare.

Questo filosofo tedesco di origini ebraiche, che ha dovuto lasciare la Germania dopo le leggi razziali del 1933 e si è trasferito prima in Svezia, poi negli Stati Uniti d’America, sviluppandovi una prestigiosa carriera universitaria e riuscendo ad entrare nelle sfere alte dell’establishment culturale internazionale, non è mai riuscito a riconciliarsi con la società e con la storia tedesche e a separare la sua personale vicenda da una riflessione più ampia del dramma filosofico, ma non solo filosofico, vissuta dalla Mitteleuropa e, più in generale, dall’Occidente, negli anni fra le due guerre mondiali. Per lui, come del resto per molti altri — da Brecht a Lukács, da Anders a Jaspers, il mondo, e specialmente la cultura tedesca, è rimasto diviso per sempre in buoni e cattivi, a seconda di come si sono schierati rispetto alle tragiche vicende europee di quei decenni.

I cattivi, naturalmente, sono quelli che hanno aderito alle varie forme del fascismo, o che vi si sono avvicinati, anche solo per un breve periodo (e può darsi che lo siano stati davvero: ma erano cattivi loro soltanto? ed erano buoni i seguaci dello stalinismo? e quelli delle democrazie liberali, erano la quintessenza del bene?): su di loro pesa, e peserà "in saecula saeculorum", l’ombra di una missione spirituale tradita, la responsabilità di un insegnamento aberrante che ha fuorviato chissà quante menti sprovvedute di giovani e meno giovani; o, nel migliore dei casi, di un impegno politico e morale insufficiente, di una imperdonabile rassegnazione alle forze del male, se non anche di una vera e propria connivenza con esse.

Spengler, per esempio: se non è stato un profeta del Male, certo — per Cassirer — ha contribuito a indebolire il fronte del Bene; senza contare il fatto che egli non è stato un filosofo, ma un ciarlatano, per la precisione un astrologo, e, molto probabilmente, un cattivo astrologo. Tali gli incredibili giudizi del bravo e positivo Cassiere, uno che si sente la coscienza a posto con la Storia e che ritiene di interpretare degnamente, insieme ad altri a lui simili, la "vera" Europa e la "vera" cultura occidentale; uno che non dubita di avere tutti i requisiti necessari, compreso il fatto di essere stato un perseguitato, per emettere una sentenza di condanna definitiva e inappellabile su tutta quella cultura europea, e specificamente tedesca, che, di fronte al fascismo, non è stata in grado di ergersi come una solida barriera (magari facendo causa comune con la cultura marxista, la quale, là dove il marxismo aveva preso le leve del potere, stava macchiandosi di errori ed orrori non certo secondi a quelli del Reich nazionalsocialista).

Vale la pena di sentire gli argomenti con i quali il pacato, razionale, politicamente corretto Cassiere si ritiene titolato a emettere una sentenza categorica nei confronti di Oswald Spengler, della cui filosofia della storia, sia detto per inciso, abbiamo il sospetto che non avesse capito molto, posto che davvero si sia preso la briga di leggere «Il tramonto dell’Occidente» e non si sia limitato a sfogliarlo con impazienza e a farsi guidare da quanto aveva orecchiato su di esso, nell’ambiente accademico tedesco e americano, dove molto se ne parlava, ma, forse, senza troppa cognizione di causa (da: E. Cassirer, «Il mito dello Stato»; titolo originale: «Myth of the State»; traduzione itaoiana di Camillo Pellizzi, Milano, Longanesi & C., 1971, pp. 493):

«Queste parole [una citazione dal "Tramonto dell’Occidente"] ci danno la chiave per comprendere il libro di Spengler e la sua enorme influenza. Se fosse possibile, non solo raccontare la storia della civiltà umana, ma predeterminarne il corso futuro, sarebbe stato fatto un passo avanti davvero grandissimo. Evidentemente, l’uomo che parlava in questo modo non era un filosofo. Secondo Spengler, il sorgere, il declinare e il cadere della civiltà non dipendono dalle cosiddette leggi di natura. Essi sono determinati da un potere più alto, il potere del destino. Il destino non la causalità, è la forza motrice della storia umana. La nascita di un mondo culturale, dice Spengler, è sempre un atto mistico, un decreto del destino. Tali atti sono interamente impenetrabili per i nostri poveri concetti astratti, scientifici o filosofici.

"Una cultura nasce nel momento in cui una grande anima si risveglia dalla proto-spiritualità dell’umanità sempre bambina, e si distacca come una forma dall’informe, una cosa limitata e mortale dall’illimitato e perenne… Essa muore quando quest’anima ha attuato la somma totale delle sue possibilità, sotto forma di popoli, linguaggi, dogmi, arti, stati, scienze, e ritorna nella proto-anima" ("Der Ubtergang des Abendlandes").

Anche qui, vediamo il rinascere di uno dei più antichi motivi mitici. In quasi tutte le mitologie del mondo incontriamo l’idea di un destino inevitabile, inesorabile, irrevocabile. Il fatalismo sembra inseparabile dal pensiero mitico. Nei poemi omerici, persino gli dei debbono sottostare al fato: il fato (Moira) agisce indipendentemente da Zeus. Nel decimo libro della sua "Reopubbllica", Platne dà la sua famosa descrizione della "rocca della Necessità", intorno alla quale compiono le loro rivoluzioni tutti i corpi celesti. Il flusso gira sulle ginocchia della Necessità, mentre le Parche, figlie della Necessità, Làchesi, Cloto e Atropo siedono sui loro troni: Làchesi canta il passato, Cloto il presente e Atropo l’avvenire. Questo è un mito platonico, e Platone mette sempre una distinzione precisa tra il pensiero mitico e quello filosofico. Ma in alcuni dei nostri filosofi moderni sembra che questa distinzione si sia completamente cancellata. Essi ci danno una metafisica della storia che presenta tutti i tratti caratteristici del mito.

Quando lessi per la prima volta "Il tramonto dell’Occidente" di Spengler ero intento, per combinazione, allo studio della filosofia del Rinascimento italiano. Ciò che più mi colpì in quel tempo fu la stretta analogia fra il libro di Spengler e alcuni trattati astrologici che avevo letto proprio allora. S’intende che Spengler non pretendeva affatto di leggere l’avvenire delle civiltà nelle stelle. Ma i suoi pronostici sono esattamente dello stesso tipo dei pronostici astrologici. Gli astrologi del Rinascimento non si contentavano di esplorare il destino dei singoli individui. Essi applicavano il loro metodo anche a grandi fenomeni storici e culturali. Uno di questi astrologi venne condannato dalla Chiesa e arso vivo, poiché aveva tratto l’oroscopo di Cristo, e, dalla natività di Cristo, aveva predetto l’imminente caduta della religione cristiana. In punto di fatto, il libro di Spengler era un’astrologia della storia: l’opera di un individuo che narrava le sue cupe visioni apocalittiche

Ma possiamo noi realmente riconnettere l’opera di Spengler alle profezie politiche dei tempi successivi? Possiamo mettere sullo stesso livello i due fenomeni? A prima vista, un raffronto di questo genere sembra altamente discutibile. Spengler era un profeta del male; invece, i nuovi capi politici volevano ispirare ai loro aderenti le più esagerate speranze. Spengler parlava del declino dell’occidente; gli altri parlavano della conquista del mondo da parte della razza germanica. Evidentemente, non si tratta, nei due casi, della medesima cosa. Né lo Spengler era, personalmente, un seguace del movimento nazista. Era un conservatore, un ammiratore ed esaltatore dei vecchi ideali prussiani; ma il programma degli uomini nuovi non aveva nessun fascino per lui. Tuttavia, l’opera di Spengler diventò una delle opere anticipatrici del nazionalsocialismo. Infatti, qual era la conclusione che Spengler traeva dalla sua tesi generale? Egli protesta con veemenza tutte le volte che la sua filosofia era definita una filosofia del pessimismo. Dichiarava di non essere affatto un pessimista. È ben vero che la nostra civiltà occidentale è ormai condannata. Ma non c’è senso a deplorare questo fatto ovvio e inevitabile. Se la nostra cultura è perduta, rimangono tuttavia molte altre cose alla presente generazione, e forse cose molto migliori. […] La tecnica invece della lirica, la politica invece dell’epistemologia: questo consiglio dato da un filosofo della cultura umana poteva venir facilmente compreso. Gli uomini nuovi erano convinti di realizzare la profezia di Spengler. Essi lo interpretarono nel senso loro. Se la nostra cultura, scienza, filosofia, poesia e arte, è morta, ricominciamo da principio. Mettiamo alla prova le nostre grandi possibilità, creiamo un nuovo mondo e diventiamo i dominatori di questo mondo.»

Come si vede, un neokantiano come Cassirer è costituzionalmente capace di immaginare che il "mito" sia qualcosa di più o di diverso da un certo qual guazzabuglio di credenze e racconti irrazionali, una specie di fase superstiziosa che ogni popolo e cultura deve attraversare prima di giungere ai lumi della ragione. Di conseguenza, alla sua antipatia per un pensatore che, come Spengler, ha contribuito — a suo credere — alla resa della cultura tedesca verso il nazismo, si aggiunge il suo fastidio per un pensatore che ha fatto, novello Vico, dei corsi e ricorsi della storia il baricentro della sua filosofia ella storia, cadendo, a suo dire, in una concezione "mitologica" dominata, nel caso specifico, dall’idea di destino. In realtà — e a parte il fatto che il mito non è un "pensiero bambino", come vorrebbero tutti gli illuministi e i neo-illuministi, impliciti o dichiarati — ma una diversa forma di pensiero, adatta a esprimere, semmai, qualche cosa di più, e non qualche cosa di meno, del Logos puramente razionale e strumentale — quel che Spengler ha cercato di esprimere con l’idea di "destino" non è una fuga dalla razionalità, ma un elemento di per sé non chiaramente identificabile e definibile con le sole categorie del Logos. I cristiani, ad esempio, lo chiamano Provvidenza, vale a dire l’intuizione, e la convinzione, che la stria sia qualche cosa di più del semplice succedersi meccanico di forze umane in lotta fra loro; Spengler, che non è un pensatore cristiano, lo chiama "destino", volendo esprimere il medesimo concetto: che la storia non è scritta solo da forze umane identificabili e riconoscibili, siano esse pertinenti alla sfera politica, economica, sociale o culturale, ma che essa è ispirata da un elemento oscuro e inafferrabile, i, quale si serve delle motivazioni coscienti degli uomini per portare avanti un suo fine ulteriore, misterioso in quanto non riconoscibile sul momento, anzi, non riconoscibile affatto in sé, e tuttavia sempre presente e sempre decisivo, per quanto sfuggente ed elusivo con gli strumenti ordinari del Logos strumentale e calcolante.

Per Cassiere, questo tipo di atteggiamento è sufficiente per gratificare chi lo manifesti della qualifica di "non filosofo": si vede che, per i neo-criticisti, è degno della qualifica di filosofo solamente chi rientra al cento per cento nelle categorie kantiane, ovvero solo chi rinuncia, come fosse inutile zavorra, a tutto quel che non può essere oggetto di indagine razionale precisa e immediata, insomma solo chi rinuncia alla "cosa in sé". Il vero filosofo sarebbe, allora, chi si accontenta del "fenomeno", della cosa così come appare: evidentemente, costoro dimenticano che i grandi filosofi greci distinguevano appunto fra la "doxa", l’opinione, dall’"episteme", la conoscenza vera e certa; e che, col "fenomeno", si costruiscono solo opinioni. Strano: non si accorgono, costoro, che limitarsi alla cosa così come appare significa tradire l’obiettivo di qualunque autentico sapere, ossia la tensione verso la verità: verità che i migliori pensatori hanno sempre definito come l’accordo fra il giudizio e la cosa, e non come l’accordo fra il giudizio e l’apparenza?

Ancora: chi lo dice che Platone pone sempre una distinzione precisa fra pensiero mitico e filosofico? Ha capito così poco, Cassirer, dei grandi miti platonici, come quello della Caverna o quello della Biga alata, da sostenere una tale distinzione? Chi lo autorizza ad arruolare Platone fra i precursori del criticismo, a farne un antesignano di Kant, insomma un lontano avo di quel pensiero illuminista che ha tratto l’umanità fuori dallo stato di minorità in cui era caduta, per sua colpa e per non aver saputo fare un uso libero e spregiudicato della ragione? Davvero non si accorge, il buon Cassiere, che la Necessità platonica è l’equivalente del Destino spengleriano? E che Platone non pone una precisa distinzione fra mito e filosofia, non almeno nel senso che lui crede, ma, semmai, suggerisce che il mito sia una maniera per tentare di esprimere ciò che filosoficamente è, in se stesso, inesprimibile, ma tutt’altro che irrazionale?

Quante forzature, quanta supponenza, quale povertà intellettuale dietro la pretesa di pensatori come Cassirer, di far rientrare nei loro schemi e pregiudizi l’intero sviluppo del pensiero occidentale, negando addirittura il titolo di filosofi a quanti non s’inchinano a quegli schemi ed a quei pregiudizi… Intendiamoci: la filosofia di Spengler non è la nostra; non ci soddisfa; non ci persuade. Ma non si ha il diritto di liquidarla sulla base di pregiudizi, come quelli di Cassirer, o, peggio, del fatto che essa è stata strumentalizzata dai nazisti: anche a Nietzsche è accaduta la stessa cosa; qualunque pensiero può essere strumentalizzato dal potere, pervertito, stravolto. È accaduto anche al cristianesimo, in certe situazioni e in certi periodi storici. Quel che i neocriticisti non ammettono, è la metafisica in quanto tale: per questo la combattono sia nella versione immanentista del positivismo, sia in quella trascendente dello spiritualismo. Essi partono da un pregiudizio razionalista e da una mistica del Logos scientifico-razionale, anche se non lo sanno: per questo, a loro giudizio, un filosofo ella storia come Spengler è solo un "astrologo", un pensatore che si è fermato, o che si è perso, nelle nebbie del mito: che non ha avuto la lucidità di tenere dritta la barra del timone verso le «magnifiche sorti e progressive» dell’Io penso kantiano…

Fonte dell'immagine in evidenza: sconosciuta, contattare gli amministratori per chiedere l'attribuzione

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.