
Toccarsi è socialmente inibito proprio perché così necessario al benessere?
28 Luglio 2015
Ma è proprio vero che il Cristo risorto non si è mostrato a sua Madre?
28 Luglio 2015È piuttosto strano che al vasto pubblico italiano ed europeo sia poco familiare il nome di Biagio Pelacani, nato verso il 1355 a Costamezzana, non lontano da Parma, e morto nel 1416 a Parma, rettore di quella università, dopo avere insegnato matematica, astrologia e filosofia fra Bologna, Pavia e Padova.
Nelle sue concezioni filosofiche, infatti, simili a quelle dell’aristotelismo padovano, troviamo quasi tutto il bagaglio intellettuale che sarà caratterizzante del pensiero moderno: la netta separazione tra ragione e fede; il rifiuto o il disdegno dell’approccio metafisico al reale, in favore di una visione radicalmente immanentistica; l’idea della mortalità dell’anima umana e, viceversa, della eternità dell’universo (secondo la logica di un naturalismo radicale, sfociante in un implicito panteismo); la fiducia nella spiegazione scientifica dl mondo, vista, in definitiva, come la sola realmente adeguata alla conoscenza umana; il rifiuto dell’unione con Dio quale scopo ultimo della vita umana, in nome di un edonismo coerente e totale; la separazione decisa fra etica e religione e l’affermazione che l’uomo deve agire bene non per guadagnarsi meriti nella vita futura – che non esiste — ma perché capace di imporsi da sé le giuste norme di vita (analogia con l’imperativo categorico kantiano); la tendenza a far coincidere il bene con l’utile (come faranno gli illuministi e gli utilitaristi quattro secoli dopo).
Ce n’era abbastanza per finire sul rogo, come toccò a Cecco d’Ascoli, o, quanto meno, in prigione, come accadde a Pietro d’Abano; invece, stranamente, la vita e la carriera accademica di Biagio Pelacani conobbero solo poche battute d’arresto: processato per eresia nel 1396, lasciò Pavia per la più ospitale Padova, indi per la sua Parma, ove, dopo la morte, ottenne anche la sepoltura nel Duomo cittadino, con buona pace dei suoi inquisitori e della fama di "doctor diabolicus" che lo aveva circondato: evidentemente, godeva di protezioni assai potenti. Inoltre, è probabile che, dei tre, egli fosse il più abile — anche se non lo si può definire guardingo, come fra poco vedremo — nell’ esporre le sue concezioni eterodosse, sia nelle lezioni agli studenti, sia nelle pubblicazioni scritte: Cecco, il più irruente, fu giustiziato; Pietro d’Abano fu assolto in due processi, ma durante il terzo morì in carcere, forse per le torture, indi il suo cadavere venne riesumato e bruciato, essendo sopraggiunta la condanna; Pelacani se la cava con un trasferimento da una università all’altra e giunge al vertice dello Studio parmense, con tanto di sepoltura in chiesa. Eppure, i tre uomini avevano sostenuto delle tesi molto simili; l’astrologia, cui tutti e tre riallacciavano il loro pensiero, non era ufficialmente condannata dalla Chiesa, però era guardata con sospettosa attenzione; tutti e tre erano stati accusati o spettati di magia, eresia e ateismo, e si erano difesi accampando la dottrina della "doppia verità". Pietro d’Abano, per esempio, aveva sostenuto che la creazione è cosa verissima seconda la Scrittura, ma che non lo è secondo ragione, perché alla perfezione divina non si addice il darsi da fare.
Biagio Pelacani si dichiara un buon cristiano, però, nelle sue lezioni, non solo moltiplica le affermazioni eretiche, ma lo fa anche senza una vera necessità, così, solo perché trascinato dalla foga del discorso (per usare l’espressione dello storico della filosofia Sergio Landucci): parlando dell’anima individuale, sostiene che essa è di natura materiale, dunque mortale (come voleva Averroè); aggiunge di credere nella generazione spontanea dell’uomo (il che toglie significato alla creazione divina e a tutto il racconto biblico di Adamo ed Eva, Peccato originale compreso); come se non bastasse, qualifica il racconto della «Genesi» quale "favola da donnette"; si spinge sino a sostenere che ciascuna religione è ispirata dagli astri, e il cristianesimo, per esempio, è scaturito da una congiunzione favorevole di Giove con Mercurio. Tutto questo egli insegna nella «Quaestiones de anima», che non furono distrutte, dal momento che noi possiamo ancora leggerle; e anche questo è un dato piuttosto sorprendente.
Così riassume l’etica di Biagio Pelacani la studiosa Graziella Federici Vescovini nella sua pregevole monografia «Astrologia e scienza. La crisi dell’aristotelismo sul cadere del Trecento e Biagio Pelacani da Parma» (Firenze, Vallecchi, 1978, pp. 402-05):
«Separato il piano della fede da quello della filosofia e ricondotto l’orizzonte del sapere umano alla esclusiva sfera naturale che non riconosce nessuna realtà sovrannaturale, il filosofo si troverà, da pagano, immerso in un cosmo in cui la felicità non potrà venirgli certamente dalla conoscenza del bene assoluto che è Dio, il fine di ogni perfezione.
Per meglio dire: negata la realtà di qualunque perfezione in quanto tutto è continuamente perfettibile, nell’orizzonte etico di Biagio rimane solo la perfettibilità, non la perfezione. Ma allora in che cosa consiste la felicità che è il bene dell’uomo? Questo importante problema è affrontato in una lunga e complessa questione del libro secondo della fisica, prima relazione, da cui si ha un chiaro esempio di come la trattazione morale fosse da lui intesa in relazione alla concezione naturale astrologica di tutti i problemi: "utrum ens naturaliter appetat esse et permanere". Qui egli affronta il problema alla maniera naturale dell’etica intellettualistica di Aristotele: e cioè che l’uomo desidera il bene che consiste nella sua forma razionale, che è il suo essere. Questa formulazione generale è articolata in molte argomentazioni che egli divide in quattro tipi: 1) argomentazioni che soddisfano i medici e i fisici ("philosophis naturalibus"); 2) che convengono con la morale; 3) che rispettano – ma sarebbe meglio dire che non rispettano – la fede cattolica; 4) che soddisfano l’astrologia.
Le argomentazioni mediche e fisiche del primo tipo servono di base per sostenere quelle morali del secondo tipo. Secondo esse la materia in sé è indifferente a desiderare qualunque forma; tuttavia, di fatto, la materia desidera la forma che essa ha e viceversa. Pertanto "materia et forma mutuo appetunt collegantiam et connessionem". Le determinazioni morali poste da Biagio svincolano completamente la vita morale dell’uomo da quella religiosa, secondo una impostazione che più tardi sarà condivisa da Pomponazzi. Così afferma come seconda proposizione morale: "non est ponere nec asserere aliam vitam post istam".
L’uomo virtuoso non agirà bene, dunque, perché si attende di essere premiato nell’altra vita. Non vi è acquisizione di felicità dopo la vita presente. L’unico premio che attende l’uomo per la sua virtù sarà, invece, la buona e lodevole fama temporale e terrena. La moralità sarà, pertanto, fine a se stessa:;potrà solo assicurare una immortalità, affidata alla gloria mondana. La felicità dell’uomo non consiste –come ritengono gli spiriti religiosi – nella visione beata di Dio, né nell’amore di Dio. E lo si dimostra secondo una argomentazione pretesa "teologica", che avrebbe sbalordito san Tommaso e sant’Agostino: "Visio dei clara non est beatitudo hominis. Probatur… Dilectio dei firma non est perfecta hominis beatitudo. Probatur…
L’argomentazione di Biagio è, invece, prettamente edonistica, se non utilitaristica, in quanto egli fa prevalere il concetto restrittivo, in senso naturale, fisico, dell’espressione felicità della "vita" umana: pertanto, la felicità dell’uomo consisterà nella sufficienza dei comodi ad essa competenti. E contro sant’Agostino sosterrà (anche se in forma dubitativa) che l’uomo dovrà prediligere se stesso all’amore di Dio, perché la sua azione è veramente virtuosa, solo quando è compiuta per se stessa, per l’"amor sui" e non per l’"amor Dei". Biagio arriverà, quindi, ad affermazione paradossali e blasfeme, anche se poste in forma dubitativa che ci rendono perfettamente plausibile il richiamo del Vescovo: per esempio quella che l’uomo può anche odiare Dio del cui odio egli ha un merito, qualora confonda Cristo con il demonio; oppure l’altra che pone l’interrogativo se l’uomo ha la libertà di suicidarsi, a cui Biagio risponde con una argomentazione astrologica.»
Per Biagio Pelacani, dunque, la virtù è premio a se stessa, ma non ha niente a che fare con la religione; così come le strade della fede e della ragione filosofica, a un ceto punto, si dividono: se si vuol seguire l’una, bisogna abbandonare l’altra, e viceversa. E questo è il punto di maggiore audacia cui sia pervenuto un seguace della dottrina della "doppia verità".
Nel pensiero di Biagio Pelacani, dunque, si incontrano e si incrociano l’utilitarismo, l’edonismo, il naturalismo, il razionalismo libero e spregiudicato, il rifiuto della metafisica e l’orgogliosa affermazione della eccellenza dell’uomo quale creatura ragionevole. Ma c’è un altro aspetto caratteristico, che ne fa realmente un precursore del libertinismo e, indirettamente, del pensiero moderno laicista, ateista e radicalmente immanentista: la fiducia pressoché illimitata nel sapere scientifico. In fondo, egli è soprattutto un matematico: si è formato a Parigi, alla scuola di Alberto di Sassonia, nell’ambiente dei "calculatores", che sottoponevano le regole della meccanica aristotelica ad una critica rigorosa, applicando nuovi strumenti matematici allo studio della fisica, e specialmente della dinamica. Che un tale uomo abbia voluto farsi banditore di una nuova etica e di una nuova concezione del mondo, è molto significativo e suggerisce interessanti accostamenti con uomini e situazioni dell’odierno paradigma culturale.
Anche se, nel Medioevo, il matematico era anche un astrologo e anche se, dall’astrologia (scienza che comprendeva l’astronomia come la intendiamo oggi) era relativamente facile scivolare nella filosofia vera e propria, etica compresa, tale passaggio era comprensibile, ma non inevitabile: a dispetto della visione unitaria del sapere, propria di quei secoli, la matematica e le scienze affini non avevano alcuna pretesa di esaustività nei confronti della spiegazione razionale del reale. Perché "matematico" e "scienziato" divenisse sinonimi di uno studioso il cui sapere è esaustivo e che comprende, quindi, anche la filosofia e la stessa etica, saranno ancora necessari alcuni secoli, a partire dalla cosiddetta rivoluzione galileiana. Ma nel pensiero di Biagio Pelacani e alcuni altri, e specialmente nell’ambito dell’aristotelismo padovano, averroistico e immanentistico, vi sono già le premesse per tale rivoluzione.
Del resto, la cosa è perfettamente logica. Paradossalmente, è proprio l’idea dell’unità del sapere, di origine medievale, ma ripresa e tramandata dal Rinascimento, che crea le condizioni affinché si verifichi il "sorpasso" della scienza rispetto alla filosofia (per non parlare della teologia): se l’orizzonte della conoscenza è unitario, allora, una volta che la scienza si sia assicurata il posto d’onore nel panorama intellettuale e culturale, italiano ed europeo, essa diverrà anche la forma privilegiata del conoscere, alla quale tutte le altre dovranno inchinarsi, oppure rassegnarsi a scomparire. E alla metafisica, per esempio, finirà per toccare un destino analogo a quello che era toccato, poco a poco, alla magia, all’alchimia e all’astrologia: sarà relegata (da Kant in poi) nello status incerto, ma poco invidiabile e sostanzialmente squalificante, di pseudo-scienza: una forma di sapere, cioè, nella quale si può affermare tutto e il contrario di tutto.
Il punto centrale del pensiero filosofico di Biagio Pelacani è, a nostro avviso, la negazione che la felicità dell’uomo consista nel ritorno a Dio, anzi, la negazione che vi sia un ritorno dell’anima a Dio: per lui, la felicità consiste nel soddisfare i desideri e nell’evitare i dolori, avvicinandosi molto, di fatto, all’edonismo epicureo. Dio, per lui, non è più l’afa e l’omega della creazione; meglio: non c’è stata alcuna creazione, perché il mondo, quale lo conosciamo, è eterno, c’è sempre stato e sempre ci sarà. A rigore — anche se egli si trattiene dal compiere formalmente quest’ultimo passo — il mondo è Dio: quel che dirà, senza mezzi termini, qualche secolo dopo, Baruch Spinoza. Una volta negata la centralità di Dio come garanzia del sapere umano, inevitabilmente Biagio Pelacani inclina verso un certo relativismo gnoseologico: nega che si possa pervenire ad una conoscenza che sia totalmente immune da errori, e la verità si riduce a opinione, anche se è possibile distinguere (sino ad un certo punto) fra opinioni vere e false. Per lui, esiste un sapere vero, ma pur sempre fallibile, perché ogni sapere umano è soggetto a modifiche e adattamenti continui. «Le opinioni vere, necessarie e immutabili, saranno allora non le verità della metafisica, ma quelle delle matematiche» (Federici Vescovini). Pelacani esclude il soprannaturale: come studioso della prospettiva (molto apprezzato allora e poi, fino a Leonardo), pensa che qualsiasi fenomeno, anche il più bizzarro, si possa spiegare scientificamente. E ciò basterebbe per farne un vero precursore del libero pensiero…
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