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In Franco Amerio la teologia s’incontra con la fede per uscirne rafforzata e vivificata

Franco Amerio (1906-1985), sacerdote salesiano, professore di filosofia e autore di studi storici e soprattutto teologici, era il fratello del più conosciuto filosofo e teologo Romano Amerio (1905-1997), autore del fondamentale saggio «Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX»: entrambi ancora oggi non abbastanza apprezzati e valorizzati, molto probabilmente perché ebbero il torto, agli occhi di un certo mondo cattolico "progressista" e politicamente corretto, di rifarsi alle sorgenti perenni della Scrittura e della Tradizione e, pertanto, a quella "Philosophia perennis" che si fonda sulla salda roccia dell’essere e non insegue le facili, ma fuggevoli mode culturali della tarda modernità.

Di Romano Amerio abbiamo già avuto occasione di occuparci (cfr. il nostro articolo «Ugo Spirito, Romano Amerio e le aporie del concetto della vita come amore totale», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 06/02/2012); ora vogliamo ricordare un poco la figura del suo fratello, minore di appena un anno, e scomparso dodici anni prima di lui: figura esemplare di studioso, di educatore e di uomo di Dio, in cui si fondevano armoniosamente questi tre aspetti, ciascuno dei quali avrebbe potuto colmare di senso una vita umana. Ma quello che più colpisce, nell’accostarsi a questo grande dimenticato, alla sua vita, alla sua opera, al suo magistero, è il profondo sentimento della fede, illuminata dalla luce del soprannaturale, e, nello stesso tempo, mirabilmente assecondata dalla ragione naturale e dallo studio della filosofia e della teologia, ciò che fa di lui quasi un cristiano d’altri tempi: altri, nel senso che la modernità ha sempre più diluito la fede rispetto alla ragione, in ossequio al sapere del mondo che, molto spesso, corrisponde a un atteggiamento intellettuale di superbia, opposto allo spirito di umiltà del Vangelo.

Nato il 26 marzo 1906 a Lugano, nel Canton Ticino, da padre italiano e madre luganese, Romano Amerio scelse la vocazione salesiana per il suo grande amore verso la cultura e verso i giovani, iniziando il noviziato a Schio (Vicenza) nel 1921; fece la prima professione a Este (Padova) nel 1922, poi entrò nella comunità salesiana di Valsalice (Torino) e fu ordinato sacerdote nel 1930, per passare subito dopo a Foglizzo, nel Canavese, ad esercitarvi la sua grande passione: l’insegnamento e l’educazione dei giovani. A partire dall’anno scolastico 1934/35 incominciò a svolgere l’insegnamento di Filosofia e Storia (nonché di Religione) nel celebre Liceo classico e scientifico dei Salesiani di Valsalice, parallelamente alla sua intensa attività di scrittore: l’uno e l’altra lo avrebbero accompagnato sino al termine della sua esistenza terrena.

Erano entrambi la sua ragione di vita; dal liceo di Valsalice non si allontanò mai, neanche dopo che ebbe ottenuto, nel 1954, la libera docenza in Filosofia, e l’insegnamento della Storia della Filosofia nel Pontificio Ateneo Salesiano; e nonostante la fitta attività di conferenziere, che lo mise a contatto, fra gli altri, col filosofo Michele Federico Sciacca (1908-75) e lo scrittore e storico Carlo Mazzantini (1925-2006), con i quali strinse una salda e durevole amicizia. Del resto, la sua attività di scrittore è inseparabile da quella di educatore: tra le sue pubblicazioni più importanti, è necessario ricordare almeno i "Lineamenti di storia della filosofia", apparsi nel 1939 e ripubblicati ben nove volte in edizioni sempre più ampie e aggiornate; e i tre volumi del "Corso di storia per i licei", pubblicato sotto il nome di Franco Moroni (che non è uno pseudonimo, ma, semplicemente, il cognome materno), perché non si creasse una confusione, o, peggio, una qualche forma di pregiudizio, da parte della critica, che già la conosceva come autore di testi filosofici.

Così ha rievocato la sua figura Paolo Risso nell’articolo: «Professore e apostolo: don Franco Amerio» (su: «L’Amore misericordioso», mensile del Santuario dell’Amore Misericordioso di Collevalenza, n. 4, aprile 2015, pp. 27-30):

«… Era un ingegno eccezionale, accompagnato da serietà negli impegni scolastici e da una vivacità brillante e contagiosa. Attività musicale come vera passione. Studio appassionato della Verità nella filosofia tomistica  e nella teologia. […]

All’università di Torino si laureò in Lettere con una tesi sul "De musica" di S. Agostino, presentata e elogiata dal confratello e prof. don Sisto Colombo. L’anno dopo, si laureò in Teologia e nel 1932 in Filosofia. Il fratello, prof. Romano Amerio, professore e poi preside di liceo a Lugano, vede "negli studi di Filosofia e Teologia un vero itinerario della luminosa anima di Franco verso Dio". Fin da giovanissimo, Franco ebbe un impellente sentimento della "grandezza intellettuale" della Chiesa cattolica, alla scuola di Gesù Cristo unico Maestro, sulle orme di S. Tommaso d’Aquino, il più grande filosofo e teologo che l’umanità abbia mai avuto. […]

I suoi ragazzi li trattava come ‘uomini capaci di pensare’ e dotati di una ricerca profonda del vero senso della vita, dell’orientamento decisivo che sfida il tempo e la morte.  […]

Quando vedeva i suoi allievi così giovani aprirsi alla Verità, don Franco mostrava la sua profonda soddisfazione spirituale, soprattutto percependo che le sue parole penetravano e trovavano la via del cuore e dell’intelletto degli allievi. Questo senso della vita, don Franco lo indicava in Gesù Cristo, Maestro e Redentore, Educatore delle personalità più alte e più luminose che l’umanità possieda. Don Franco puntava a due mete: garantire l’oggettività della conoscenza, il continuo "aggancio e fedeltà al Reale, all’Essere" e pertanto "filosofia perenne"; far vedere, secondo il criterio che lui "dell’esistenzialità", che solo la Verità – che è Gesù Cristo – dà senso pieno e totale alla vita, rispondendo in modo definitivo e adeguato ai grandi perché dell’uomo. Questa è la sua "lezione", valida ieri come oggi, valida sempre, senza la quale nulla si costruisce di positivo. La "lezione" di S. Tommaso e la lezione di Pascal. Il suo ideale didattico-pedagogico ha una netta impostazione storica e filosofica che gli fa pensare tutta la nostra più sana Tradizione di pensiero procedente secondo la linea più retta e luminosa che parte da S. Agostino d’Ippona, raggiunge il suo vertice negli Scolastici, in primo luogo in S. Tommaso d’Aquino, e giunge sino alla Neo-scolastica, promossa dall’enciclica "Aeterni Patris" (1879) di papa Leone XIII. Solo questa è tradizione di Luce e di Verità e lui non fu mai tentato di ricercare qualcosa nella linea eterodossa che da Machiavelli porta al positivismo di Ardigò, tanto meno di porsi alla tenebrosa sequela di Cartesio, che arriva a Kant e attraverso Hegel, Marx e Nietzsche, si inabissa nella disperazione del relativismo e del nichilismo. Non c’è "aria fresca" in questa sequela, come si pretende oggi, ma solo la puzza dell’abisso. […]

A questo punto, un discorso particolar emerita l’opera con cui egli conclude, in rigorosa meditazione e dono della sua fede e della sua lettura dl mondo contemporaneo alla luce del Cristo, il suo itinerario filosofico e spirituale: l’opera dal titolo "Il Nuovo catechismo Antico" che potrebbe avere come motto "la fede come rationabile obsequium", la fede come ragionevole ossequio.

Il "Nuovo catechismo antico" di don Amerio, ripubblicato nel 1982 con il titolo "La dottrina della Fede", svolge l’intero arco della dogmatica cattolica con stile comprensibile all’uomo d’oggi, ma non piega mai la Verità immutabile all’opinione di chi vuole sentore solo cose piacevoli e ingannatrici. Don Franco è apostolo della Verità anche quando essa dispiace e si oppone allo spirito del secolo e confuta quanto la "nouvelle théologie" e ogni forma di modernismo è venuta narrando con danno immenso delle anime negli ultimi 50 anni. Il testo ebbe notevole eco e fu tradotto in diverse lingue. Fu l’opera prediletta di don Amerio che negli anni della malattia, dal 1973, continuò ad interessarsene appassionatamente, sentendo che quella era il suo testamento, che secondo le parole di un suo amico "non contiene solo la ricerca della Verità, ma la sicura proclamazione di una Verità — Gesù solo! — che negli ultimi anni lo ha sostenuto negli ultimi dolorosi tempi della sua malattia e che ora è la sua beatitudine immortale".»

La figura esemplare e l’opera, profonda e stimolante, di uomini come Franco Amerio, ci ricordano che non esistono "vecchie" e "nuove" teologie, ma solo "la" teologia, che non è vecchia né nuova, ma perenne, perché ispirata dalla Rivelazione; al di fuori di essa non vi sono delle teologie più aggiornate di altre, ma, semmai, delle teodicee: delle riflessioni sul divino che partono dall’umano e nell’umano si risolvono. Il che è tutta un’altra cosa.

Etimologicamente e storicamente, la teodicea è la "giustizia di Dio" (da "theos", Dio, e "dike", giustizia), cioè una riflessione sul problema del male nel mondo dal punto di vista umano, e come esso si concilia con la presenza di Dio; in pratica, la parola nasce con Leibniz e la sua opera omonima, del 1705 (anche se il concetto è già presente in Sant’Agostino, oltre che, naturalmente, nella riflessione religiosa giudaica), val a dire con il dilagare di quel razionalismo cartesiano, e post-cartesiano, che segna la frattura irreparabile tra la filosofia classica, ancora incentrata sul pensiero dell’essere, e quelle moderne, tutte fiere di aver scoperto che la metafisica, dopotutto, si può anche mettere in soffitta, perché essa ha "ritardato" il progresso del conoscere, e quel che realmente importa sono le questioni relative all’esistenza, viste non più alla luce dell’assoluto, ma a partire dalla prospettiva del soggetto.

La personalità di don Franco Amerio, come del resto quella del suo grande fratello, Romano, spicca doppiamente per lo sfondo del particolare momento storico in cui egli visse e per la chiarezza e il coraggio intellettuale con cui affermò la chiara linea della teologia cattolica tradizionale (e non "tradizionalista", come vorrebbero definirla i cattolici filo-modernisti: termine che, se accettato, equivarrebbe alla reclusione in una sorta di ghetto culturale e spirituale). Erano gli anni del post-Concilio e, subito dopo, del 1968 e dintorni: anni in cui la filosofia moderna, razionalista e materialista, era profondamente penetrata fin dentro i seminari e le facoltà teologiche, e ne era uscita sotto le mentite spoglie della "teologia negativa", della "nuova teologia" francese, del cosiddetto "esistenzialismo cristiano", per poi dare luogo, nei Paesi dell’America latina, alla "teologia della liberazione", seminando una grandissima confusione tra i credenti e, come ha osservato Paolo Risso, con immenso danno per le anime.

Come ha osservato il teologo Brunero Gherardini (nato a Prato nel 1925, vivente), «… che quasi tutti i vescovi di quel momento storico, e segnatamente gli uomini di cui si servirono per affrettare la detta maturazione, provenivano dalle università europee, dove avevano assimilato le correnti più spinte in campo filosofico e teologico: Rahner era il loro nume tutelare; Kung e Schillebeeckx esercitavano un’attrazione fatale con la rivendicazione della libertà a tutto raggio; Congar, Daniélou, Chenu, de Lubac e tutta la famiglia della Nouvelle Théologie erano i grandi maestri, oltretutto circonfusi dall’aureola del martirio loro "inflitto" da Ottaviani e da Pio XII» (aureola che ebbero anche, piuttosto a buon mercato, pure don Lorenzo Milani e diversi "preti operai", i quali, tutti presi dalla febbre di evangelizzare la classe operaia, non si erano accorti di essere stati politicizzati e marxistizzati loro, perdendo l’essenza dello spirito evangelico, cioè l’annuncio della Verità cristiana a tutti, peccatori in testa, e non ad alcune categorie a preferenza di altre).

Sbaglierebbe, pertanto, chi volesse guardare a don Franco Amerio come ad un teologo "conservatore": egli fu, semplicemente, un teologo cattolico, nella linea pura e limpida della miglior tradizione scolastica. Ora, è verissimo che la teologia cattolica non è, necessariamente, solo quella tomista (e neotomista); ma sbagliava anche, e parecchio, chi, come Henri de Lubac, conduceva una battaglia contro il neotomismo non tanto per "ritornare alle fonti evangeliche e patristiche" (e quando mai uomini come Franco Amerio se n’erano allontanati?), quanto per condurre in seno al cattolicesimo una insidiosa strategia di tipo semi-protestante: fare leva sulle "fonti evangeliche" per scalzare e scardinare, senza averne l’aria, la Tradizione, il secondo pilastro della Rivelazione, come se la sola Scrittura fosse più che sufficiente e consentisse, anzi, il ritorno ad una non meglio precisata, e alquanto demagogica, "purezza evangelica" (quasi che la teologia neotomista, e in genere la teologia pre-conciliare, avesse smarrito per strada la "purezza" del Vangelo).

Cari signori cattolici progressisti e modernisti, fatevene una ragione: finché i cieli e la terra resteranno, non cadrà nemmeno uno "iota" dalla Verità cristiana; ad onta dei vostri relativismi religiosi, più o meno travestiti da "aggiornamenti" e da volontà di dialogo con il mondo moderno…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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