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L’«Arte della fuga» è il capolavoro di Bach e il vertice della musica polifonica europea

L’«Arte della fuga» («Die Kunst der Fuge») non è soltanto il capolavoro assoluto di quel genio musicale insuperato e insuperabile che è stato Johann Sebastian Bach (Eisenach, 31 marzo 685-Lipsia, 28 luglio 1750); essa è anche il mirabile punto d’arrivo e il vertice sommo di tutta la musica polifonica europea, e, in modo particolare, dell’arte contrappuntistica.

Tutto, di essa, è e rimane misterioso, come se volesse sottrarsi al nostro sguardo, o, quanto meno, ad un sguardo eccessivamente “moderno”: vale a dire, quasi sempre, razionalista, materialista, immanentista. Non conosciamo con certezza né la data di composizione, né il titolo originario, e addirittura neppure come Bach avrebbe voluto concluderla, se la malattia e, successivamente, la morte, non lo avessero fermato anzitempo, sicché possiamo sbizzarrirci a volontà anche su questo fondamentale aspetto; in breve, ci sfugge tanto il suo disegno complessivo, quanto la sua intenzione originaria.

Che cosa voleva fare, esattamente, Bach? Non ci ha lasciato neppure delle indicazioni precise riguardo alla strumentazione: quasi che la sua esecuzione materiale, dopotutto, non lo riguardasse più di tanto. Voleva dunque comporre un’opera ideale perfetta, destinata a essere letta, più che ad essere eseguita concretamente? Era dunque una intenzione astratta e puramente matematica, la sua? Oppure, anche questa volta, rischiamo di andare incontro — come in tanti altri casi, quando si parla di Bach — a dei giganteschi fraintendimenti, a delle colossali incomprensioni, per la semplicissima ragione che noi siamo troppo piccoli per arrivare a comprendere quel che passava per la testa di un uomo così grande?

E che i suoi contemporanei, per primi, fossero davvero dei lillipuziani, al suo confronto, lo dimostra il fatto di quanto poco egli sia stato compreso, amato, ammirato, per quel che effettivamente era: il più grande compositore di tutti i tempi. Al massimo, gli riconoscevano un notevole talento come esecutore: quasi che la Germania e l’Europa di allora scarseggiassero di virtuosi dell’organo e di provetti clavicembalisti. Come se non bastasse, non riuscivano a capire la sua propensione per il “vecchio stile”: anacronistica, e peggio, appariva la sua “ostinazione” nei modi del Barocco delle passate generazioni, così robustamente architettonico, grandioso, armoniosamente perfetto. Agli occhi dei soliti novatori e “progressisti” (tutto il mondo è paese, ieri come oggi), Bach era un vecchio signore che sprecava il suo talento attardandosi, inspiegabilmente, e – tutto sommato -inutilmente, a rovistare fra le ceneri di un modo di fare musica che era già sorpassato dalle nuove correnti del gusto rococò.

A tutto ciò si aggiunga il pregiudizio, tipicamente moderno, contro il genio, di qualunque genere egli sia. La modernità tende a produrre dei nani, in ogni campo: dalla filosofia all’arte, dalla scienza alla musica: niente di strano, perciò, che la critica moderna, con il valido supporto della psicologia e della psicanalisi, abbia sentenziato che il genio non esiste, o che, se pure esiste, è solo un caso di malattia mentale, di nevrosi, di frustrazione e repressione sessuale, di disordine psichico. Freud “docet”, e tutti gli altri a seguire. Non esiste il genio, bensì esistono le condizioni sociali, economiche, culturali, che producono, in un certo individuo, la somma delle tendenze, delle ispirazioni, delle tecniche accumulate nel corso di un certo periodo storico. Del resto, è evidente, il genio non solo non può, ma soprattutto non deve esistere: altrimenti, dove andrebbero a finire tutte le chiacchiere egualitariste e democraticiste che pretendono di appiattire l’intero genere umano sulla misura degli sciocchi, dei fannulloni e dei conformisti?

E si aggiunga che Bach, come uomo, è, agli occhi della cultura moderna, e specialmente novecentesca, qualcosa di incomprensibile, quasi di scandaloso: figuriamoci, un genio apparentemente semplice, tutto casa e famiglia; un uomo solido, un borghese tutto d’un pezzo, sempre attento a spillare le condizioni economiche migliori, a contrattare e litigare per pochi soldi che gli son dovuti dalle autorità municipali che lo stipendiano; che ha una numerosissima famiglia da mantenere; che si è sposato felicemente due volte, la seconda non dopo aver lasciato la moglie, ma dopo essere rimasto vedovo (ed entrambe le volte con una donna di vent’anni, ma a vent’anni di distanza); che insegnava la musica ai suoi figli e che teneva con essi dei festosi, simpaticissimi concerti privati, pressoché quotidiani; che ha viaggiato pochissimo, e quasi sempre a piedi; che non è mai stato fuori della Germania (anche se amava e trascriveva la musica italiana, specialmente del grande Frescobaldi); che, insomma, visto dal di fuori, non solo non aveva nulla, assolutamente nulla, del genio tutto sregolatezza, ma che dava, semmai, l’impressione d’una persona ordinaria, quasi banale, tutta presa dal suo ruolo di padre di famiglia e dalle sue funzioni di musicista di corte e, poi, di maestro di cappella cittadino.

Ma si può immaginare qualcosa di più contrario, di più opposto a ciò che noi tutti, freudiani e non, ci aspetteremmo dal più grande genio musicale d’ogni tempo? Perfino il suo viso di solido borghese, debitamente imparruccato, dai tratti decisi, bonari, pacati, tutt’altro che insoliti o inquietanti, non sembra affatto quello di un genio. Eppure quest’uomo che visse quasi sempre sostanzialmente ritirato, e costretto a svolgere umili mansioni per l’intera sua esistenza, lottando ogni giorno per arrivare alla fine del mese, ha composto più di mille opere: una cifra che dà le vertigini: e, fra esse, vi sono parecchi capolavori assoluti. Ha abbracciato praticamente tutti i generi musicali: vocale, per organo, per clavicembalo, per strumenti vari, per orchestra, contrappuntistico. Ha scritto corali, mottetti, cantate, messe, passioni, oratori, lieder spirituali; preludi, fughe, toccate, fantasie; invenzioni a due e tre voci, duetti, suites, partite; composizioni per liuto e violino, sonate per flauto e viola da gamba; canoni; e infine — per rendere il mistero ancora più fitto, se possibile –un autentico stuolo di composizioni di incerta o dubbia attribuzione. Ci si domanda dove trovasse il tempo, oltre che la serenità, per comporre così tanto. E su ogni spartito, in calce a ogni composizione, il motto immancabile: S. D. G.: Soli Deo Gratia. Perché Bach era un musicista religioso, componeva per la sola gloria di Dio e la sua anima era tutta proiettata verso l’Assoluto; non cercava l’applauso degli uomini.

Ma torniamo all’«Arte della Fuga». Secondo interpretazioni recenti, specialmente del musicologo Christoph Wolff, Bach avrebbe incominciato a scriverla verso il 1740: oggi si ammette ormai comunemente che i primi quattro brani precedono di parecchio quelli successivi. La morte di Bach, sopraggiunta nel 1750, non gli ha permesso di conclude l’opera; ma l’interruzione sembra essersi verificata verso la metà del 1749, a causa della malattia agli occhi che lo condusse alla completa cecità. Bach era fatto così: se circostanze esterne non lo pungolavano, tendeva a lasciare incompiute le sue opere, almeno quelle più ampie ed ambiziose. C’è da rallegrarsi che l’altro suo capolavoro della maturità, «L’offerta musicale», fosse pungolato dall’impegno di rispettare la promessa fatta al re Federico di Prussia; mentre l’«Arte della fuga», scritta — una volta tanto — in assoluta libertà, ha finito per smarrirsi nei meandri di un progetto smisurato, e per sua stessa natura, forse, destinato a non conoscere una conclusione vera e propria. Così come sarebbe impossibile scrivere la parola “fine” sulla foce d’un grande fiume (Bach, in tedesco, significa “corrente”): di un fiume destinato a fluire sempre, a non fermarsi mai.

Riportiamo qualche passaggio della monumentale opera di Piero Buscaroli sul sommo compositore tedesco (da: P. Buscaroli, «Bach», Milano, Mondadori, 1998, pp. 1012-1013):

«L’opera tarda di Johann Sebastian Bach è per noi, oggi, avvolta nel mistero. Non f sempre così. Prima, era diverso. Fin dalla classica biografia di Philipp Spitta, sembrava chiarito il problema di che cosa Bach avesse composto negli ultimi quindici anni della sua vita, e di che cosa si fosse occupato. Nella sistemazione di Spitta, il periodo delle grandi opere cicliche si era concluso intorno alla metà degli anni ’30. Il “Natale” e i due minori Oratori, la “Messa in si minore” e le piccole messe erano compiuti. Le “Passioni” risalivano a un periodo ancora più lontano. Quanto alle opere per organo, il “III Theil” della “Clavier-Übung” (stampata nel 1739) apriva, con le sue vaste elaborazioni sui Corali sul Preludio e la Fuga in mi bemolle maggiore, e i suoi misteriosi quattro Duetti, il gruppo delle ultime opere: il “IV Thei” della “Clavier-Übung” (stampato nel 1742) con le “Variazioni Goldberg”, costituiva una sorta di introduzione alla corona dei magistrali cicli contrappuntistici degli ultimi anni, le “Variazioni canoniche sopra “Vom Himmel hoch, da komm’ich her”, all'”Offerta Muscale” e all'”Arte della Fuga”. […]

Cominciò a franare per prima la poetica leggenda del maestro cieco che “pochi giorni prima della morte, detta al genero un preludio sulla melodia e il testo di ‘Von deinen Thron tret’ich hiermit’, l’ultimo pezzo della sua opera”. Ai tempi in cui Alfred Einstein pubblicò l’elegante saggio “Opus ultimum” [Londra, 1958], una rassegna dei supremi congedi, reali o putativi, firmati dai grandi della musica, la leggenda era ancora ben ferma. Che questo “ultimo pensiero” di Bach fosse posto dallo “sconosciuto editore” come un rappezzo a mascherare la “Quadruplefuge” con cui finiva “L’arte della fuga”, “così che il compratore non temesse di fare un cattivo affare” comperando un libro così caro e per di più incompleto, parve al grande storico della musica una “soluzione melodrammatica”. “Non si può proprio piantare una tripla fuga incompiuta alla battuta 239. Avrebbero dovuto darle una conclusione, per renderla adatta all’esecuzione pratica, come fu tentato da Busoni in tre differenti versioni della sua “Fantasia contrappuntistica”. O altrimenti, lasciarla fuori. Ma in nessun caso, dopo aver ascoltato il vero “Opus ultimum” di Bach, intriso di tutta la sua sublime grandezza musicale, dovremmo trovarci davanti a questo suo “ultimo pezzo”…»

L’«Arte della Fuga» è un’opera straordinariamente complessa, e, nello stesso tempo, straordinariamente affascinante, di un fascino strano, misterioso, quasi elusivo. Bach ha voluto, si direbbe, sondare fino in fondo tutte le possibilità, sia formali, sia espressive, che presenta l’arte del contrappunto. In un certo senso, è come se un grande matematico avesse voluto esplorare tutte le possibilità del calcolo logaritmico, compiacendosi di costruire un edificio grandioso, elegantissimo, impeccabile, superando tutto ciò che finora era mai stato fatto prima di lui, ma non per ansia di gloria, bensì per soddisfare un suo bisogno interiore, diciamo di natura eminentemente contemplativa, dunque assolutamente disinteressata e distaccata: un bisogno di contemplare le altezze e di respirare l’aria purissima e incontaminata che regna lassù.

Bach si staglia, con quest’opera, come un gigante solitario, e tuttavia senza nulla di titanico, di romantico, di faustiano: egli non vuol sfidare niente e nessuno, se non le possibilità musicali in se stesse; e non gonfia il petto d’orgoglio, tanto è vero che non rende pubblico il suo capolavoro, anzi, non si affanna neppure a terminarlo, e del resto ci lavora quando può, a grandi intervalli, fra una incombenza quotidiana e l’altra, e mentre si occupa di portare a termine altri lavori: lavori che ha promesso di completare e che qualcuno sta aspettando con impazienza, come l’«Offerta musicale» per il re di Prussia. Del resto, questo grande matematico è anche un grandissimo poeta: e gli spartiti musicali che riempie, uno dopo l’altro, nella sua vita schiva e raccolta, in mezzo al lieto rumore di una famiglia numerosa, non sono soltanto un monumento alla somma perfezione della teoria musicale, ma anche l’espressione di un sentimento artistico e religioso profondo, commosso, creativo, originalissimo. Bach è l’umile operaio di Dio, e come tale si considera; eppure, dalle sue mani prodigiose fluisce un torrente, un fiume, un oceano di poesia musicale, quale non era mai stata scritta prima di lui, né mai lo sarà dopo.

L’«Arte della Fuga» consta di diciannove fughe (ma il loro numero varia a seconda di come vengono considerate) a tre e quattro voci, di quattro canoni e di un corale a quattro voci. Nessuna indicazione circa la strumentazione, come si è detto. Si è incerti perfino se considerarla un’opera unitaria, o un insieme di composizioni distinte: ma si tratta di un dubbio, in fondo, alquanto futile, perché le composizioni sono collegate l’una all’altra in una catena così armoniosa, così scorrevole, così naturale, che, pur essendo – come l’orecchio esperto immediatamente percepisce – il risultato di una sovrumana padronanza del contrappunto e di una perizia nel condurre i singoli motivi e le singoli voci in un gioco prodigioso di accostamenti, di sovrapposizioni, di rimandi, di inversioni e di riprese, l’impressione è che ci si trovi davanti a un tutto unitario e coeso, scaturito non già da un paziente e diuturno sforzo intellettuale, ma quasi d’un sol colpo, dalla felice creatività di una divinità musicale.

Si resta non solo infinitamente ammirati, ma anche perplessi, quasi sconcertati, davanti a composizioni come questa; e non si può che rimanere stupiti, turbati, commossi, davanti a figure come quella di Johann Sebastian Bach. È come se il Cielo, nella sua ineffabile misericordia, voglia inviarci, di tanto in tanto, degli angeli consolatori, capaci, con la loro arte, di trasmetterci tutto quanto vi è di nobile, di puro, di spirituale, nel mondo dell’arte e per suscitare in noi sentimenti positivi, fatti di contemplazione, ammirazione, sconfinata gratitudine.

Non è chi non veda, d’altra pare, quale abisso separi questa maniera di intendere la missione dell’artista, da quella propria dei moderni: così spesso impastata di ego e di narcisismo, provocatoria, beffarda, dissacrante, e tale da ridestare in noi il fondo melmoso che giace negli abissi dell’anima, invece di fare appello alla nostalgia delle altezze. Ogni epoca storica ha l’arte che si merita e gli artisti che la corrispondono.

Evidentemente, anche in questo campo, l’eterna lotta del Bene e del Male si combatte incessantemente, tutto intorno a noi, ma soprattutto entro di noi; e l’esito non è mai scontato.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Ylanite Koppens from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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