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28 Luglio 2015
Come il paradigma dell’attualismo ha spinto la geologia verso un vicolo cieco
28 Luglio 2015Si dice: «Quello è un uomo dalle forti convinzioni!», e lo si dice con una sfumatura di rispetto, persino di ammirazione; a tal punto l’idea di "convinzione" è diventata un’idea profondamente rispettabile, anzi, quasi l’idea della rispettabilità per antonomasia. Qualunque cosa, allorché venga fatta da colui che ne è profondamente convinto, acquista almeno un poco di quella rispettabilità: anche la cosa più atroce. Se quella stessa azione fosse stata compiuta senza convinzione, ad esempio per mera convenienza, per basso opportunismo, diventerebbe subito spregevole: ma se è stata fatta per convinzione…!
Eppure, siamo proprio sicuri che l’essere convinti di qualcosa sia davvero l’equivalente dell’onestà intellettuale, della buona fede? Siamo proprio sicuri che essere convinti di qualcosa sia l’esatto contrario della malafede, dell’agire in modo irresponsabile, o, peggio, da venduti, da mercenari? Vediamo.
"Convinto" si dice di qualcuno che è stato conquistato da un’idea, da una evidenza, da una verità: «D’accordo, mi ha convinto!», diciamo; e la cosa finisce lì, non c’è più niente da aggiungere o da indagare ulteriormente, ormai abbiamo capito come stanno le cose, qualcuno ce le ha mostrate e noi, adesso, ne siamo pienamente persuasi; pronti e desiderosi, a nostra volta, di farcene paladini presso qualcun altro, di farcene portatori, di farcene, se necessario, dei volonterosi e instancabili crociati, disposti magari a soffrire in prima persona, pur di estendere al prossimo i benefici e salutari effetti della nostra nuova convinzione.
"Convincere" deriva dal latino "cum", più "vincere": significa, alla lettera, piegare, soggiogare, sottomettere qualcuno a qualcosa, mediante la forza degli argomenti e delle ragioni. Ma quando noi siamo stati piegati, soggiogati, sottomessi ad una certa verità, siamo stati anche conquistati alla verità? Alla verità in quanto tale? Non ad una verità; non alla verità che ci ha forzati a cedere le armi, ad abbandonare la nostra resistenza; non a una verità che ci ha persuasi, magari nostro malgrado: ma alla verità in se stessa, luminosa, splendente, incontrovertibile nella sua purezza, senza sforzo, senza lotta, così come senza sforzo si accoglie il sorgere del sole o si respira il profumo della terra umida di pioggia?
C’è una pagina del buon vecchio Nietzsche, ne «L’Anticristo», che può aiutarci a chiarire questo concetto, troppo spesso dato per scontato ed evidente: se la "convinzione" di qualcuno in qualcosa rappresenti, di per sé, un omaggio alla verità, e dunque un valore, tanto intellettuale che morale, oppure no (cap. 55; traduzione dal tedesco di Paolo Santoro, Roma, Newton Compton, 1977):
«- Un passo avanti nella psicologia della convinzione, della "fede". Già da tempo stata da me posta sul tappeto se le convinzioni non siano dei nemici della verità più pericolosi delle bugie ("Umano, troppo umano", I, af. 483). Stavolta vorrei porre la domanda decisiva: tra menzogna e convinzione sussiste u’antitesi? Tutti lo credono: ma che cosa non credono tutti! Ogni singola convinzione ha la propria storia; i propri precorri menti; i propri tentativi e errori: essa DIVIENE convinzione, dopoché per un lungo tempo NON lo è stata, dopo esserlo stata A STENTO ancor più a lungo. Come? Non potrebbe, tra queste forme embrionali di convinzione, esserci anche la menzogna? A volte è solo necessario uno scambio di persone: ciò che nel padre era ancora bugia, diviene convinzione nel figlio. Io chiamo bugia il NON voler vedere qualcosa, che si vede, il non voler vedere qualcosa COSÌ come lo vediamo: non ha importanza il fatto che la menzogna si verifichi dinnanzi o senza testimoni. La bugia più comune quella in cui si mente a se stessi; il mentire ad altri è caso relativamente eccezionale. — Ora questo NON voler vedere ciò che si vede, questo non voler vedere COSÌ come si vede è a un dipresso condizione prima per tutti quelli che in qualsiasi senso sono PARTITO: l’uomo di fazione diviene di necessità bugiardo. La storiografia tedesca, ad esempio, è convinta che Roma fosse il dispotismo, che i Germani abbiano portato nel mondo lo spirito di libertà: che differenza c’è tra questa convinzione e una menzogna? Quando, di istinto, tutti i partiti, e anche gli storici tedeschi, si riempiono la bocca con le grandi parole della morale, com’è possibile stupirci, che la morale SUSSISTA ancora quasi in virtù del fatto che qualsivoglia uomo di partito ne ha bisogno ad ogni momento? — "Questa è la nostra convinzione: la professiamo dinanzi a tutto il mondo, viviamo e moriamo per essa — onore a tutti quanti nutrono delle convinzioni!" — Perfino sulla bocca di antisemiti ho udito parole siffatte. Al contrario, signori miei! Un antisemita non diventa per nulla più rispettabile solo perché mente per principio… I preti, che in queste cose sono più fini e comprendono benissimo l’obiezione che sta nel concetto di convinzione, vale a dire la falsità tale per principio, POICHÉ utile allo scopo, hanno preso dagli Ebrei la furbizia di inserire a questo punto i concetti di "Dio", "volere divino", "rivelazione divina". Anche Kant era sulla stessa strada, col suo l’imperativo categorico: la sua ragione si fece così PRATICA.- Vi sono questioni in cui la decisione su verità e non verità NON compete all’uomo; tutte le supreme questioni, tutti i supremi problemi di valore trascendono la umana ragione… Comprendere i limiti della ragione — QUESTO solo è veramente filosofia… A che fine Dio dette all’uomo la rivelazione? Dio avrebbe fatto qualcosa di superfluo? L’uomo da se stesso non PUÒ sapere che cosa è buono e cattivo, per questo Dio gli insegnò la sua volontà…Morale: il prete NON dice bugie – in cose come quelle di cui discutono i preti, la questione del "vero" e del "non vero" non esiste: queste cose non permettono affatto di mentire. Giacché per mentire uno dovrebbe poter decidere, CHE COSA qui sia vero. Ma appunto questo l’uomo non PUÒ fare; il prete è così solo portavoce di Dio. — Un simile sillogismo pretesco non è in alcun modo solo giudaico e cristiano; il diritto alla menzogna e la FURBIZIA della "rivelazione" sono proprie del tipo-prete, sia dei preti della "DÉCADENCE", che dei preti del paganesimo (- pagano è chiunque dica sì alla vita, colui per il quale "Dio" è la parola per il grande sì a tutto. — La "legge", la "volontà di Dio", il "libro sacro", "l’ispirazione": tutte parole solo per le condizioni IN CUI il prete giunge al potere, CON le quali egli sostiene il proprio potere – questi concetti stanno a fondamento di tutte le organizzazioni ecclesiastiche, di tutte le strutture di dominio sacerdotali o filosofico-sacerdotali. La "sacra menzogna" — comune a Confucio, al codice di Manu, a Maometto, alla Chiesa cristiana — non manca in Platone – "La verità esiste": queste parole, dovunque udite, significano IL PRETE MENTE…»
Ora, vediamo di scorporare il ragionamento di Nietzsche da certe sue deduzioni e illazioni, per lo più di ordine storico, psicologico ed emotivo, come le continue sparate, e la sua evidente acredine, nei confronti del giudaismo, del cattolicesimo, e perfino dell’antisemitismo (per fatto personale, si potrebbe dire: detestava il cognato, Bernhard Förster, il marito della sorella Elisabeth, che era un acceso antisemita, al punto che non volle essere presente alle loro nozze, due anni prima della partenza della coppia per fondare una colonia "ariana" in Paraguay). Nietzsche ce l’ha a morte con i "preti" e con la "mentalità pretesca", fatta di "astuzia" subdola e avvolgente; e ce l’ha a morte con l’idea del limite della ragione, perché vede in essa il punto strategico nel quale si insinua la furbizia pretesca, rivendicando a Dio solo, e naturalmente ai suoi interpreti, la decisione ultima su che cosa sia verità e che cosa sia menzogna, su che cosa sia il bene e che cosa sia il male. Ebbene, siamo profondamente convinti ("convinti": e già qui Nietzsche insorgerebbe, e griderebbe all’inganno) che egli abbia profondamente, radicalmente torto, e che davvero la ragione umana, sulle questioni ultime di verità e non verità, non sia in grado di decidere e nemmeno di arrivare. O almeno, di arrivare da sola e per se stessa: questo è il dettaglio che Nietzsche ignora completamente, trascurando il fatto che, da Platone a Pascal, per duemila anni esatti, la filosofia si è appoggiata ed integrata con la fede, e da tale sintesi è scaturita la teologia; e che la teologia, a sua volta, è stata l’ancella della fede. Nietzsche, infatti, contrariamente all’immagine più largamente diffusa di lui e del suo pensiero, specialmente fra coloro che lo citano spesso, ma che non lo hanno letto per niente, o che lo hanno letto poco e male, non è affatto un irrazionalista (a dispetto del suo esasperato vitalismo), ma un illuminista, almeno nelle intenzioni: un adoratore della Ragione.
Tuttavia, a dispetto di questo disaccordo profondo, riteniamo che nel suo ragionamento vi siano spunti estremamente validi e interessanti, meritevoli della riflessione più approfondita per quanto di vero in essi traluce, malgrado l’erronea impostazione del ragionamento complessivo.
In particolare, ci sembra quanto mai appropriata l’obiezione al comune modo di pensare: che una "convinzione" non rappresenta, di per se stessa, un elemento di "verità", se non di una verità soggettiva, destinata a collidere, inevitabilmente, con altre verità e con altre convinzioni, parimenti soggettive; e che, inoltre, vi sia in essa, sottinteso, e tuttavia evidente, un "quid" auto-referenziale, derivante dalla supposizione, peraltro indimostrata e indimostrabile, che il fatto di credere fortemente in qualcosa deponga a favore di quella verità, mentre depone solamente a favore della coerenza e della tenacia, forse anche della "buona fede", di colui che è convinto e che, di conseguenza, crede in quella determinata cosa.
Laddove, tuttavia, è evidente che né la coerenza, né la tenacia, e neppure la buona fede, sono elementi oggettivi di verità: essi depongono solo a favore della verità soggettiva, o meglio, della forza di attrazione che essa esercita su quel tale individuo. Cosa che può essere ammirevole, ma sempre e solo in senso soggettivo; in senso oggettivo, e cioè in senso filosofico — perché filosofare equivale a cercare la verità in se stessa, per quanto possibile, e tutta intera, non suddivisa in parti – non significa nulla: infatti, se così non fosse, dovremmo concludere che la monomania di uno psicotico possiede lo stesso grado di dignità intellettuale della speculazione più profonda e ben argomentata di cui sia capace un sommo pensatore.
Ricordiamo la definizione classica di verità: essa è l’accordo fra la cosa e il giudizio. Se io affermo, per esempio, che in questa stanza, in questo momento, non vi sono elefanti, dico una cosa vera, almeno fino ad un certo punto: potrebbero esservi dei quadri o delle fotografie che li rappresentano; potrebbe esservi qualcuno che li sta pensando, raffigurandoli nella sua mente; e potrebbero esservi domani, o esservi stati ieri: chi potrebbe escluderlo in via di principio? Fuggiti da un circo, per esempio, o chi sa che altro: accadono ogni giorno tante cose impensabili. Ed ecco una prima difficoltà: la filosofia mira alla verità, oggettiva e tutta intera; ma la nostra mente e la nostra sfera sensoriale sono fatte in modo che tale obiettivo si presenta come estremamente problematico, persino quando si tratta di decidere questioni di fatto. Ora, la filosofia non mira a decidere questioni di fatto, ma di principio: le questioni di fatto sono oggetto, semmai, delle scienze fisiche. Ebbene, se io affermo che la verità, in se stessa, cioè nella sua forma pura e assoluta, è inaccessibile alla mente umana, pongo una questione di principio, cioè una questione filosofica: la verità della quale non appare evidente di per sé, ma richiede lunghi e complessi ragionamenti. Ma solo un ramo della filosofia, la logica, consente, e solo fino ad un certo punto, di definire in maniera certa e incontrovertibile le questioni di principio: si veda, ad esempio, la storia della discussione intorno al principio di non contraddizione.
Una buona parte del pensiero moderno ha cercato, appunto, di ridurre la filosofia a logica, proprio perché insofferente del fatto che la filosofia non è in grado di raggiungere, ordinariamente, un grado di verità certa e oggettiva sui massimi problemi che si pongono alla mente umana. Misero tentativo: la logica, in filosofia, non è autosufficiente: è come uno strumento, un linguaggio: ma che cosa si vuol costruire con un tale strumento, quali parole si vogliono dire con un tale linguaggio? Ancora una volta, emerge l’arroganza del pensiero moderno, che non accetta i limite della finitezza creaturale. Esso vorrebbe pensare la verità in quanto tale, senza incertezze ed errori, e soprattutto senza un sostegno extra-razionale (il che non significa, necessariamente, irrazionale, ma potrebbe significare, semmai, sovra-razionale): ed è appunto ciò che i pensatori come Nietzsche reclamano come un diritto della ragione umana.
In natura, però – e con buona pace di tutti i giusnaturalisti e gli illuministi — non esistono affatto "diritti", ma solo "tentativi": si tenta di vivere, e di vivere nel modo giusto; si tenta di capire, si tenta di amare: e non è detto che vi si riesca. Essere convinti di qualcosa è troppo poco, se tale convincimento nasce unicamente da verità soggettive. La cosa, però, è ben diversa, se la ragione umana, riconoscendo il proprio limite, si lascia soccorrere dalla Ragione divina; se l’essere umano si fida dell’Essere; se la verità umana, piccola e insufficiente, si affaccia al vasto mare della Verità…
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