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28 Luglio 2015È opinione ormai abbastanza diffusa, anche fra i cattolici, specialmente dopo il Concilio Vaticano II (ma non già a causa di esso, bensì di certe forzature e di certi fraintendimenti, non sempre innocenti, allora verificatisi), che la fonte della Rivelazione cristiana sia sostanzialmente una ed una sola: la Scrittura; e che, pertanto, basti leggere e meditare bene il Vangelo, e la Bibbia in generale, per essere già nel pieno solco di essa.
Ebbene, non è affatto così: questo è il pensiero protestante, ma non è la posizione del cattolicesimo. Per il cattolico, le fonti della Rivelazione divina sono due, di pari dignità ed entrambe, quindi, necessarie per la salvezza dell’anima: la Scrittura e la Tradizione. Quest’ultima, designata con la "t" maiuscola, non indica, semplicemente, un corpo di insegnamenti, scritti e orali, nonché di pratiche liturgiche e devozionali, più o meno antichi, più o meno condivisi nelle comunità ecclesiastiche, ma qualcosa di molto più alto: un lascito di origine soprannaturale, divinamente ispirato, tanto quanto lo sono le Scritture, e degno, perciò, di altrettanta riverenza e di altrettanta fede.
La tradizione con la lettera minuscola è la tradizione laica, che si riferisce al mondo profano: la tradizione di questa o quella cultura, di questa o quella società, di questa o quella scuola filosofica, letteraria, scientifica, e così via. Essa non ha alcunché di soprannaturale, per quanto, talvolta, meriti il massimo rispetto: ma è pur sempre una costruzione puramente umana, che non deve essere assolutizzata e che deve porsi in un rapporto dialettico con il progresso. La tradizione e il progresso, infatti, sono i due poli ideali della vita sociale e di qualunque forma di espressione intellettuale, giuridica, politica, morale, e così via; laddove la tradizione non deve mai essere puramente statica e chiusa in se stessa, né il progresso deve pretendere di azzerare il passato e di proporsi come un valore illimitato.
Nel campo della Rivelazione cristiana le cose stanno altrimenti. La Tradizione e le Scritture sono i due capisaldi immutabili, perché eterni, su cui essa si fonda: e, come ha scritto il teologo Romano Amerio (rifacendosi a una celebre espressione di Gesù), non potrebbe cadere neppure uno "iota" dall’una come dall’altra, senza che la Rivelazione stessa ne risulti irrimediabilmente deformata e stravolta.
Attenzione: non tutto ciò che la tradizione dei secoli cristiani ha tramandato, entra a far parte della Tradizione: ma quel che vi entra, e vi entra con l’approvazione esplicita del magistero ecclesiastico, vi entra in maniera incontrovertibile, partecipando della "t" maiuscola. La Tradizione, dunque, è più dinamica dell’altra fonte della Rivelazione, la Scrittura: la Scrittura è definitiva e immodificabile; la Tradizione si modifica lentamente, perché si abbevera alla vita concreta delle comunità cristiane. La Scrittura, infatti, si configura essenzialmente come un messaggio intellettuale; la Tradizione come un messaggio concreto, espressione viva del divenire cristiano. Il fatto che un certo elemento della Tradizione non fosse ancora manifesto in una determinata epoca, e poi lo sia diventato, non è un argomento contro di essa: perché, esprimendo la vita concreta della Chiesa, la Tradizione è in divenire, e sia pure, generalmente, lento e graduale.
La Tradizione può essere di tre generi: divina, apostolica o ecclesiastica. Nel primo caso è stata avvalorata da Dio stesso, ovvero da Gesù Cristo. La lavanda dei piedi, ad esempio, eseguita dal divino Maestro durante l’Ultima cena, è entrata a far parte della Tradizione, ma è stata istituita da Lui stesso: essa, pertanto, è eterna e non mutabile. Eterna e immutabile è anche la Tradizione apostolica, istituita, cioè, dagli Apostoli, sotto l’azione dello Spirito Santo: per esempio, la presenza e l’apostolato di san Pietro a Roma, la capitale dell’Impero, che, pur non essendo testimoniata direttamente dalle Scritture, è stata tramandata dalle più antiche comunità cristiane (e confermata dalle moderne ricerche storiche e archeologiche); su di essa, come è noto, si basa il primato del vescovo di Roma e quindi la centralità e la suprema autorità del Papato rispetto all’insieme della Chiesa cattolica.
Infine c’è la Tradizione ecclesiastica, avvalorata dai Pontefici, riguardante questioni teologiche, liturgiche, devozionali, disciplinari (si veda, come tipico esempio, le decisioni prese dal Concilio di Trento) e che può mutare col mutare dei tempi: non però fino al punto, come vorrebbero taluni "novatori", da essere completamente sovvertita, rovesciata e capovolta, perché questo significherebbe che, in passato, il magistero ecclesiastico avrebbe compiuto degli errori gravissimi in fatto di dottrina della fede, il che è manifestamente incompatibile con la presenza costante, il sostegno e la divina ispirazione dello Spirito Santo nei confronti della Chiesa.
Di fatto, anche la Costituzione dogmatica «Dei Verbum», uno dei principali documenti del Concilio Vaticano II, promulgata da Paolo VI nel 1965, non modifica affatto questa concezione; al contrario, nel capitolo intitolato «La trasmissione della Divina Rivelazione», al punto 9, esplicitamente essa afferma: «La sacra Tradizione dunque e la sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti tra loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine. Infatti la sacra Scrittura è la parola di Dio in quanto consegnata per iscritto per ispirazione dello Spirito divino; quanto alla sacra Tradizione, essa trasmette integralmente la parola di Dio — affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo e dagli apostoli ai loro successori… di conseguenza l’una e l’altra devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza».
Ci piace, comunque, riportare anche il pensiero di un filosofo cattolico, Maurice Blondel (Digione, 2 novembre 1861-Aix en Provence, 4 giugno 1949), che taluni, chi sa perché, hanno voluto accostare al modernismo — la dottrina condannata da Pio X nel 1907 con l’enciclica «Pascendi» e che, pertanto, vorrebbero "arruolare" abusivamente, per così dire, nelle file di quanti si prefiggono di svalutare e, se possibile, di modificare a piacer loro la Tradizione e il suo stesso significato, con l’assurda pretesa che, non trovandosi alcune cose nella Scrittura, esse non avrebbero un vero fondamento teologico, o liturgico, o disciplinare, e quindi si possono tranquillamente modificare o persino abolire: quasi che la vita della Chiesa fosse un abito usa-e-getta, che si possa allargare o restringere a volontà, secondo l’estro del momento, naturalmente in nome della modernità e dell’aggiornamento con le supposte esigenze del "secolo", a cominciare da un non meglio specificato "dialogo" interreligioso e con la società profana e secolarizzata.
Scrive, dunque, Maurice Blondel in «Storia e Dogma. Le lacune filosofiche dell’esegesi moderna»; traduzione e introduzione a cura di E. Carpita e M. Casotti, Firenze, Vallecchi, 1921, pp. 186-9):
«L’idea comune che suscita la parola Tradizione è quella di una trasmissione, principalmente orale, di fatti storici, di verità ricevute, d’insegnamenti comunicati, di pratiche consacrate e di costumi antichi. Ciò nondimeno è questo tutto il contenuto e per di più, per quel che riguarda il cattolicismo, il contenuto essenziale di questa nozione?
Se così fosse, potremmo temere ch’essa non resista affatto all’analisi: e ci spiegheremmo forse perché, da una parte, la giustificazione teorica della Tradizione s’indugi ordinariamente nelle generalità senza verifica concreta, e perché, d’altra parte, si ricorra, nelle difficoltà di particolari, alla Tradizione, quando si manca d’argomenti precisi e topici. Infatti, se essa si è limitata a riferire "de ore in aurem" ciò che i primi confidenti non hanno scritto; se ancora oggi ha per scopo di insegnarci quel che i testi avrebbero potuto trasmetterci, ma supplendo alle loro lacune, al loro laconismo, alla loro negligenza per ciò che riguarda le abitudini più correnti e perciò stesso meno notate, come non accorgersi del poco d’autorità e del poco di utilità ch’essa conserva? Il lungo intervallo che ci separa dalle origini, l’infedeltà ingegnosa del ricordo popolare, lo sforzo crescente dell’umanità per fissare letterariamente tutte le reminiscenze del suo passato e tutte le sfumature del suo pensiero, lo sradicamento della vita moderna che perde il senso della continuità, l’abitudine di affidare tutto alla Scrittura e alla stampa, come a una memoria di carta; non risulta da tutte queste cause un indebolimento progressivo delle tradizioni ed estenuazione della Tradizione stessa?
Senza dubbio, in opposizione alla Scrittura che riferisce le testimonianze direttamente apostoliche, si dà specialmente il nome di "Tradizione" all’immensa eco della Rivelazione orale nella prima letteratura cristiana e nelle opere dei Padri, perché questi scritti fissano un ricordo che può risalire alle origini, sena essere stato depositato nel Nuovo Testamento. Senza dubbio anche, un testo che ci riveli un’abitudine antica o uno stato d’animo anteriore all’espressione spontanea e riflessa che ne leggiamo, serve di veicolo a ciò che si chiama "una tradizione"; ma, infine, qualunque sia la diversità possibile dell’oggetto trasmesso o dell’organo trasmettitore, "sive voce, sive scripto, sive praxi", sempre quelli stessi che, restando da questo punto di vista, parlano della Tradizione con maggiori particolari e con maggior rispetto, sembrano assoggettarsi a questo doppio preconcetto: – essa non riferisce che delle cose dette esplicitamente, prescritte espressamente o fatte deliberatamente nel passato da uomini di cui si cerca soltanto di ritrovare le idee riflesse, tali quali le hanno formulate essi stessi; – essa non fornisce nulla che non abbia potuto o che non possa essere tradotto in linguaggio scritto, nulla che non sia immediatamente e integralmente convertibile in un’espressione intellettuale: in modo che man mano che si raccoglie più completamente ciò che i secoli anteriori avevano affidato, senza neppure notarlo, alla memoria degli antichi, come i nostri folkloristi notano i canti popolari, sembra che la Tradizione diventi superflua e retroceda davanti ad ogni progresso delle analisi riflesse, delle codificazioni scritte e delle coordinazioni scientifiche.
Ora, tali conseguenze sono manifestamente contrarie allo spirito cui s’ispira la Chiesa, al conto che essa fa della Tradizione, alla fiducia permanente e sempre uguale che le dimostra. E se queste conseguenze si deducono logicamente dalla concezione secondo la quale la tradizione sarebbe essenzialmente una trasmissione orale di qualche cosa che è stato chiaramente pensato e che avrebbe potuto essere scritto nel passato, ciò significa che questa stessa concezione è incompleta e difettosa. Per poco che si rifletta sul compito che ha la Tradizione nella Chiesa, ci si accorge infatti che v’è in lei tutt’altra cosa che una confidenza orale o un diritto consuetudinario. E, per giungere d’un colpo al’estremo della tesi che io voglio giustificare, dirò che questa potenza conservatrice è nello stesso tempo conquistatrice, ch’essa scopre e formula verità che di cui il passato ha vissuto, senza aver potuto enunciarle o definirle esplicitamente, che essa arricchisce il patrimonio intellettuale spicciolando a poco a poco il deposito totale e facendolo fruttificare.
Contrariamente all’idea volgare, ma conformemente alla pratica costante della Chiesa, si deve dire che la Tradizione non è un semplice succedaneo dell’insegnamento scritto; non ha lo stesso oggetto di questo; non procede unicamente da lui, non finisce affatto col fondersi in lui. Sa conservare del passato non tanto l’aspetto intellettuale, quanto la realtà vitale. Anche là dove esiste la Scrittura, ha dunque sempre che aggiungervi, e da lei viene tolto ciò che passa a poco a poco negli scritti e nelle formule. Essa si fonda senza dubbio sui testi, ma si fonda nello stesso tempo e prima su qualche altra cosa da essi, su di un’esperienza sempre in atto, che le permette di rimanere, sotto certi aspetti, padrona dei testi, anziché esservi strettamente asservita. In breve, ad ogni istante in cui la testimonianza della Tradizione ha bisogno di essere invocata per risolvere le crisi di crescenza che la vita spirituale dell’umanità cristiana attraversa, la Tradizione reca alla coscienza chiari elementi fino allora trattenuti nelle profondità della fede e della pratica, piuttosto che espressi, riferiti e riflessi. Dunque questa potenza conservatrice e preservatrice è nello stesso tempo istruttiva e iniziatrice. Rivolta amorosamente verso il passato, dov’è il suo tesoro, procede verso l’avvenire dov’è la sua conquista e la sua luce. Essa ha l’umile sentimento di ritrovare fedelmente anche ciò che scopre. Essa non ha nulla da rinnovare, poiché possiede il suo Dio ed il suo tutto; ma senza posa essa ha da insegnarci qualcosa di nuovo, poiché fa passare qualche cosa dall’implicito vissuto all’esplicito conosciuto. Per lei, insomma, lavora chiunque viva e pensi cristianamente, tanto il santo, che perpetua Gesù fra noi, come l’erudito che risale alle pure sorgenti della Rivelazione, o il filosofo che si sforza di aprire le vie dell’avvenire e di preparare il perpetuo parto dello Spirito di novità. E questo lavoro diffuso dalle membra contribuisce alla sanità del corpo, sotto la direzione del capo che, solo, nell’unità di una coscienza divinamente assistita, ne concerta e ne stimola il progresso.»
In effetti, proprio il fatto che alcuni cattolici pensino alla Tradizione non nei termini in cui essa realmente si configura, secondo l’insegnamento della Chiesa, ma che la pensino con la "t" minuscola, come cosa soggetta a tutte le variazioni di cui è passibile un "corpus" dottrinario sottoposto al giudizio, e alla revisione, di una qualsiasi assemblea democratica, sta a indicare fino a che punto la mentalità e la pratica del secolarismo siano penetrate nel cuore della cristianità, producendo modi di sentire e di pensare e determinando atteggiamenti e prese di posizione che appartengono al secolo e non alla Chiesa: la quale, forse giova ricordarlo, non è solo quella visibile e attuale, ossia "militante", ma anche quella invisibile delle anime uscite dalla dimensione della vita terrena: la Chiesa "paziente" (le anime del Purgatorio) e "trionfante" (le anime del Paradiso), tutte caratterizzate, ovviamente anche quella visibile, dall’unione intima con Cristo, e pervase dall’azione vivificatrice dello Spirito Santo.
Il fatto è che, se lo spirito del mondo penetra nella cristianità, questi concetti tendono inevitabilmente ad apparire come obsoleti e superati: perché essi presuppongono un fondamento immutabile della Verità, fondamento che, per secoli e secoli, è stato offerto, oltre che dalla fede in se stessa, dalla teologia cattolica, in accordo, appunto, con la Scrittura e con la Tradizione; mentre la cultura moderna, laicizzata e secolarizzata, si è profondamente impregnata di relativismo ed è ossessionata dalla smania del progresso, eretto a valore assoluto ed auto-evidente: per cui, quando la mentalità moderna penetra entro la cristianità, essa finisce per mettere in dubbio e per tentar di scalzare, per prima cosa, la teologia "tradizionale", vista come la roccaforte di non si sa bene qual conservatorismo, quasi che la realtà metafisica dell’Essere equivalesse a un modo di pensare "vecchio", e solo il relativismo offrisse una risposta adeguata ai problemi dell’uomo moderno (altro errore clamoroso: pensare che i problemi dell’uomo moderno siano SOSTANZIALMENTE differenti dai problemi eterni dei discendenti di Adamo: quelli di ieri, di oggi e di domani).
Così, attraverso la pretesa di modificare e "aggiustare" la Tradizione, i novatori, ossia i modernisti che non osano dichiararsi tali, ma che, di fatto, puntano agli stessi obiettivi del modernismo, già solennemente condannato da Pio X, tendono, in effetti, ad "aggiornare", secondo il loro punto di vista, la fede stessa, ossia i contenuti dogmatici della religione cristiana cattolica; e l’attacco, esplicito o, più spesso, sottinteso, al culto dei santi e alla venerazione per la Madonna, ne sono fra gli esempi più evidenti e significativi.
A codesti novatori, dunque, gioverebbe rileggersi quanto scritto, quasi un secolo fa, da Maurice Blondel: cioè che la Tradizione «non ha nulla da rinnovare, poiché possiede il suo Dio ed il suo tutto; ma senza posa essa ha da insegnarci qualcosa di nuovo»; e che «per lei lavora chiunque viva e pensi cristianamente»:; e ci pare che non vi sia altro da aggiungere.
Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio (Raffaello)