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La natura e la grazia fanno dell’uomo una creatura complessa, dal duplice destino

I filosofi che hanno elaborato le diverse versioni dell’ottimismo e del pessimismo antropologico, magari partendo da motivazioni e da prospettive fortemente divergenti, hanno commesso, il più delle volte, un gravissimo errore di fondo: l’aver considerato l’uomo come una creatura semplice, nel senso ontologico del termine, traendo, così, dalle loro speculazioni, delle conclusioni inevitabilmente sbagliate.

Quando si parla dell’uomo, infatti, bisognerebbe sempre specificare a "quale" uomo ci si riferisce: a quello naturale o a quello vivificato dalla grazia? Sono due cose diverse, sono due creature diverse, e non solo in senso ontologico, ma anche in senso meramente cronologico: non vivono insieme, anche se abitano nella stessa persona. L’uomo naturale è una certa creatura; l’uomo illuminato dalla grazia è un’altra creatura, del tutto rinnovata rispetto alla prima.

Le filosofie naturalistiche tendono a sottolineare non solo l’autosufficienza, ma anche l’intrinseca bontà, o, quanto meno, l’intrinseca "innocenza" della natura stessa; e, ovviamente, hanno proiettato questa loro impostazione anche sull’essere umano, visto come autosufficiente, come buono e innocente in se stesso, anteriormente alla "civiltà" (vedi Rousseau).

Viceversa, le filosofie spiritualiste hanno mostrato sempre la tendenza a svalutare la dimensione naturale, a mostrarne le intrinseche debolezze, le imperfezioni, le incompiutezze: traendone la conseguenza che anche l’uomo, in quanto creatura spirituale, non può, né deve avere nulla a che fare con il mondo della natura (si dice, ad esempio, che Plotino si comportasse come uno che si vergogna di avere un corpo, soggetto alle necessità fisiologiche).

Ebbene: sono entrambi punti di partenza sbagliati, che non possono approdare se non a delle antropologie aberranti. Il filosofo Blaise Pascal se n’era bene accorto, e proprio nel momento storico in cui il pensiero europeo, svincolandosi dalla precedente visione teocentrica, e divenuto sempre più orgoglioso della propria ragione come dato naturale, si stava mettendo sulla china disastrosa, che avrebbe caratterizzato la filosofia dei secoli successivi, fino ad oggi: continuamente oscillante e altalenante fra un eccesso di fiducia e di ottimismo, ed un eccesso di scoraggiamento e di pessimismo.

Pascal, infatti, si domandava: ma di quale uomo stanno parlando, i filosofi? Come fanno a non vedere che non stanno parlando, i suoi detrattori come i suoi apologeti, della medesima creatura, ma di due creature distinte? Infatti, l’uomo naturale, privo della grazia, è una creatura incerta, fragile, talmente imperfetta che, troppo spesso, finisce per scegliere il male, perfino quando si ripromette di compiere il bene. Ma l’uomo privo della grazia non merita né il biasimo, né la lode che gli vengono solitamente tributati. A noi sembra, semmai, che bisognerebbe chiedersi se egli sia privo della grazia perché ignora la possibilità della redenzione, cioè perché ignora di poter ritrovare, presso Dio, quella pienezza di vita e quella forza morale che ha perduto, come effetto del Peccato originale; oppure se ignora la possibilità della redenzione perché ha deciso di rifiutarla, consciamente e deliberatamente, ritenendo di potersi fare il Dio di se stesso e di non aver bisogno di alcuna redenzione, o, semmai, di essere capace di redimersi da se stesso.

Vale la pena di riportare le riflessioni di Pascal su questo argomento (da: B. Pascal, «Colloquio con M. De Saci», in «Pensieri, opuscoli, lettere», Milano, Rusconi, a cura di A. Bausola, 1984, pp. 325-327):

«Non vi posso dissimulare, Signore, che leggendo quell’autore [Montaigne] e paragonandolo con Epitteto, ho trovato che erano sicuramente i due maggiori difensori delle due più celebri sette del mondo, e le sole conformi alla ragione, poiché non si può seguire che una di queste due strade, vale a dire: o che vi è un Dio e allora vi si pone il proprio bene principale; o che questo è incerto, e allora anche il vero bene lo è. […]

Mi sembra che la fonte degli errori di quelle due sette sia di non aver saputo che lo stato dell’uomo al presente differisce da quello della sua creazione; di modo che l’una, notando qualche traccia della sua primitiva grandezza, e ignorando la sua corruzione, ha considerato la natura come sana e senza bisogno di riparatore, il che la porta al colmo della superbia; mentre l’altra, provando la miseria odierna e ignorando la dignità primitiva, considera la natura come necessariamente inferma e irreparabile, il che la precipita nella disperazione di raggiungere un vero bene, e di là in uno stato estremo di sfiduciato abbandono. Così, questi due stati che bisognava conoscere insieme per vedere tutta la verità, essendo conosciuti separatamente, conducono necessariamente a uno di questi due vizi, l’orgoglio e l’accidia, in cui stanno infallibilmente tutti gli uomini prima della grazia; poiché, se non stanno nei loro disordini per ignavia, ne escono per vanità. […]

È dunque da questi lumi imperfetti che deriva che l’uno, conoscendo il dovere dell’uomo e ignorando la sua impotenza, si perde nella presunzione, e che l’altro, conoscendo l’impotenza e non il dovere, si abbatte nell’ignavia; dal che sembra,m poiché l’uno è verità là dove l’altro è errore,che si potrebbe formare, unendoli, una morale perfetta. Ma invece di quella pace dalla loro unione non risulterebbe che una guerra e una distruzione generali; perché stabilendo l’uno la certezza, l’altro il dubbio, l’uno la grandezza dell’uomo, l’altro la sua debolezza, essi mandano in rovina tanto la verità che la falsità l’uno dell’altro. Per la qual cosa, non possono reggersi da soli a causa delle loro opposizioni, e così si spezzano e si annientano per far posto alla verità del Vangelo. È essa che accorda i contrari con un’arte tutta divina; e, unendo quanto vi è di vero e cancellando quanto vi è di falso, essa ne fa una saggezza veramente celeste, in cui s’accordano quegli opposti che erano incompatibili in quelle dottrine umane. E la ragione ne è che quei saggi del mondo pongono i contrari in un medesimo soggetto; perché l’uno attribuiva la grandezza alla natura, e l’altro la debolezza a questa medesima natura, il che non poteva essere ammissibile; mentre la fede ci insegna a porli in soggetti diversi: quanto vi è di infermo appartenendo alla natura, quanto vi è di possente alla grazia. Ecco l’unione sorprendente e nuova che Dio solo poteva insegnare e che Lui solo poteva fare, e che non è che un’immagine e un effetto dell’unione ineffabile di due nature nella sola persona di un Uomo-Dio.»

Possiamo facilmente immaginare l’obiezione fondamentale che le filosofie materialiste e atee muovono al ragionamento di Pascal: una obiezione, si badi, che non si muove, a sua volta, sul piano del ragionamento, opponendo pensiero a pensiero; ma che parte da un mero pregiudizio ideologico: che l’uomo non possa essere "sdoppiato" in due creature distinte, perché questo andrebbe a scapito non solo (ovviamente) della sua unità, ma anche della sua dignità e serenità. E siccome quelle filosofie desiderano presentare l’uomo come una creatura in se stessa armoniosa e come naturalmente portata all’equilibrio, tanto che esse fanno ricadere su forze esterne — la società, l’economia, la cultura, la religione — la responsabilità delle sue evidenti disarmonie e della sua angoscia, ecco che non possono accettare l’idea di una sua frattura interiore.

Eppure, non è così che dovrebbero procedere coloro i quali pretendono di condurre una ricerca filosofica. Non dovrebbero partire da una certa idea pregiudiziale dell’uomo, di che cosa egli sia, per poi spiegarne la condizione e i comportamenti; bensì dovrebbero partire dalla constatazione dei fatti e da essi risalire a delle conclusioni di carattere generale circa la sua natura ed il suo essere. I fatti ci dicono che l’uomo è diviso in se stesso e che, non di rado, agisce e si comporta come se in lui vi fossero due nature opposte e inconciliabili. A volte egli dice e fa delle cose talmente distanti da ciò che avrebbe voluto dire e fare, che la sua ragione non regge davanti a un simile contrasto, e si rifiuta di ammettere di averle dette e fatte. E questo vorrà ben dire qualcosa.

Dunque, nella natura umana vi sono due elementi diversi e tendenzialmente conflittuali: l’uno che lo attira verso il basso, l’altro che lo porta verso l’alto. Si diano pace, quei filosofi materialisti e atei, e se ne facciano una ragione: tutto ciò non è stato creato da una educazione sbagliata o da una specie di congiura universale dei sacerdoti delle varie religioni, o, magari, dei giuristi delle diverse scuole e legislazioni, anche se è certo che la pressione sociale, culturale, religiosa (e, naturalmente, anche quella economica) possono giocare la loro parte, non sull’uomo in generale, ma su singole situazioni, limitando, anche in maniera pesantissima, la libertà morale.

Eppure, non si tratta solo di questo. Chiunque sia dotato di capacità d’osservazione e di lucido intelletto, può vedere che l’uomo si sente portato a grandi cose, eppure, quasi sempre, finisce per rinchiudersi in un cerchio ristretto, in una atmosfera soffocante, e a sprecare tutti i suoi talenti, a vedere avvizzire tutti i suoi sogni. Possibile che la colpa sia sempre di qualcun altro? Se, per esempio, la colpa fosse società, come potrebbe ciò accadere, dal momento che la società non è un dato piovuto da qualche pianeta misterioso, ma una realtà formata dall’associazione degli esseri umani? Se l’uomo fosse soltanto buono e felice, come mai la società riuscirebbe a farne una creatura cattiva e infelice?

Qui c’è qualcosa che non quadra: è un ragionamento insostenibile quello di coloro i quali, per esaltare la natura umana, scaricano tutta la responsabilità del male sulla società e sulla cultura; e così pure quello di coloro i quali, volendo denigrare la natura umana, vedono in essa una specie di ribellione contro lo spirito, che, in se stesso, sarebbe perfettamente libero e autonomo, dimenticando che la persona umana è la risultante della unione — certo, temporanea e precaria fin che si vuole, ma pur sempre sostanziale — dell’elemento fisico e di quello spirituale. Non si dà alcuna persona che non abbia in se stessa entrambi gli elementi: né una persona puramente materiale, né una persona puramente spirituale. La prima sarebbe solamente un corpo senz’anima, la seconda solo un’ anima disincarnata.

Quanto alla ragione, non che poter svolgere il ruolo di elemento unificatore, appare divisa essa stessa: vi è una ragione naturale, che si mantiene entro l’orizzonte di ciò che è della natura, e vi è una ragione soprannaturale, che viene all’uomo solamente da Dio: la prima lo aiuta a comprendere i meccanismi delle cose, ma non gliene fa comprendere il significato, né il valore. Quando l’uomo si accontenta di essa, riesce a vedere il reale in maniera limitata, anche se con una certa chiarezza: ma questo non gli è sufficiente, perché egli non sa che uso fare, poi, di quelle verità che la ragione naturale gli svela; inoltre, la volontà, che da quella discende, non possiede sufficiente vigore, e troppo spesso si mostra impari al suo compito, che è quello di signoreggiare le passioni e di condurre la coscienza al compimento di ciò che le compete, di ciò che deve fare, in una parola: del proprio dovere.

Per tradurre la conoscenza in qualcosa che sia di vantaggio alla vita dell’anima, è necessario che la coscienza cerchi l’aiuto della ragione soprannaturale, che deriva da un’azione speciale della grazia. La ragione dell’uomo, non illuminata dalla grazia, è sterile, quando non decisamente distruttiva e malvagia. La ragione naturale, per esempio, può avvertire la coscienza della differenza che passa tra il bene e il male, ma non possiede abbastanza forza, né può mettere in campo ragioni veramente convincenti, per cui essa deve seguire il bene ed evitare il male. Non solo: la ragione naturale è madre d’infinti inganni, e, per scusare e giustificare la propria indolenza, vigliaccheria e falsità, non esita a suggerirle mille dubbi relativi al bene ed al male, a insinuarle il veleno del relativismo, sotto le specie di una giusta prudenza intellettuale e di un sano e vigile senso critico rispetto ai valori comunemente accettati. Mascherandosi dietro le apparenze di una autenticità e di una indipendenza che rifiuta le convenzioni e il conformismo, la ragione naturale, pervertita dalla volontà deviata e dall’egoismo, esso pure naturale alla condizione umana, tende a portare la coscienza fuori strada, a confonderla con sofismi e con mezze verità, a instupidirla e paralizzarla.

La realtà è che la ragione naturale può solo indicare alla coscienza, in linea di massima, la via da seguire per realizzare la vita dell’anima; per spingersi oltre, e divenire ciò che deve essere, l’uomo ha bisogno di un aiuto soprannaturale: la grazia. Ha bisogno di farsi piccolo, per poter essere grande. Perché è certo che se, al contrario, vuole essere grande, rimarrà molto, ma molto piccolo…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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