
Siamo proprio sicuri che le streghe non siano mai esistite?
28 Luglio 2015
La bellezza, nel protestantesimo, è sempre nemica di Dio, lo sostituisce o lo combatte
28 Luglio 2015È la notte il momento che fa paura alle persone tormentate da un demone, segreto o palese che sia: di notte, i fantasmi delle tenebre escono dai loro oscuri recessi e si scatenano, per tormentare senza pietà le anime inquiete, tribolate, ossessionate, disperate.
Non è un modo di dire, non sono suggestioni romantiche: la notte cela davvero tenebrose presenze, entità malefiche pronte a lanciarsi all’assalto della nostra dimensione; le persone dotate di una forte spiritualità lo hanno sempre saputo: di notte non è bene andare troppo in giro, perché le presenza maligne vagano liberamente, alla ricerca di prede da divorare.
La notte non è solo il momento del giorno caro agli innamorati, che, mano nella mano, stanno a guardare la Luna: è anche il momento dei maghi, degli incantesimi, dei rituali proibiti. Di notte gli stregoni suggellano i loro patti col Diavolo; lanciano fatture e maledizioni; evocano gli spiriti, per interrogarli; compiono i loro infami sacrifici, anche di vittime umane (e non sono mere fantasie: ne parla già Orazio, a proposito della strega Canidia; ne parlano le cronache odierne, per esempio con i delitti delle Bestie di Satana).
La notte, circoli esoterici e "medium" incoscienti tengono le loro pericolose sedute spiritiche, chiamano dall’aldilà le anime dei morti; i ladri, gli stupratori, i malintenzionati, le prostitute, le spie, gli assassini, e cento e cento piccoli mister Hyde, si riversano sulle strade, popolano i locali ambigui, i vicoli sordidi, i viali del vizio; folle di giovani dalla volontà debole, poveri di valori ma, in compenso, animati da una prepotente sete di piaceri inconsueti, guidano le automobili come pazzi, giocano con la loro e con l’altrui vita; si riversano nelle discoteche, in mezzo a suoni assordanti, a luci psichedeliche; assumendo sostanze stupefacenti nei gabinetti, abbandonandosi a rapporti sessuali promiscui, dove capita e con chi capita: è come se il Signore delle Tenebre dominasse, incontrastato padrone di tutti costoro, delle loro folli speranze, delle loro amare frustrazioni, del loro desiderio di rivalsa.
La notte di Valpurga, in Germania; la notte di Blokula, in Svezia; la notte sul Monte Calvo di Mussorgskij; la notte dantesca nella selva oscura; la shakespeariana notte di mezza estate, la temuta notte di San Giovanni; la notte di Halloween, delle streghe, dei folletti: le anime buone si tengono alla larga dagli influssi malefici e dagli spiriti malevoli che scorrazzano dalla mezzanotte fino alle prime luci dell’alba; sentono, per istinto, oltre che per intelligenza, che non è bene scherzare col fuoco. I delitti più efferato hanno luogo di notte, come quelli di Jack lo Squartatore; i tradimenti più sordidi si consumano prima che canti il gallo, come imparò, a sue spese, san Pietro, nel cortile del sommo sacerdote. Tutto è puro per i puri, certo; ma la purezza non esclude affatto la prudenza; al contrario, la presuppone. Le peggiori tentazioni dei grandi santi — Sant’Antonio del deserto; il curato d’Ars, Jean-Marie Vianney, san Pio da Pietrelcina — avvenivano di notte, sotto forma di veri e propri assalti, anche fisici, da parte del Demonio.
Più comunemente, tutti sanno – per esperienza – che, quando l’anima è gravata da pensieri, preoccupazioni, angosce, le ore della notte ben difficilmente portano il necessario riposo; al contrario, esse moltiplicano la pena e aggravano la stanchezza, perché si popolano di visioni minacciose, di autentici incubi, o, nel meno peggiore dei casi, di rovelli inspiegabili, disgusti misteriosi, crudeli mal di testa, come se qualcuno o qualcosa volesse negare al corpo esausto e alla mente martoriata quelle poche ore di sonno che potrebbero ritemprare l’organismo, e aiutare la coscienza a ritrovare un poco di serenità e di speranza.
Ci piace riportare una pagina famosa del capolavoro di Silvio Pellico, «Le mie prigioni» (Bologna, Malipiero, 1972, pp. 107-111):
«…Simile stato era una vera malattia; non so se debba dire, una specie di sonnambulismo. Era, senza dubbio, effetto d’una grande stanchezza, operata dal pensare e dal vegliare.
Andò più oltre. Le mie notti divennero costantemente insonni. E per lo più febbrili. Indarno cessai di prende il caffè la sera: l’insonnia era la stessa.
Mi pareva che in me fossero due uomini: l’uno che voleva sempre scriver lettere, e l’altro che voleva far altro. Ebbene, diceva io, transigiamo, scrivi pur lettere, ma scrivile in tedesco; così impareremo quella lingua.
Quindi, dopo lunga veglia, il cervello spossato cadeva in qualche sopore. Allora sognava, o piuttosto delirava, di vedere il padre, la madre, o altro mio caro disperarsi sul mio destino.
Udiva di loro i più miserandi singhiozzi , e tosto mi destava singhiozzando e spaventato
Talvolta in que’ brevissimi sogni sembravamo d’udir la madre consolare gli altri, entrando con essi nel mio carcere, e volgermi le più sante parole sul dovere della rassegnazione; quand’io più mi rallegrava del suo coraggio e del coraggio degli altri, ella prorompeva improvvisamente in lagrime, e tutti piangevano. Niuno può dire quali strazi fossero allora quelli all’anima mia.
Per uscire di tanta miseria, provai di non andare più affatto a letto. Teneva acceso il lume l’intera notte, e stava al tavolino a leggere e scrivere. Ma che? Veniva il momento ch’io leggeva, destissimo, ma senza capir nulla, e che assolutamente la testa più non mi reggeva a comporre pensieri. Allora io copiava qualche cosa, ma copiava ruminando tutt’altro che ciò ch’io scriveva, ruminando le mie afflizioni.
Eppure, s’io andava a letto, era peggio. Non una posizione m’era tollerabile, giacendo;: m’agitava convulso, e conveniva alzarmi. Ovvero se alquanto dormiva, que’ disperati sogni mi faceano più male del vegliare.
Le mie preci erano aride, e nondimeno io le ripetevo sovente; non con lungo orare di parole, ma invocando Dio! Dio unito all’uomo ed esperto degli umani dolori!
In quelle orrende notti, l’immaginativa mi s’esaltava talora in guisa, che pareami, sebbene svegliato, or d’udir gemiti nel mio carcere, or d’udir risa soffocate. Dall’infanzia in poi,non era mai stato credulo a streghe e folletti, ed or quelle risa o que’ gemiti mi atterrivano, e non sapea come spiegare ciò, ed era costretto a dubitare s’io non fossi ludibrio d’incognite maligne potenze.
Più volte presi tremando il lume, e gridai se v’era alcuno sotto il letto e mi beffasse. Più volte mi venne il dubbio, che m’avessero tolto dalla prima stanza e trasportato in questa, perché ivi fosse qualche trabocchetto, ovvero nelle pareti qualche secreta apertura, donde i miei sgherri spiassero tutto ch’io facea, e si divertissero crudelmente a spaventarmi.
Stando al tavolino, or mi pareami che alcuni mi tirasse pel vestito, or che fosse data una spinta ad un libro, il quale cadeva a terra, or che una persona dietro a me soffiasse sul lume per ispegnerelo. Allora io balzava in piedi, guardava intorno, passeggiava con diffidenza,e chiedeva a me stesso s’io fossi impazzito od in senno. Non sapea più, che cosa, di ciò ch’io vedeva e sentiva, fosse realtà o illusione, e esclamava con angoscia: "Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me?"
Una volta, andando a letto alquanto prima dell’alba,mi parve d’avere la più gran certezza d’aver messo il fazzoletto sotto il capezzale. Dopo un momento di sopore, mi destai al solito e mi sembrava che mi strangolassero. Sento d’avere il collo strettamente avvolto. Cosa strana! Era avvolto col mio fazzoletto, legato forte a più nodi. Avrei giurato di non aver fatto quei nodi, di non aver toccato il fazzoletto, dacché l’aveva messo sotto il capezzale. Convien ch’io avessi operato sognando o delirando, senza più serbare alcuna memoria, ma non potea crederlo, d’allora in poi stava in sospetto ogni notte d’essere strangolato.
Capisco quanto simili vaneggiamenti debbano essere ridicoli altrui, ma a me che li provai facevano tal male, che ne raccapriccio ancora.
Si dileguavano ogni mattino; e finché durava la luce del dì, io mi sentiva l’animo così rinfrancato contro que’ terrori, che mi sembrava impossibile doverli mai più patire. Ma al tramonto del sole io cominciavo a rabbrividire, e ciascuna notte riconduceva le brutte stravaganze della preceente.
Quanto maggiore era la mia debolezza nelle tenebre, tanto maggiori erano i miei sforzi durante il giorno per mostrarmi allegro ne’ colloqui co’ compagni, coi due ragazzi del patriarcato, e co’ miei carcerieri. Nessuno, udendomi scherzare com’io faceva, si sarebbe immaginato la misera infermità ch’io soffriva. Sperava con quegli sforzi di rinvigorirmi; ed a nulla mi giovavano. Quelle apparenze notturne, che di giorno io chiamava sciocchezze, la sera tornavano ad essere per me realtà spaventevoli.
Se avessi ardito, avrei supplicato la Commissione di mutarmi di stanza, ma non seppi mai indurmivi, temendo di far ridere.
Essendo vani tutti i raziocinii, tutti i proponimenti, tutti gli studii, tutte le preghiere, l’orribile idea d’essere totalmente e per sempre abbandonato da Dio s’impadronì di me.
Tutti que’ maligni sofismi contro la Provvidenza che, in istato di ragione, poche settimane prima , mi apparivano sì stolti, or vennero a frullarmi nel capo bestialmente e mi sembrarono attendibili,. Lottai contro questa tentazione parecchi dì, poi mi vi abbandonai.
Sconobbi la bontà della religione; dissi, come aveva udito dire da rabbiosi atei, e come testé Giuliano scriveami: – "La religione non vale ad altro che ad indebolire le menti"- M’arrogai di credere che rinunciando a Dio, la mente mi si rinforzerebbe. Forsennata fiducia! Io negava Dio, e non sapea negare gl’invisibili, malefici enti, che sembravano circondarmi e pascersi de’ miei dolori.
Come qualificare quel martirio? Basta egli dire ch’era una malattia? Od era egli, nello stesso tempo, un castigo divino per abbattere il mio orgoglio, e farmi conoscere che, senza un lume particolare, io poteva divenire incredulo come Giuliano [un ignoto compagno di prigionia], e più insensato di lui?
Checché ne sia, Dio mi liberò di tanto male, quando meno me l’aspettava.
Una mattina, preso il caffè, mi vennero vomiti violenti, e coliche. Pensai che m’avessero avvelenato. Dopo la fatica de’ vomiti era tutto un sudore,e stetti a letto. Verso mezzogiorno mi addormentai, e dormii placidamente fino a sera.
Mi svegliai, sorpreso di tanta quiete; e, parendomi di non aver più sonno, m’alzai. – Stando alzato, diss’io, sarò più forte contro i soluti terrori.
Ma i terrori non vennero. Giubilai, e nella piena della mia riconoscenza, tornando a sentire Iddio, mi gettai a terra ad adorarlo, e chiedergli perdono d’averlo per più giorni negato. Quell’effusione di gioia esaurì le mie forze, e fermatomi in ginocchio alquanto, appoggiato ad una sedia, fui ripigliato dal sonno e m’addormentai in quella posizione.
Di lì, non som, se ad un’ora o più ore, mi desti a mezzo, ma appena ho tempo di buttarmi vestito sul letto, e ridormo, sino all’aurora. Fui sonnolento ancor tutto il giorno; la sera mi coricai presto, e dormii la intera notte. Qual crisi erasi operata in me? Lo ignoro, ma io era guarito.»
A torto si pensa che questo celebre libro di Silvio Pellico costituisca una testimonianza politica o, comunque, patriottica. Essa è, in tutto e per tutto, la storia del viaggio di un’anima alla ricerca di Dio: esattamente come le «Confessioni» di sant’Agostino.
Anche se il suo racconto presenta alcune somiglianze con il lungo periodo di oscuramento mentale vissuto da Torquato Tasso e da lui descritto, al tempo in cui il grande poeta venne lungamente rinchiuso nell’ospizio-manicomio di Sant’Anna, in Ferrara, a noi sembra che le analogie più forti rimandino ai racconti dei Padri del deserto, alle loro tentazioni diaboliche, alla loro lotta disperata per non perdere la luce della fede e per non smarrirsi negli abissi della disperazione, frutto velenoso e inevitabile della lontananza da Dio.
Ci piace, pertanto, concludere la presente riflessione con un messaggio di speranza: l’anima si sbigottisce e si confonde allorché crede di poter fare tutto da sola, allorché si carica di compiti che sono superiori alle sue forze. Perché l’essere umano, da solo, non può fare nulla: anche i suoi progetti più modesti possono fallire in qualsiasi momento, per le cause più banali; figuriamoci quelli più ambiziosi. Tuttavia, noi non siamo condannato all’impotenza; il nostro destino non è la sconfitta, ma la vittoria: noi siamo fatti per la luce, per la gioia e per la vita. Le forze del male non riusciranno a confonderci, se noi non saremo così folli o così imprudenti da aprire loro la porta: al contrario, dobbiamo tenerla ben presidiata. Se con le nostre sole forze, infatti, non possiamo fare nulla, con l’aiuto di Dio possiamo fare pressoché qualunque cosa: non esiste muro che possa resisterci, non esistono catene che possano avvincerci, non c’è forza al mondo che possa tenerci schiavi e soggiogati.
Se conserviamo pura la nostra anima, e desta e limpida la nostra coscienza, pronta a lasciarsi riempire dalla grazia divina, non vi sarà notte che possa farci smarrire la strada: forse non saremo immuni da qualunque turbamento, ma è certo che non soccomberemo. L’angoscia si trasforma in disperazione solo se noi ci lasciamo sbigottire. Ed è questo che tentano di fare, con astuzia e con perseveranza, le forze del male: sbigottirci. Però, se si accorgono che l’anima ha posto il suo presidio in Qualcuno che non le teme, alla fine devono rinunciare.
L’importante è che il canto del gallo ci trovi desti e consapevoli, nell’amore e nel timor di Dio.
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