
Se la speciazione ha velocità zero, qualcosa non funziona nella teoria evoluzionista
28 Luglio 2015
Forse abbiamo sottovalutato il problema
28 Luglio 2015L’uomo spirituale sa che ogni cosa è assurda, se guardata nel solo significato fenomenico

Gran parte della crisi intellettuale, spirituale, morale dell’uomo moderno, secondo un giudizio ormai largamente condiviso da più punti di vista, deriva da una generale, inarrestabile perdita di senso: è come se il significato della vita, del mondo e di noi stessi, stesse subendo un continuo, inesorabile progresso di erosione, sgretolamento e distruzione. Si può dire che tutta la filosofia, la letteratura e l’arte moderna ruotino intorno a questo tema fondamentale; il quale, a sua volta, genera, a cascata, tutta una serie di problematiche derivate, le quali, direttamente o indirettamente, sono riconducili ad essa.
Ora, la domanda che vorremmo farci è quanto di questa perdita di senso sia attribuibile ad un "normale" processo di consapevolezza della enorme complessità del reale, e quanto, invece, dipenda da una radicale, drammatica deformazione, non della realtà, ma delle lenti attraverso cui siamo soliti guardarla: ossia lo strumento della nostra stessa coscienza. In altre parole: è possibile che qualcosa, nella nostra coscienza, non funzioni più a dovere; che qualcosa si sia rotto; e che tale perdita di equilibrio interiore abbia determinato, a sua volta, una perdita dell’equilibrio nel rapporto con noi stessi, con il mondo e con la vita? È possibile che noi non riusciamo più a sintonizzarci nella maniera giusta nei confronti della realtà, non a causa di un "difetto" inerente ad essa, ma per un atteggiamento sbagliato che noi assumiamo nei suoi confronti, nonché nei confronti di noi stessi?
Quel che ci fa propendere per una risposta affermativa a tali domande è la semplice, ma incontestabile verità che uomini straordinariamente profondi, che vissero prima dell’epoca moderna, da Platone ad Agostino, da Tommaso d’Aquino a Pascal, avevano la ferma convinzione che il reale, di per sé, non ha assolutamente niente di "sbagliato"; ma che tale, inevitabilmente, appare a coloro che assumono due opposti, ma complementari atteggiamenti sbagliati nei suoi confronti: quello di considerarlo perfetto così come ci appare, assolutizzando, cioè, la realtà contingente, e trascurando la realtà sostanziale, che non cade sotto i nostri sensi, ma può essere percepita in altro modo, oltre che logicamente dedotta; e quello di considerarlo assolutamente malvagio, o irrazionale, o insensato, cosa che fatalmente accade allorché negli uomini si spegne il senso religioso, e, con esso, l’intuizione della sacralità del reale, ma anche della necessità, per l’uomo, di deporre ogni atteggiamento di superbia, scetticismo e relativismo, e di fare silenzio in se stesso, in modo da potersi aprire all’ascolto dell’Essere, e da offrirsi quale docile strumento rispetto ad esso.
Solo se ci si pone in relazione con l”Essere, solo se — nel caso dell’uomo moderno — si ricostituisce l’atteggiamento di stupore, fiducia e amore nei confronti dell’Essere, maturando il senso del proprio limite e l’umiltà necessaria per lo "svuotamento" dell’Io e l’offerta di sé alla pienezza divina, solo allora si può scorgere, dietro le apparenze fugaci e ingannevoli del mondo fenomenico – a torto scambiato, in una prospettiva materialista, per la realtà "tout-court" –, come faceva l’uomo medievale, il senso nascosto delle cose, il "sovrasenso" implicito in esse; in altri termini, si potrà cogliere la vera dimensione del reale, che, nella condizione presente, legata allo spazio e al tempo, ci parla solo mediante indizi, allusioni, fugaci visioni. Se si perde la relazione con l’Essere, il reale piomba nel caos e tutto ci appare confusione, angoscia, disperazione; tutto, come dice Sartre, sembra dare la nausea, e tutto, come afferma Pirandello, diventa vero e falso, a seconda di come lo si guarda, con il risultato di smarrire ogni fiducia nella verità ultima delle cose.
Questo aspetto viene evidenziato con forza — magari anche troppa – da Umberto Eco, nella sua «Introduzione al Medioevo» nella enciclopedia «Il Medioevo», Milano, Federico Motta Editore, 2009, vol. 1, pp. 72-3):
«[Il medioevo] ha elaborato non solo una tensione costante verso l’aldilà ma anche un sentimento visionario del mondo terreno e della natura. L’uomo medievale vedeva il mondo come una foresta piena di pericoli ma anche di rivelazioni straordinarie, e la Terra come una distesa di Paesi remoti popolati da esseri splendidamente mostruosi. Traeva queste fantasie dai testi classici e da infinite leggende, e credeva fermamente che il mondo fosse popolato da Cinocefali con la testa canina, Ciclopi da un unico occhio al centro della fronte, Blemmi privi di capo, con la bocca e gli occhi sul petto, creature dal labbro inferiore così prominente che, quando dormono, si coprono con esso il volto intero per difendersi dagli ardori dl sole; altre ancora, aventi la bocca così piccola da potersi nutrire soltanto attraverso un piccolo foro utilizzando cannucce d’avena, e i Panozi dagli orecchi talmente grandi da potersi coprire con essi il corpo intero e gli Artabanti che camminano proni come pecore, i Satiri dal naso adunco, le corna sulla fronte e i piedi simili a quelli a quelli di una capra, o gli Sciapodi, dotati di un solo piede col quale si fanno ombra quando si sdraiamo a terra suini per il gran calore del sole.
Tutto questo, ed altro (balene a forma di isola su cui approdava navigando per mari lontani san Brandano o regni dell’Asia lontana ricchi di pietre preziose, e via fantasticando) costituiva il repertorio del meraviglioso medievale. Ma se così soltanto fosse, queste meraviglie non sarebbero state diverse da quelle che avevano affascinato l’Antichità e il periodo ellenistico. Il Medioevo, invece, riesce a tradurre gran parte di questo repertorio del meraviglioso in termini di rivelazione spirituale. Forse nessuno ha mai espresso meglio questo tratto della psicologia medievale di Huzinga nel suo "Autunno del Medioevo" (XV): "Di nessuna grande verità lo spirito medievale era tanto convinto quanto delle parole di san Paolo ai Corinzi: Videmus nunc per speculum in aenigmatae, tunc autem facie ad faciem (ora vediamo oscuramente come attraverso uno specchio, allora invece vedremo direttamente). Il Medioevo non ha mai che qualunque cosa sarebbe assurda, se il suo significato si limitasse alla sua diffusione immediata e alla sua forma fenomenica, e che tutte le cose si estendono per gran tratto nell’aldilà. Quest’idea è familiare anche a noi, come sensazione non formulata, quando ad esempio il rumore della pioggia sulle foglie degli alberi o la luce della lampada sul tavolo, in un’ora tranquilla, ci dà una percezione più profonda della percezione quotidiana, che serve all’attività pratica. Essa può talvolta comparire nella forma di una oppressione morbosa che ci fa vedere le cose come impregnate di una minaccia personale o di un mistero che si dovrebbe e non si può conoscere. Più spesso però ci riempirà della certezza tranquilla e confortante , che anche la nostra esistenza partecipa a quel senso segreto del mondo".
L’uomo medievale viveva effettivamente in un mondo popolato di significati, di rimandi, sovrasensi, manifestazioni d Dio nelle cose, in una natura che parlava continuamente un linguaggio araldico, in cui un leone non era solo un leone, una noce non era solo una noce, un ippogrifo era reale come un leone perché come quello era segno, esistenzialmente trascurabile, di una verità superiore, e il mondo intero appariva come un libro scritto dal dito di Dio. Si è parlato di situazione nevrotica, ma in fondo si trattava di un’attitudine a prolungare l’attività mitopoietica dell’uomo classico, elaborando nuove figure e riferimenti in armonia con l’"ethos" cristiano, ravvivando attraverso una nuova sensibilità al soprannaturale quel senso del meraviglioso che la tarda classicità aveva ormai perduto da tempo, sostituendo gli dei di Luciano a quelli di Omero.
In tal senso l’uomo medievale assegna un significato mistico a ogni elemento dell’ammobiliamento del mondo: pietre, piante, animali. Le giustificazioni filosofiche di questo atteggiamento hanno basilarmente due origini. Una è di origine neoplatonica (e il neoplatonismo influenza grandemente il pensiero medievale, sia pure attraverso fonti spesso di seconda mano, come lo Pseudo Dionigi Areopagita […]
La seconda fonte è di origine scritturale e trova la sua teorizzazione più distesa in Agostino. Se "videmus nunc per speculum et in aenigmatae", enigmatico sarà anche il discorso delle Scritture. E non soltanto nel senso che le Sacre Scritture usino metafore e altre espressioni figurate, ma che spesso gli stessi fatti che esse raccontano non vanno presi letteralmente bensì come segno di una realtà o un precetto superiore…»
Il dramma dell’uomo moderno, dunque, è la perdita di questo "sovrasenso", che per l’uomo medievale era così evidente, come lo è — in verità — per tutti i membri delle civiltà pre-moderne, da quelle più raffinate culturalmente e spiritualmente, come l’indiana o la cinese, a quelle che si trovano a livello etnologico (e un tempo chiamate, discutibilmente, "primitive"), come nel caso dei popoli cacciatori e raccoglitori delle aree geografiche più remote e caratterizzate dalla presenza incombente di una natura difficile, talvolta decisamene ostile, sempre, comunque, tale da richiedere all’uomo il massimo impegno per assicurarsi la sopravvivenza.
Oltre all’uomo delle civiltà pre-moderne, comunque, vi sono, ancora oggi, milioni di esseri umani che hanno conservato la connessione spirituale con l’Essere, attraverso il senso del limite, il senso del mistero e, implicitamente, il senso del sacro: intendiamo parlare dei bambini, non ancora inquadrati secondo gli schemi di un razionalismo esasperato, e non ancora indottrinati in maniera artificiosa e presuntuosa, nonché aprioristica, su ciò che in questo mondo è "possibile" e ciò che non lo è, spegnendo in loro — processo che, purtroppo, è già iniziato, appunto con il razionalismo contemporaneo — la "seconda vista". I bambini, infatti, come tutti coloro che non hanno ancora assolutizzato il pensiero razionale e non hanno ancora dichiarato guerra alla conoscenza intuiva, extra logica (sovra-logica?) delle cose, possiedono la capacità di vedere anche quelle cose che noi non vediamo, o che — forse sarebbe più esatto esprimersi così — noi abbiamo perso la capacità di vedere, capacità che un tempo avevamo alla pari di loro, perché il nostro essere adulti non si era ancora sottomesso alla tirannia del Logos strumentale e calcolante.
Era forse questa "seconda vista" che rendeva così chiara l’esistenza del soprannaturale, per cui ben raramente i nostri progenitori si prendevano il disturbo di voler "dimostrare", oltretutto con strumenti esclusivamente logico-matematici, ciò che è talmente evidente, da poter essere "visto" da chiunque? Era forse per questo che non si prendevano la briga di voler "dimostrare", e tanto meno "spiegare", la presenza degli angeli e dei demoni, da cui deriva la naturale conclusione che la vita è il campo di battaglia fra le forze del Bene e quelle del Male, e che gli uomini non possono restare in disparte, neutrali, per vedere chi vincerà alla fine, ma devono scegliere se schierarsi dall’una o dall’altra parte, assumendosene la piena ed intera responsabilità, con tutte le sue immaginabili conseguenze?
Se non si legge con questo spirito il «Cantico delle creature» di Francesco d’Assisi e la «Divina commedia» di Dante Alighieri; se non si ammirano con questo spirito le pitture di Giotto, o le cattedrali romaniche e gotiche, o le sculture di Arnolfo di Cambio e di Giovanni Pisano; se non si meditano con questo spirito i Salmi, il Libro di Giobbe, i Vangeli, l’Apocalisse, l’«Imitazione di Cristo»; se non si studiano con questo spirito «Le confessioni» e «La città di Dio» di S. Agostino, o la «Summa teologica» di Tommaso d’Aquino, non si capirà nulla di tali opere, né dei loro autori; non si capirà nulla del pensiero medievale, della sua estetica, della sua morale. Si crederà d’aver capito, il che è ben diverso; ma, in realtà, non si avrà compreso un bel nulla.
Gli uomini moderni chiamano "visionario", o addirittura "nevrotico", colui che possiede la seconda vista; lo trattano da "mistico", nel significato dispregiativo del termine, o, peggio, da malato, quando non da ciarlatano e da truffatore vero e proprio. Non vogliono nemmeno prendere in considerazione che il reale, dopo tutto, possa essere anche qualcos’altro da quel che ci appare secondo i sensi, da quel che la scienza può dirci di esso: una scienza, si badi, sempre più sprofondata nel materialismo, nel meccanicismo e foderata di prevenzioni e pregiudizi contro tutto ciò che è invisibile, spirituale, soprannaturale. Con loro danno, però: si addentrano sempre più nella foresta buia e intricata del non-senso, dell’angoscia e della disperazione, che è una foresta mortale, dalla quale nessuno è mai uscito vivo. Dante lo sapeva, e ha voluto metterci in guardia. Ma noi, uomini moderni, siamo troppo evoluti e intelligenti, per dare ascolto ad un rozzo uomo medievale; noi preferiamo affidarci a ben alte guide: alla psicanalisi, all’esistenzialismo, al "pensiero debole"…
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