
La nozione del mistero è originaria o frutto di una evoluzione storica?
28 Luglio 2015
Il Diavolo, probabilmente…
28 Luglio 2015Che cosa vuol dire capire la realtà, comprendere il mondo, così come esso ci è dato, con tutto il suo splendore e il suo incanto, con tutta la sua bellezza e il suo mistero? Siamo sicuri, come lo è la cultura oggi fra noi dominante, che capire la realtà sia prima di tutto una cosa che riguarda la mente, e non piuttosto le profondità del cuore?
Lungi da noi voler sminuire l’importanza, il valore e il significato della speculazione razionale; lungi da noi voler rimpicciolire l’eterno sforzo della ricerca filosofica. Ma siamo sicuri che la ricerca del vero e la comprensione del reale sia un processo che riguarda solo e unicamente le fredde regole della ragione? Abbiamo visto dove un tale atteggiamento ci ha portati: al relativismo, allo scetticismo, al nichilismo. Ci siamo scoraggiati perché, avendo constatato come sia sfuggente, elusivo, irrealizzabile un tale compito, a un certo punto abbiamo cominciato a dubitare, non già di esso, ma della verità in sé, della bellezza in sé, della giustizia in sé. Abbiamo sospettato che, se è tanto difficile raggiungerle, forse ciò significa, semplicemente, che esse non esistono. E se si trattasse, invece, di restituire centralità al ruolo del sentire, alla funzione del cuore; in altre parole, di tornare a coinvolgere la globalità e la coesione dell’anima umana, nella quale la mente non è un organo separato, non è uno strumento capace di procedere, sempre e comunque, in perfetta solitudine, ma che, pur avendo la sua giusta e doverosa autonomia, non è, tuttavia, autosufficiente, non può pretender di rappresentare l’interezza del sentire, del vedere, del volere e, quindi, del comprendere?
Questa è una verità che in tutte le altre culture, ad eccezione di quella europea occidentale, viene universalmente ammessa, tanto in quelle etnologiche che in quelle evolute, tanto fra le persone colte che fra quelle umili e semplici. In Russia, per esempio, sempre restando entro i confini geografici dell’Europa, esiste un ricco filone di pensiero e di spiritualità che tende a ridare centralità e prestigio al sentire del cuore, oltre che al capire della mente; intuizione che, nell’Occidente del nostro continente, Pascal aveva così bene espresso quando aveva detto che «il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce» e quando aveva sostenuto che l’uomo, per conoscere e comprendere, ha bisogno non solo dell’«esprit de géometrie», ma anche dell’«esprit de finesse»: non solo della ragione matematica, ma anche dell’intuizione e della sensibilità.
Nel racconto biblico della Genesi si parla di due alberi fondamentali, all’interno del Paradiso terrestre: l’Albero della vita e l’Albero della conoscenza del bene e del male; ciò significa che la conoscenza è una facoltà importantissima per l’essere umano, ma che, accanto ad essa, e prima di essa, vi è il mistero della vita, mistero che quella non potrà mai penetrare interamente, a meno di riconoscere la propria finitezza, la propria inadeguatezza, e di rimettersi a un livello del "conoscere" che coincide, in ultima analisi, con l’abbandono dell’io e con il fiducioso lasciarsi andare nel grembo dell’Essere, facendosi un docile strumento del Suo volere, del Suo agire e, soprattutto, del Suo amare..
Il filosofo Remo Bodei ha riconosciuto, sulla scorta dello sviluppo del pensiero classico e cristiano, specialmente di Sant’Agostino, le componenti della trinità umana: intelligenza, volontà e amore; ebbene, il torto del pensiero "moderno" è stato proprio quello di ridurre la trinità a una dualità, escludendo o ignorando l’amore, come cosa trascurabile o adatta alle nature "sentimentali", e subordinando la volontà all’intelligenza, mentre è vero il contrario, che l’intelligenza deve essere sottomessa alla volontà. E cosa debba volere la volontà è, per l’appunto, il compito dell’amore, vale a dire del "cuore": perché il cuore sa cose che l’intelligenza ignora.
Ricapitolando: la cosa più necessaria all’uomo, anche nell’atto del conoscere e nella meraviglia del comprendere, è un cuore buono, dal quale scaturisca l’amore, e che sia aperto a riceverlo a sua volta; la seconda, una retta volontà, ossia un volere ispirato dall’amore, indirizzato dall’amore, corroborato dall’amore; la terza, una retta intelligenza delle cose, la quale deriva, sì, da un retto uso degli strumenti logici, ma, contemporaneamente, da una capacità di "sentire" le cose, di farsi tutt’uno con esse, e questo non è possibile senza l’amore e senza la retta volontà.
Il rimprovero che si può fare alla ragione "illuminista", strumentale e calcolante, è di aver proceduto senza amore verso le cose e senza la consapevolezza di doversi sottomettere alla retta volontà; il rimprovero che si può, e si deve fare, alla cosiddetta rivoluzione scientifica del XVII secolo, basata sul metodo sperimentale e induttivo, è proprio quello di non aver saputo vedere la bellezza delle cose, degli enti, del fenomeno "vita", ma di aver matematizzato ogni cosa, riducendo gli enti a delle mere quantità astratte, addizionabili o sottraibili, moltiplicabili o divisibili: mentre la vita è sempre una realtà concreta, palpitante, che implica amore e bellezza: e Galilei, quando descrive, nel «Saggiatore», la spietata vivisezione di una cicala, al solo scopo di comprendere il meccanismo del suono che essa produce, mostra di non possedere né senso della bellezza, né compassione, e dunque di non possedere alcuna capacità di amore.
La scienza che ne è derivata non poteva che essere, e lo sta dimostrando sempre più, una scienza malvagia, perfino diabolica: indifferente alla sofferenza, incurante della bellezza, protesa unicamente a realizzare i suoi fini quantitativi di calcolo, manipolazione, addizione e sottrazione (vedi l’intervento sul patrimonio genetico per stabilire e pianificare le caratteristiche dell’organismo vivente). Che si tratti di una pianta, di un animale o di un essere umano, la cosa le è indifferente: perché non ha stupore davanti al mondo, non prova rispetto per la vita, non sa inchinarsi davanti al mistero del reale. È presuntuosa, di una presunzione diabolica; ed è stupida, perché non possiede dei fini, né se ne pone il problema, ma procede solo mediante gli strumenti, sempre più raffinati, dei quali dispone e che incessantemente mette a punto, senza sapere minimamente dove andrà a finire e verso quale destino trascinerà il genere umano.
Ha scritto P. D. Jurkevic nel suo bel saggio «Il cuore nella vita spirituale dell’uomo» (in: «L’altra Europa», Milano, Centro Studi sulla Russia cristiana, bimestrale, marzo-aprile 1986, pp. 60-1):
«Nell’esperienza interiore, noi in genere non ci accorgiamo di quanto muti l’encefalo in base ai mutamenti dei nostri pensieri, desideri e sensazioni; se ci attenessimo alla sola introspezione immediata non ci renderemmo neppure conto del fatto che esso è l’organo dell’anima cosciente e pensante. Se questo rapporto tra il pensiero e il suo organo è ragionevolmente fondato nella destinazione del pensiero che di per sé deve essere la serena e indifferente coscienza della realtà che ci circonda, da ciò si deduce però che, come nel pensiero, così anche nel suo organo corporeo, l’anima non rivela la ricchezza del proprio essere in tutta la sua pienezza e indivisibilità. Se l’uomo ritenesse di essere costituito dal solo pensiero, che in tal caso, con ogni probabilità, sarebbe l’immagine più autentica degli oggetti esterni, è evidente che il mondo, con la sua varietà e la ricchezza della sua cita e della sua bellezza, si rivelerebbe alla sua coscienza come un’entità matematica, regolare ma nello stesso tempo anche priva di vita. Egli potrebbe anche conoscere questa entità in lungo e in largo e interamente e perciò non saprebbe più incontrare da nessuna parte un essere autentico e vivo, capace di stupirlo con la bellezza delle sue forme, con il mistero del suo fascino e l’infinita pienezza di contenuto .Ci pare che nell’anima reale non esista affatto un simile pensiero unilaterale. E cosa sarebbe mai l’uomo se il suo pensiero non fosse destinato ad altro se non a ripetere nei propri movimenti ciò che accade nella realtà o a riflettere dentro di sé dei fenomeni estranei allo spirito? Se le cose stessero così i nostri pensieri potrebbero anche distinguersi per una precisione pari a quella delle entità matematiche, ma resterebbe comunque il fatto che nella nostra conoscenza delle cose potremmo muoverci solo in ampiezza e non in profondità. Il mondo, come sistema di fenomeni vivi, pieni di bellezza e di valore, esiste e si rivela innanzitutto per le profondità del cuore e di qui, poi, per il pensiero concettuale. I problemi speculativi hanno il loro fondamento ultimo non nelle influenze del mondo esterno, ma nelle passioni e nelle irresistibili esigenze del cuore. Chi sa quanto poco contribuisca alla nostra conoscenza il mondo sensibile, quanto siano povere e prive di contenuto le sensazioni che nascono dall’incontro della coscienza con gli oggetti esterni, ben capirà il valore della dottrina biblica secondo cui il fondamento , la vitalità e la profondità del nostro pensiero e della nostra coscienza risiedono in quel’essere psichico la cui manifestazione è da noi conosciuta con un’esperienza diretta e interiore solo nelle passioni del nostro cuore, cioè in quelle passioni che trovano il nostro cuore così sensibile e ricettivo. Consci di questo fatto i migliori filosofi e i grandi poeti hanno sempre considerato il loro cuore l’autentico luogo genetico delle loro idee più profonde, che essi affidavano all’umanità appunto attraverso le loro opere; e hanno sempre riconosciuto che la coscienza, la cui attività va di pario passo con le funzioni degli organi di senso, e dell’encefalo, dava a queste idee solo quella chiarezza e quella precisione che sono tipiche del pensiero. Per dei motivi che non è qui il luogo di spiegare ulteriormente, noi siamo abituati a considerare l’anima una sorta di macchina che funziona e agisce in esatta corrispondenza agli stimoli e alle impressioni che le vengono dal mondo esterno. Benché sia inaccessibile al nostro sguardo, noi vorremmo definire l’essere dell’anima, che è destinata a svilupparsi non solo nel tempo ma anche nell’eternità, unicamente in base agli stati che sono prodotti in essa dalle impressioni del mondo esterno. Da questo punto di vista,m uno psicologo sostenne che, con l’ulteriore sviluppo delle nostre conoscenze sull’anima, noi saremmo stati in grado di determinare i suoi movimenti e cambiamenti con la stessa precisione matematica con la quale determiniamo ora i movimenti di una macchina a vapore, e in questo senso governare gli stati e i movimenti dell’anima sarebbe diventata un’0attività facile ed esattamente predeterminabile come lo è oggi far funzionare una macchina a vapore. Noi riteniamo però che questa speranza resterà sempre una chimera, che nell’anima umana resterà sempre una serie di stati e di movimenti cui non si potrà mai applicare la legge fisica di uguaglianza tra azione e reazione. La concezione biblica sul significato del cuore umano per la vita spirituale dell’uomo enuncia appunto, con profonda veridicità, questa particolarità esclusiva dell’anima umana, e si pone così in aperta contraddizione con la concezione meccanica che non attribuisce alcun valore a questa particolarità.»
Per il pensiero razionalista moderno, ad esempio per Spinoza, le passioni sono una specie d’infezione dell’anima, che bisogna combattere e, se possibile, estirpare, perché solo mettendole a tacere, o neutralizzandole, l’uomo diventa capace di porsi nella giusta relazione con il mondo, che è di tipo puramente intellettuale. Ma dire che le passioni sono cattive, tutte senza eccezione, equivale a dire che l’uomo è sbagliato, ontologicamente e irrimediabilmente: perché l’anima umana è piena di passioni, è infiammata dalle passioni, e sono le passioni che la spingono verso le mete più alte e significative, ivi compresa la passione intellettuale. Ma se l’uomo è sbagliato, è possibile che il pensiero razionale lo possa redimere? È possibile che egli possa redimersi da solo, trasformare da se stesso il proprio statuto ontologico? Ecco il grande peccato d’orgoglio del razionalismo, di tutti i razionalismi, che si accompagna ad un altro peccato, ugualmente imperdonabile, di giudizio: vedere nell’uomo quel che non è, additargli una meta erronea e impossibile. Impossibile, perché l’uomo non può spogliarsi delle proprie passioni, a meno di suicidarsi interiormente; erronea, perché consiste nell’inutile sacrificio di una sua parte essenziale.
Certo, nell’anima umana vi sono anche le passioni negative, distruttive, foriere d’ingiustizia e d’infelicità. Ma certo il rimedio non è quello di estirparle tutte, insieme alle buone: sarebbe più o meno come curare il mal di testa con le decapitazioni. No: le passioni sono la pare più nobile dell’uomo, quella che lo spinge verso le altezze, quella che lo sprona quando è pigro, che lo incoraggia quando è stanco, che lo consola quando è afflitto, che gli mostra la via del Cielo e che lo spinge all’amore e alla solidarietà verso gli altri viventi. Del resto, anche le passioni vanno sottoposte al dominio della volontà buona; ma questa, come si è visto, discende da un cuore buono: dunque, ancora una volta, da una passione, anzi, dalla passione fondamentale, senza la quale l’uomo non sarebbe uomo, meglio, non sarebbe affatto: l’ardente bisogno d’amare e di essere amato…
Fonte dell'immagine in evidenza: sconosciuta, contattare gli amministratori per chiedere l'attribuzione