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28 Luglio 2015La «filosofia dell’azione» di Maurice Blondel resta invischiata in un’aporia fondamentale

Quella di Maurice Blondel (Digione, 1861 — Aix en Provence, 1949) è una filosofia che si presta ad alcuni equivoci e che, di fatto, rappresenta ancora sia uno stimolo, sia un terreno di contesa fra diverse e quasi opposte interpretazioni, che provengono dallo stesso ambito culturale e spirituale nel quale essa s’inscrive:quello del cattolicesimo, specie nel suo travagliato confronto con la realtà del mondo moderno.
Blondel fu considerato vicino agli ambienti modernisti francesi e, davanti alla decisa azione antimodernista di papa Pio X – particolarmente esplicita e severa con l’enciclica «Pascendi Dominici gregis», del 1907, che, in pratica, scomunicava gli aderenti al movimento — si chiuse in uno stretto silenzio, pur non sconfessando mai le sue simpatie per alcune figure del modernismo e la sua vicinanza a talune posizioni di esso.
Inutile dire che, dopo il Concilio Vaticano II, anche la sua opera è stata alquanto rivalutata; e del pari inutile dire che bisogna fare attenzione, in tale processo di revisione e di rivalutazione, a separare quel che appartiene realmente alla sua figura e al suo pensiero, da quello che, a posteriori, gli può essere attribuito, visto il clima oggi esistente di simpatie neo-moderniste all’interno della cultura cattolica. Bisogna essere molto cauti, pertanto, sia in un senso, che nell’altro: sia che lo si voglia salutare come un anticipatore di idee e prospettive che, oggi, si sono fatte strada e sono apparse chiaramente in luce, mentre, ai primi del Novecento, erano appannaggio di una piccola minoranza generalmente poco apprezzata, sia che, al contrario, si voglia evidenziare quanto vi è di scarsamente originale e di pericolosamente ambiguo in un pensiero che, pur dicendosi cristiano, sembra mettere l’accento più su quel che l’uomo può fare da sé, che non sull’intervento della Grazia e sull’azione che Dio dispiega nel mondo attraverso l’opera umana.
Possiamo dire, intanto, che la filosofia di Blondel, giudicata in prospettiva, sembra gettare come un ponte tra vecchie e nuove tendenze: vi è in essa una componente volontaristica, che pare avere qualche parentela con il criticismo kantiano e che, inoltre, l’accomuna all’etica dei valori di Max Scheler; una esaltazione dell’agire umano che, coincidendo con la contemplazione, richiama un po’ l’attualismo gentiliano e suggerisce un fondamentale anti-intellettualismo, contiguo, in qualche modo, allo "slancio vitale" di Henri Bergson, se non addirittura a certi a aspetti del pensiero di Friedrich Nietzsche. Inoltre vi sono, in esso, dei germi, degli spunti, che verranno poi sviluppati nel personalismo di Emmanuel Mounier — e, tramite lui, anche in quello di Luigi Stefanini — nonché una visione cosmica ed escatologica dal sapore non troppo diverso da quella dell’evoluzionismo cristocentrico di Teilhard de Chardin. Insomma, la filosofia di Maurice Blondel è come un amplissimo ponte: seguendola, si individua una delle principali linee di sviluppo del pensiero teologico e filosofico novecentesco.
Un ponte, in verità, tutt’altro che coerente e lineare: vi si notano infatti — come pure nel pensiero di Mounier — elementi di per sé distinti e addirittura contrastanti, come un certo costante richiamo al realismo e al pragmatismo (un’eco, forse anche, della "filosofia della praxis" di Karl Marx) e perfino all’evoluzionismo, sia pure nel senso più generico dell’espressione (e non in quello specificamente darwiniano); ma, nello stesso tempo, anche una propensione al misticismo, o, perlomeno, allo spirito contemplativo, tanto da risolvere il concetto di azione in quello di contemplazione. Così pure, stranamente e non troppo coerentemente, accanto a un serpeggiante fastidio contro lo scientismo positivista, che pretende di ridurre ogni evento e ogni esperienza entro la rigida cornice del fatto sperimentale, misurabile e quantificabile, si avverte una certa quale tendenza a presentare persino l’esperienza mistica per eccellenza, l’incontro con Dio nella contemplazione e nella preghiera, come una sorta di "esperimento collettivo", oggettivo e verificabile, sia pure nel senso del vichiano «verum et factum convertuntur», vale a dire di esperienza intima della coscienza.
Così riassume la questione, con il suo caratteristico senso dell’equilibrio, lo storico della religione Agostino Saba, già vescovo della diocesi di Nicotera e Tropea, nella sua monumentale «Storia della Chiesa» (Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1954, vol. IV, p. 330):
«Alcuni modernisti, come il Le Roy, trovavano nello slancio vitale del Bergson la nuova forma che doveva prendere il concetto tradizionale e cristiano di Dio; altri simpatizzarono con questo "creatore di Dio".
In Francia l’abate L. Laberthonnière in parte volgarizzò e in parte esagerò le idee non scolastiche di una nuova apologetica dei cattolici laici Maurizio Blondel e di Giorgio Fonsegrive. Questi due filosofi continuando l’opera di Leone Ollé-Laprune (1839 — 1898) iniziarono una suggestiva apologetica della fede cristiana, notandone le armonie con le leggi della vita intellettuale e morale. Era una reazione contro l’intellettualismo, non senza pericoli per la novità del metodo. Nel 1893 comparve l’opera del giovane filosofo cattolico Blondel, "L’Action. Essai d’une critique de la vie et d’une science de la pratique". L’autore propone un metodo filosofico che superi l’antitesi gnoseologica del realismo e dell’idealismo tradizionali, che prescinda da schemi fissi e si fondi sopra tutto sula vita autocosciente. La sua filosofia dell’azione è appunto in questo senso un’integrale concezione della vita. La ricerca filosofica non deve attardarsi nello studio dei rapporti delle idee con gli oggetti, ma deve indagare il rapporto del nostro pensiero con la nostra azione, intesa come la massima espressione vitale. Secondo Blondel la perfezione della scienza è inferiore alla perfezione della vita; noi conosciamo di più solo quando abbiamo agito di più. "Il vero filosofo non è quello che si contenta di pensare, né quello che si contenta di realizzare; è quello che conoscendo più, agisce meglio". La filosofia deve condurre l’uomo a risolvere il problema della vita e ad approfondire il suo destino. L’azione per il Blondel ha un significato profondo, che dai rapporti esterni ci trasporta a quelli interiori fino alla contemplazione divina, azione per eccellenza. Si andò in seguito formando una scuola filosofica sotto il nome di "dogmatismo morale", che voleva applicare i principi dell’azione non solo al metodo apologetico, ma a tutti i problemi religiosi. La tendenza generale era di sostituire all’intellettualismo la dottrina che tenesse conto delle aspirazioni del cuore e delle attività della vita; questa filosofia dei bisogni sembrava sufficiente a ristabilire su questa nuova base le verità fondamentali della religione e i dogmi del cristianesimo. La sintesi dei dogmi e dei fatti doveva essere cercata nella "scienza dell’azione", che mette in opera "i risultati metodicamente acquisiti per mezzo dell’esperimento collettivo del Cristo verificato e realizzato in noi". Leone Ollé-Laprune aveva già sostenuto nell’opera "La certitude morale", che si doveva cercare la verità non soltanto con l’intelligenza, ma anche con la volontà e col cuore; la vita dello spirito è solidale con la vita dell’essere, perché il pensiero non può bastare alla vita e la vita non può trovare in se stessa la sua luce, la sua forza e la sua legge totale. Il Laberthonniére dal sistema del "dogmatismo morale", non ancora metodicamente elaborato, deriva le sue opere, specialmente quella intitolata "Il realismo cristiano e l’idealismo greco" (1904), applicando i principi della scuola alla rivelazione biblica e alle origini cristiane. Così egli tentava di riconciliare la fede con la critica biblica, sopra il terreno d’un misticismo pregno d’immanenza. Non dubitava di scrivere che "le formule dogmatiche, per quanto piene di verità divina, sono state oggetto d’una elaborazione umana e in luogo di essere cadute dal cielo belle e fatte , sono state vissute e in certo senso sono il prodotto della vita.»
In pratica, il pensiero di Blondel — né poteva essere altrimenti, viste le sue non dissimulate aperture verso tale istanze del modernismo — risulta intimamente contraddittorio, o, quanto meno, disarmonico e parzialmente irrisolto, nella misura in cui tenta di conciliare le esigenze intellettuali del mondo moderno con la tradizione cattolica e con la linea mistica e contemplativa che si snoda, attraverso i secoli, dal Medioevo fino alla nostra epoca.
In pratica, Blondel tenta di mettere d’accordo con la tradizione del pensiero cattolico proprio il vitalismo della fine dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento, prevalente in tanta parte della filosofia e della cultura europea, letteratura e arti figurative comprese, ossia proprio ciò che di più "avanzato" e specifico stavano producendo le forze profonde della modernità (sono gli anni, per intenderci, in cui Kandinskij e alcuni altri, attraverso l’espressionismo, stanno traghettando la pittura europea verso l’arte astratta, ossia verso il ripudio deliberato e definitivo, senza ritorno, della rappresentazione della realtà, in nome di una verità tutta interiore e soggettiva: i dati di nascita e morte di Blondel e Kandinskij sono quasi sovrapponibili).
Ma è possibile un incontro del genere? O non si tratta di una impresa impossibile, trattandosi di due prospettive e di due modi di accostarsi al reale non solo profondamente, radicalmente differenti, ma anche sostanzialmente irriducibili e incompatibili? E si badi che la contraddizione non è solo esteriore, cioè nello sforzo di conciliare tendenze culturali e spirituali troppo diverse, ma anche interiore, data la presenza, nel pensiero di Blondel, di due tendenze che la rendono fragile e disarmonica in se stessa. Le due tendenze sono quella intellettuale e quella sentimentale: la prima, che tende a razionalizzare il fatto religioso e la stessa esperienza mistica dell’incontro dell’anima con Dio; la seconda, che tende a sciogliere le tensioni intellettuali in un abbandono contemplativo, in una apertura della coscienza al dato immediato della percezione del divino, saltando o riducendo ali minimi termini ogni mediazione intellettuale.
Che cosa significa sostenere, come fa Blondel, che l’azione è la scienza per eccellenza? Che è questo continuo ricorso al paradigma della scienza, al suo linguaggio, alla sua evidenza, proprio mentre si vuole sostenere la priorità assoluta dello spirituale sul materiale, del sentimentale sull’intellettuale, del dato interiore su quelli esteriori? Certo, sono gli anni in cui Positivismo e Decadentismo s’incontrano, s’incrociano, si sovrappongono; gli anni in cui tutti parlano di "scienza", compresi gli spiritisti, che interrogano il tavolino a tre gambe. E ai modernisti piaceva questo linguaggio ambiguo, così come piacevano queste atmosfere ambigue (si pensi soltanto a «Malombra», o, meglio, a «Daniele Cortis» e «Il santo» di Fogazzaro: e Blondel si era sentito vicino a quelle tendenze, a quella sensibilità.
In realtà, dire che la contemplazione di Dio è "azione", anzi, che è l’azione per eccellenza, rischia di essere poco più di una formula povera di contenuto, uno schema mentale per coprire le deficienze del pensiero: a meno di giocare sul significato delle parole, infatti, agire significa esercitare una azione su qualcosa, modificandola e trasformandola; contemplare, vuol dire sospendere ogni azione propria e lasciare che un’azione esterna, proveniente da Dio, colmi l’anima con la gratuità della propria effusione. Insomma, l’azione o la si fa, o la si subisce: se la si fa, non la si subisce; se la si subisce, non la si fa, ma, semmai, la si lascia fare — il che non è la stessa cosa di farla, e sia pure in senso lato, ma un’altra cosa: la rinuncia ad agire.
Ora, è ben vero che nell’incontro dell’anima con Dio si dà una disposizione di apertura, di disponibilità, e sia pure implicita, da parte dell’uomo; ma è altrettanto vero e certo che non è l’uomo a prendere l’iniziativa, non è l’uomo ad agire, tanto è vero che l’uomo può non incontrare Dio, pur cercandolo, specialmente se lo cerca in maniera sbagliata: perché, per incontrarlo, bisogna essere capaci di vederlo, il che non è cosa evidente, come lo sarebbe incontrare un qualsiasi essere umano. Si può passare accanto a Dio senza vederlo, per tutta la vita; anzi, per il credente è cosa certa che Dio viene continuamente incontro all’uomo, ma questi, per vederlo, lo deve riconoscere, mentre potrebbe accadere che lo scambi per ciò che Egli non è. Per usare il linguaggio evangelico, solo i puri di cuore potranno vedere Dio; non chiunque lo chiami per nome, e meno ancora chi rifiuti di ammettere la sua presenza nel mondo.
Da queste aporie, da queste ambiguità, sembra veramente difficile tirarsi fuori. Per aver voluto gettare troppi ponti verso il mondo moderno, la filosofia di Blondel rischia di scivolare nella nemesi della sua smania di azione: l’impotenza. Il rischio che incombe su essa è di farne la premessa perché ciascuno si crei una propria versione del cristianesimo, tanto soggettiva, quanto sentimentale…
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