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L’egoismo delle plutocrazie spinse Mussolini nell’abbraccio mortale di Hitler

Abbiamo già avuto più volte occasione di insistere sul fatto che l’intervento italiano nella Seconda guerra mondiale, che tutta la cultura dominante non si stanca di bollare come l’errore più nefasto e imperdonabile di Mussolini, non fu, in effetti, così scriteriato e gratuito come lo si vuole dipingere col senno di poi, e soprattutto con il fine inconfessato di corroborare una mitologia di cartapesta e una rilettura faziosa e manichea della nostra storia recente.

Secondo tale rilettura, tutto il Male stette da una parte sola, per cui tanto vale scaricare su di questa ogni colpa, ogni errore, ogni crimine, anche quelli che, a ben guardare, non ebbe, o che ebbe in misura assai meno grave di altri regimi e governi del tempo (cfr., in particolare, i nostri precedenti articoli «Ma è proprio vero che l’Italia avrebbe potuto tenersi fuori dalla seconda guerra mondiale?» e «Fu il ricatto inglese, nel 1940, a spingere l’Italia in guerra?», pubblicati sul sito di Arianna Editrice, rispettivamente, in data 12/03/2010 e 04/11/2010).

Ora, se, partendo dal 1940, o anche dal 1939, si fanno alcuni passi indietro, e si torna alla metà degli anni Trenta del ‘900, ci si accorge facilmente, se non si è completamente succubi di tale mitologia fasulla e di tale manicheismo interessato, che non era affatto scritto nelle stelle che l’Italia "dovesse" allearsi con la Germania; che il "nazi-fascismo", come categoria ideologica e politica, semplicemente non esiste, ma è una grossolana invenzione propagandistica di quanti, in Italia e fuori d’Italia, vollero mettere nello stesso girone dei dannati sia il fascismo che il nazismo, a dispetto delle vistose differenze fra i due regimi e delle abissali differenze fra i due dittatori; e che Mussolini, al contrario di quanto si continua a dire e a ripetere, senza mai arrossire nonostante l’evidente falsità, ancora nel 1935 faceva di tutto per tenere vivo il "fronte di Stresa", così come, nel 1934, da solo e senza chiedere, né attendere, il sostegno britannico e quello francese, ebbe il coraggio di opporsi a viso aperto all’Anschluss (dopo l’assassinio del cancelliere Dollfuss), ottenendo, con la sola minaccia di un’azione militare, che Hitler si ritirasse precipitosamente e che, per il momento, riponesse nel cassetto le sue mire sull’Austria.

A ciò si aggiunga il fatto che Mussolini, fin dalla sua ascesa al potere, disse a chiare lettere che l’obiettivo delle potenze vincitrici nella Prima guerra mondiale non poteva e non doveva essere quello di abbattere, umiliare e schiacciare la Germania; che, se ciò fosse avvenuto, non si sarebbe fatto altro che fornire al popolo tedesco il desiderio e il pretesto per tentare la via della rivincita; che la definizione della nuova carta politica dell’Europa, uscita dai lavori della Conferenza di pace, era un pasticcio colossale, una somma di ingiustizie e di errori clamorosi, e quindi, fin dall’inizio, egli fu chiaramente, coerentemente, limpidamente revisionista rispetto all’"ordine" di Versailles, riconoscendo non solo i torti subiti dalla Germania, ma anche quelli dell’Ungheria, e, più in generale, fu alquanto critico nei confronti della costruzione artificiale degli Stati creati in funzione antitedesca e antimagiara, come la Cecoslovacchia: la quale, invece, sia allora, sia nella storiografia successiva, viene sempre presentata come il perfetto esempio di una sana democrazia, quasi troppo bella e troppo nobile per poter sopravvivere nel basso mondo della politica reale. E si minimizza il fatto che tre milioni e mezzo di Tedeschi vennero annessi in quello Stato mostruoso e innaturale (oltre a Slovacchi, Ungheresi, Ruteni, Polacchi); sicché, quando si giunge a parlare della Conferenza di Monaco, infallibilmente si presentano come "assurde" le richieste di Hitler circa il loro ritorno alla madrepatria.

Ci piace riportare una pagina onesta del saggista, di orientamento cattolico, Francesco Agnoli, tratta dal suo libro «Dio, questo sconosciuto» (Milano, Sugarco, 2008, pp. 125-126):

«La mia simpatia per Mussolini e il fascismo è assolutamente nulla: si trattò di un uomo e di un movimento rivoluzionario, profondamente anticristiano, in cui confluivano le origini socialiste atee ed anarchiche di Mussolini, l’anticlericalismo dei futuristi, le porcherie di d’Annunzio, le esigenze "illuminate" di parte della borghesia risorgimentale e mazziniana italiana. Però trovo un po’ vergognosa la usanza dei libri di testo delle scuole italiane di omettere alcune considerazioni storiche essenziali : chi spinse Mussolini tra le braccia di Hitler?

A ben vedere Mussolini era un politico accorto: ci sono numerosissimi discorsi in cui, prima dell’ascesa al potere di Hitler, sottolineava che il trattato di Versailles aveva umiliato eccessivamente il popolo tedesco, trasformando la Germania in una bomba ad orologeria pronta ad esplodere. Mussolini disse e ripeté questi concetti decine di volte ai suoi alleati di allora, chiese che la Germania fosse accontentata nelle sue legittime richieste, e solo in quelle, per evitare una futura guerra: ma Francia, Inghilterra e Usa, gli amici della Prima guerra mondiale, lo ignorarono sempre. Nessuno lo ascoltò, nessuno pose orecchio alle contemporanee e simili considerazioni della santa Sede, e si continuò a umiliare e affamare il popolo tedesco che alla fine elesse Hitler per il suo nazionalismo.

Mussolini non amò mai il dittatore tedesco: lo definì "un pazzo degenerato sessuale", si oppose per primo, senza l’appoggio di nessuno, ai primi conati espansionistici di Hitler rispetto all’Austria nel 1934, si adoperò per il disarmo tedesco sottoscrivendo gli accordi di Stresa nel 1935, attaccò il razzismo tedesco in più occasioni e con grande forza. Poi decise di prendere l’Etiopia e Francia ed Inghilterra si opposero ed imposero sanzioni economiche all’Italia tramite la Società delle Nazioni.

Mussolini si vide respinto dagli Alleati, che parlavano di libertà e si ergevano a difesa dei liberi etiopici, ma che in realtà si erano spartiti tutto il resto del’Africa e facevano i propri comodi nelle loro numerose colonie.

Così, cin questa ed altre patenti ingiustizie, i futuri "alleati" misero Mussolini all’angolo e lo costrinsero ad allearsi, contro voglia, con l’unico Paese che si opponeva allo strapotere anglosassone e francese: una alleanza in dubbio, vacillante, sino alla fine, come testimonia il diario di Galeazzo Ciano, determinata anche dalla paura di Hitler stesso; alleanza nefasta, mortale, a cui contribuirono, ripeto, in maniera essenziale i cosiddetti Stati democratici.

Che poi vinsero, e, da vinti [sic], riscrissero la storia. Anche se lo stesso Churchill nel 1939, quando forse sperava ancora di recuperare l’Italia con concessioni nel Mediterraneo a danno dei francesi, ebbe ad affermare: "Indubbiamente noi abbiamo molti torti nei confronti del signor Mussolini. Ci siamo alienati l’amicizia dell’Italia e sua personale per il nostro maldestro atteggiamento al tempo della guerra d’Etiopia.In politica tutto si paga" (Fabio Andriola, "Carteggio segreto Churchill-Mussolini", Sugarco, Milano 2007).»

Francesco Agnoli, lo diciamo fra parentesi, non solo nel giudizio su Mussolini e sulle responsabilità della alleanza italo-tedesca del 1939, il Patto d’Acciaio, ma anche davanti a parecchi altri eventi e personaggi storici — da Giordano Bruno a Galilei, da Niccolò Stenone a Monaldo Leopardi, da Carlo Maria Martini a Umberto Veronesi – ha mostrato una autentica e ammirevole indipendenza di giudizio, senza lasciarsi minimamente condizionare, ricattare, plagiare (come tanti, troppi sedicenti intellettuali al giorno d’oggi) dalla cultura imperante, liberal-radicale, materialista e relativista, nonché dai settori del mondo cattolico che si autodefiniscono "progressisti", quasi che loro soli avessero le credenziali per dirsi legittimi rappresentati dei valori cristiani e del pensiero cristiano nel rapporto con il mondo contemporaneo. Bravo. Senza cedere di un millimetro alle lusinghe e alle sottili minacce dei poteri che ormai controllano anche l’ambito della cultura, questo giovane giornalista e saggista se ne va deciso per la sua strada, senza arroganza, ma anche senza timidezze di sorta, tenendo ben dritte la schiena e la fronte, incurante di dispiacere sia ai "nemici" dichiarati, tipo Piergiorgio Odifreddi, sia a molti di coloro che, in teoria, dovrebbero essere "amici", e che invece, spesso, si rivelano più velenosi dei serpenti a sonagli quando si tratta di mordere alle spalle uno che riconoscono, d’istinto, come non appartenente alla loro congrega, quella dei "puri" e degli "eletti", che credono di avere in tasca le chiavi della Verità.

Quanto alla guerra d’Etiopia, quanti sono gli storici e gli intellettuali di professione che hanno il coraggio di dire apertamente quello che tutti, probabilmente, pensano (se sono dotati di un minimo di informazione e d’intelligenza), ma che per nessuna ragione al mondo direbbero, a costo di farsi amputare un braccio: quello, cioè, che Francesco Agnoli dice senza tanti fronzoli, ossia che Francia e Gran Bretagna, nel loro immenso egoismo e avidità di bottino coloniale, si opposero all’Italia, e istigarono la Società delle Nazioni a varare le sanzioni contro di essa, non per le nobili ragioni di principio che si affrettarono a sbandierare, ma semplicemente perché infastidite e allarmate da quel nuovi commensale che sedeva a tavola, rumorosamente, non invitato, disturbando il loro pasto pantagruelico e la loro laboriosissima digestione delle altrui ricchezze? Il che — si badi — non equivale affatto ad "assolvere" Mussolini dalla responsabilità di quella aggressione (fermo restando che la storia non è un tribunale e che non deve giudicare o condannare alcuno, ma soltanto cercare di comprendere), tuttavia ribadisce il principio che lo storico non può adoperare due pesi e due misure, una per i suoi amici ed una per i suoi nemici ideologici, allorché si trova in presenza dello stesso ordine di fatti, dei quali ultimi occorre rendere ragione.

L’ambasciatore francese a Varsavia all’epoca della Conferenza di Stresa, nel 1935, Léon Noël, che ha scritto un libro chiarificatore già dal titolo: «Les illusions de Stresa. L’Italie abandonée a Hitler» (Editions France-Empire, 1975), riconosce francamente che fu il malvolere o l’inettitudine di Londra e Parigi a spingere Roma vero Berlino (cfr. il nostro articolo: «Come gli Alleati, per stupidità e cinismo, "regalarono" l’Italia a Hitler», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 13/05/2012). Anche Pierre Laval, Primo ministro francese nel 1931-32 e nel 1935-36, nonché Capo del governo dal 1942 al 1944, condivideva questa opinione e si adoperò per scongiurare l’alleanza italo-tedesca; e sappiamo come finì la sua carriera politica: davanti al plotone d’esecuzione della "Francia Libera", il 15 ottobre 1945, come un volgare traditore, e dopo aver subito la bellezza di diciassette lavande gastriche perché aveva tentato di suicidarsi "in extremis" col cianuro, ma i bravi patrioti francesi volevano un uomo ancora vivo, se pur moribondo, da passare per le armi.

Naturalmente, il discorso sull’inettitudine, sulla stupidità e sul malvolere anglo-francese cade, se solo si ammette che non per tali fattori estemporanei i governi di Londra e Parigi agirono in modo da sospingere l’Italia verso il fatale abbraccio con la Germania, ma per un calcolo ben preciso e freddamente deliberato: quello di abbattere il fascismo e, insieme ad esso, qualsiasi velleità futura dell’Italia di svolgere un ruolo effettivo di grande potenza, o anche soltanto di potenza egemone a livello regionale (nel bacino del Mediterraneo). Allora tutto diventa chiaro. Agli Alleati (e bisogna comprendere nel numero anche gli Stati Uniti d’America, la cui neutralità formale non dovrebbe ingannare nessuno) si offriva l’occasione di prendere due piccioni con una fava: abbattere la Germania insieme al nazismo e piegare l’Italia insieme al fascismo. La Germania faceva paura in se stessa e in quanto sede del nazismo; l’Italia non faceva paura in se stessa, tuttavia era chiaro che la politica estera italiana, dal Risorgimento in poi, era sempre stata quella di perseguire una piena autonomia nel bacino del Mediterraneo, il che la poneva in rotta di collisione sia con la Francia, che con la Gran Bretagna. Il fascismo, poi, faceva anche più paura del nazismo: perché quest’ultimo aveva solo la forza delle armi, mentre quello era un prodotto ideologico esportabile e universale: non vincolato alle aberranti dottrine del razzismo biologico, rappresentava un modello alternativo, anche sul terreno economico e finanziario, non solo al comunismo, ma anche al capitalismo selvaggio che aveva prodotto la crisi di Wall Street del 1929. Il nazismo aveva (pochi) ammiratori nel mondo, ma nessun imitatore; il fascismo aveva gli uni e gli altri: dalla Grecia all’Iraq, dal Brasile all’Argentina, dalla Spagna all’Ungheria, dal Portogallo all’Austria. Movimenti fascisti erano sorti perfino in Francia (Jacques Doriot), in Belgio (Léon Degrelle), in Inghilterra(Oswald Mosley); il corporativismo era discusso, studiato e imitato in tutto il mondo.

Dunque, bisognava distruggere il fascismo e, insieme, le ambizioni italiane: per sempre. E così fu…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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