
Ma André Glucksmann è pensatore troppo piccolo per capire l’abissale profondità di Kierkegaard
28 Luglio 2015
Grazia e natura
28 Luglio 2015C’è stato un momento nella storia d’Europa — anzi, una lunghissima fase — in cui la teologia è stata al vertice della piramide culturale e spirituale: insegnata e ammirata nelle migliori università, coltivata da una classe di professori che rappresentava quanto di meglio il nostro continente potesse vantare in fatto di sapere, speculazione e discernimento.
Il tramonto è stato relativamente rapido, anche se, in realtà, preparato da un cambiamento di paradigma culturale durato alcuni secoli; l’ultimo atto di questo dramma, però, non si è consumato che nella seconda metà del Novecento e non è stato perpetrato ad opera di forze esterne, ma dall’interno: la teologia, puramente e semplicemente, si è autodistrutta.
Il suicidio della teologia cattolica si è consumato allorché i suoi professori e i suoi studenti sono passati, quasi nello spazio di una notte, nel campo della cultura laica, "progressista" e di sinistra; ha fatto sue l molte categorie dell’esistenzialismo (richiamandosi, però, più a Heidegger, e poi, addirittura, a Sartre ed a Simone de Beauvoir, che al vero ed unico "padre nobile" Kierkegaard); ha sposato, in alcuni casi, più o meno apertamente, più o meno sfacciatamente, la causa del marxismo rivoluzionario, spacciandosi per "teologia della liberazione"; in effetti, però, il morbo è venuto incubandosi nei due decenni precedenti, quando la filosofia esistenzialista e la teologia protestante si erano incontrate, neanche tanto in sordina, e avevano fiaccato dall’interno, come un morbo silenzioso, la sua solidità e la sua capacità di resistenza.
Vale la pena di riportare l’analisi che, del fenomeno, ha fatto uno che lo visse dall’interno, Joseph Ratzinger, il futuro papa Benedetto XVI, che – dal 1966 – era professore a Tubinga, dopo esserlo stato a Münster, qualche anno prima, ossia all’epoca del Concilio Vaticano II (da: J. Ratzinger, «La mia vita»; titolo originale: «Aus meinem Leben. Erinnerungen 1927-1977»; traduzione dal tedesco di Giuseppe Reguzzoni, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1997, pp. 102-105):
«Cominciai le mie lezioni a Tubinga fin dal semestre estivo del 1966, peraltro in un stato di salute piuttosto precario, dopo le eccessive fatiche del periodo conciliare, della conclusione del Concilio e dell’iniziale pendolarismo tra Münster e Tubinga. […]
I "segni dei tempio", che a Münster avevo percepito sempre più chiaramente, assumevano ormai tratti drammatici. All’inizio, il clima generale era ancora dominato dalla teologia di Rudolf Bultmann — con i cambiamenti che a essa aveva apportato Ernst Käsemann. Il mio corso di cristologia nell’inverno 1966/67 fu tutto pensato in questa situazione di dialogo. Nel 1967 potemmo ancora celebrare splendidamente i centocinquanta anni della facoltà cattolica di teologia, ma si trattò anche dell’ultima festa accademica nel vecchio stile. Quasi fulmineamente cambiò il "paradigma" culturale, a partire dal quale pensavano gli studenti e una parte dei docenti. Fin allora il modo di pensare era stato determinato dalla teologia di Bultmann e dalla filosofia di Heidegger; in breve tempo, quassi nello spazio di una notte, lo schema esistenzialistico crollò e fu sostituito da quello marxista. Ernst Bloch insegnava allora a Tubinga e nelle sue lezioni denigrava Heidegger, come piccolo borghese; quasi contemporaneamente al mio arrivo, nella facoltà evangelica di teologia fu chiamato Jürgen Moltmann, che nel suo affascinante libro "Teologia della speranza" ripensava completamente la teologia a partire da Bloch. L’esistenzialismo andava a pezzi e la rivoluzione marxista si accendeva in tutta l’università, la scuoteva fin dalle fondamenta.
Qualche anno prima ci si sarebbe potuti aspettare che le facoltà di teologia sarebbero state un baluardo contro la tentazione marxista. Ora, invece, avveniva proprio il contrario: esse ne divenivano il vero centro ideologico. La recezione dell’esistenzialismo, così come era stata attuata da Bultmann, non era rimasta senza conseguenze per la teologia. Come ho già ricordato, nel mio corso di cristologia avevo cercato di reagire alla riduzione esistenzialistica e qua e là — soprattutto nel corso su Dio che tenni subito dopo — avevo persino cercato di porre ad essa dei contrappesi desunti dal pensiero marxista, che, proprio per le sue origini giudaico-messianche, conserva ancora degli elementi cristiani.» Ma la distruzione della teologia, che avveniva attraverso la sua politicizzazione in direzione del messianesimo marxista, era incomparabilmente più radicale proprio perché si basava sulla speranza biblica, ma la stravolgeva, così da conservare il fervore religioso, eliminando, però, Dio e sostituendolo con l’azione politica dell’uomo. Resta la speranza, ma al posto di Dio subentra il partito e, quindi, il totalitarismo di un culto ateistico, che è disposto a sacrificare ogni umanità al suo falso dio. Ho visto senza veli il volto crudele di questa devozione ateistica, il terrore psicologico, la sfrenatezza con cui si arrivava a rinunciare a ogni riflessione morale, considerata come un residuo borghese, laddove era in questione il fine ideologico. Tutto ciò è di per sé sufficientemente allarmante, ma diventa una sfida inevitabile per i teologi, quando l’ideologia è portata avanti in nome della fede e la Chiesa è usata come suo strumento. Il modo blasfemo con cui la croce veniva dileggiata come sado-masochismo, l’ipocrisia con cui ci si continuava a dichiarare credenti — quando ciò era ritenuto utile — per non mettere a rischio gli strumenti per i propri scopi, tutto ciò non lo si poteva e non lo si doveva minimizzare o ridurre a una sorta di polemica accademica. Ho vissuto tutto questo sulla mia pelle, dato che, nel momento del culmine dello scontro, ero decano della mia facoltà, membro del Grande e Piccolo Senato Accademico e membro della commissione incaricata di elaborare una nuova costituzione per l’università. Naturalmente continuavano a esserci molti normalissimi studenti di teologia.»
Le facoltà cattoliche di teologia della Germania, dunque, nella seconda metà degli anni Sessanta del Novecento, erano diventate, nello spazio di un mattino, i veri centri ideologici della cultura rivoluzionaria marxista. Com’era potuto accadere?
È stupefacente che Ratzinger descriva, come cosa del tutto normale, la diffusione del pensiero di Bultmann e di Heidegger nelle facoltà di teologia cattoliche: di Bultmann, il teologo protestante che ha demolito quasi l’intera costruzione del cristianesimo sotto il pretesto della critica al "mito" (riducendo a "mito" gran parte della Bibbia, Vangelo compreso), e di Heidegger, il padre dell’esistenzialismo contemporaneo (poco o nulla a che fare con la nobile, ardita pensosità di Kierkiegaard), per il quale l’uomo è un essere-per-la-morte, e quale Sartre ha sviluppato, poi, i temi nichilisti — e marxisti – della sua filosofia. Bultmann, inoltre – si noti – era entrato alla grande nelle università cattoliche non con la mediazione di qualche teologo cattolico, ma con quella di un altro pastore luterano, Ernst Käsemann; ed Heidegger, a quanto pare, furoreggiava al posto di un pensatore cattolico che sarebbe stato in tutto degno di essergli alla pari, come Romano Guardini, e che avrebbe dovuto essere il naturale punto di riferimento per la cultura cattolica tedesca, se questa non si fosse ormai avviata sulla strada della pazzia e dell’auto-distruzione.
Che da queste premesse non ci si potesse attendere nulla di buono per la teologia cattolica; che la malattia fosse già profondamente incubata e non aspettasse altro che l’occasione per manifestarsi in tutta la sua virulenza, ci sembra perfettamente chiaro: e l’occasione, ovviamente, è stata offerta dal 1968, che ha colpito i seminari cattolici con la stessa violenza del fulmine, li ha rivoluzionati, li ha stravolti, e, nel giro di pochissimi anni — talvolta di pochissimi mesi, o settimane -, li ha letteralmente svuotati, non senza aver lanciato una critica impietosa, radicale, implacabile, sia contro la direzione didattica di essi, sia contro la cultura cattolica "tradizione" in genere, e, spesso, contro la stessa gerarchia della Chiesa.
Questo fenomeno è stato particolarmente sensibile nei Pesi di lingua tedesca: quasi una riedizione, in scala minore, della rivoluzione luterana (ché di rivoluzione si è trattato, e non di "riforma", come continuano a ripetere tutti, libri di testo compresi, in barba alla logica ed in sprezzo di un minimo di onestà intellettuale); solo che questa volta la rivoluzione era in salsa marxista e preparava la strada a una deviazione ancora più pericolosa, la cosiddetta "teologia della liberazione", che, dietro il pretesto di realizzare la "Chiesa del popolo", la "Chiesa dei poveri", restringeva, di fatto, immiseriva, e svuotava dall’interno, il contenuto religioso del cristianesimo e lo equiparava ad una delle tante ideologie laiche, oltretutto destinata a fallire clamorosamente nel giro di neanche due decenni: il marxismo. Non solo: la "teologia della liberazione" ha assestato un colpo durissimo all’idea che la Chiesa aveva di se stessa, riducendola, a un dipresso, alle proporzioni di una istituzione democratica, nella quale si vota a maggioranza e si può cambiare tutto, purché si disponga della forza numerica a ciò necessaria.
Quasi patetico, poi, nel racconto di Ratzinger, è la sua franca confessione di come, per cercar di arginare la marea esistenzialista, egli abbia cercato di avvalersi, in chiave cristiana e cattolica, dello stesso pensiero marxista, con la motivazione che in esso, almeno, per le sue origini giudaiche e messianiche, traluceva qualcosa di vagamente simile alla speranza cristiana nell’avvento di un mondo migliore. Ahimè: il "mondo migliore" del marxismo è radicalmente, esclusivamente racchiuso nella sfera immanente, ed è dichiaratamente ateo e anti-cristiano; e il tentativo di strumentalizzarlo in chiave cristiana si è ritorto contro gli apprendisti stregoni, inquinando alla radice il cristianesimo stesso, vale a dire laicizzandolo e politicizzandolo. La "teologia della liberazione" non è che il coerente approdo finale di questa deriva inesorabile che, nella misura in cui è stata da taluni, benché vedessero il pericolo, assecondata – e sia pure in senso machiavellico e strumentale — si può ben definire anche irresponsabile.
Si raccoglie quel che si è seminato: e, se si è seminato, o si è permesso che venisse seminato, nelle facoltà cattoliche di teologia, il pensiero di Bultmann, di Heidegger, di Marx, non si possono che raccogliere i frutti di una concezione del reale radicalmente svuotata del senso del sacro e del mistero, radicalmente laicizzata e secolarizzata, radicalmente intrisa di materialismo e permeata dalle categorie rivoluzionarie del "proletariato", della "borghesia" e della inevitabile, necessaria "lotta di classe" fra l’uno e l’altra, con Gesù arruolato a forza tra le schiere dei "poveri", vale a dire dei rivoluzionari, e la religione cristiana, il sublime messaggio di amore e riconciliazione del Vangelo, ridotti a fornire l’impalcatura esterna di un disegno tutto ideologico, politico e sociale di matrice "progressista", in cui l’uomo è considerato soltanto al livello dei suoi bisogni primari e Dio rimpicciolisce sullo sfondo, fino a scomparire, come è giusto che sia per una variabile, tutto sommato, secondaria e inessenziale.
Certo, nessun dubbio sulla buona fede di chi ha visto avanzare la marea, e ha cercato e creduto di salvare il salvabile, in attesa di tempi migliori; ma è altrettanto chiaro ed intuitivo che, quando si avvicina la tempesta, il buon marinaio non scende a patti con i marosi, non abbandona la barra del timone, ma affronta il pericolo per quello che realmente è, col vento in faccia, costi quel che costi e avvenga quel che deve avvenire, senza farsi illusioni di sorta e senza confidare in espedienti e mezzucci di seconda scelta. Del resto, alla forza delle idee si può rispondere solo con altrettanta forza nelle idee che si difendono; senza dimenticare, nel caso della teologia, che non di costruzioni puramente umane si tratta, ma che, dietro e al di sopra di esse, vi è lo Spirito, che soffia dove e quando vuole, e che porterà in salvo l’imbarcazione, se così vuole, e infatti così ha promesso Gesù Cristo, anche se tutti i marinai disertassero e, per paura o per pochezza, abbandonassero, l’uno dopo l’altro, i propri posti di manovra.
Tutto possono fare gli uomini, quando sono stati accecati dalla vanità e dalla superbia intellettuale, e sedotti dallo spirito di contraddizione, che si compiace di seminare e diffondere ovunque la confusione e il turbamento morale; tutto, tranne una cosa: opporsi al soffio dello Spirito. Questa è l’unica cosa che non possono assolutamente fare, anzi, che non è neppure immaginabile; ed è qui che si vede la differenza fra chi si ricorda che l’uomo è solo l’operaio della vigna, e chi, invece, crede di esserne diventato il padrone onnipotente. I teologi dovrebbero sempre ricordarsi di essere, proprio come tutte le altre creature umane, dei semplici ed umili operai: che portano molto frutto, quando sono pieni di umiltà e di fedeltà verso la Scrittura e la Tradizione; ma che non raccolgono nulla, ed impediscono agli altri di raccogliere, se montano in superbia e cominciano a sragionare…
Fonte dell'immagine in evidenza: RAI