
Bisognerebbe depennare dai manuali gli scrittori che non rispettano il «bello scrivere»?
28 Luglio 2015
Anthony Eden odiava l’Italia e, nel 1943, voleva vederla in ginocchio
28 Luglio 2015Il problema non sono gli impresentabili, perché tutta la politica italiana è impresentabile

L’esito delle elezioni amministrative or ora tenutesi in Liguria e in Campania illumina due aspetti importanti, speculari e complementari, del degrado ormai inarrestabile della politica italiana: da un lato, l’assoluto disprezzo dei nostri uomini politici (e delle nostre donne politiche) verso una coscienza anche minima di ciò che è politicamente e moralmente opportuno, accettabile, tollerabile; dall’altro, un disprezzo uguale e contrario da parte degli elettori. Si potrebbe dire che l’Italia ha la classe politica che si merita, e, più in generale, che il popolo italiano ha la classe dirigente che lo rappresenta nel modo più fedele. Se ai candidati manca qualunque senso di pudore e di decenza, qualunque senso di rispetto delle regole, qualunque spirito di servizio e di dedizione al bene pubblico, gli elettori, da parte loro, hanno mostrato altrettanta insensibilità, altrettanta indecenza, altrettanta sfrontatezza nello scegliersi i loro rappresentanti.
In un Paese serio, quale l’Italia continua a non essere, non vi è alcun bisogno di compilare una lista di candidati "impresentabili": chi è impresentabile, non si presenta, punto e basta, se non altro perché non trova uno straccio di partito disposto a candidarlo, per quanti voti egli possa portare con sé; oppure, se riesce, chi sa come, a presentarsi, viene immediatamente spazzato via dal giudizio delle schede elettorali, che non fanno sconti ai personaggi disonesti, o troppo furbi, o troppo chiacchierati, e, insomma, inadeguati, per una ragione o per l’altra.
Va da sé che, in un Paese serio, non c’è alcun bisogno di arrivare fino alla condanna in tribunale, e sia pure di primo grado, per distogliere anche il politico più smanioso di potere e di successo, dal candidarsi alle elezioni; è sufficiente l’ombra del sospetto; e va da sé che, in un Paese serio, non si verifica alcuna levata di scudi "garantista", né si sentono discorsi come quello che qualunque cittadino deve essere ritenuto innocente fino alla condanna definitiva in terzo grado. Prima di tutto, perché l’Italia l’unico Paese, fra quelli che contano una certa tradizione giuridica e democratica, ad avere tre gradi di giudizio (con i tempi lunghissimi e con le spese che ne derivano, ma anche con la sospensione di certezza giuridica che ne è l’inevitabile effetto); secondo, perché colui che si candida alla vita politica è un signore che chiede un ampio mandato ai propri concittadini, e tale mandato comprende il potere di disporre di denaro pubblico: va da sé, pertanto, che non è un cittadino qualsiasi, e che la presunzione di innocenza, che vale per il cittadino qualsiasi, non può valere per il cittadino pubblico, che pretende di rivestire incarichi istituzionali e che si accinge a governare la cosa pubblica, nell’interesse, ovviamente — almeno si spera — dei suoi concittadini, e non di se stesso, o dei propri familiari, o dei propri amici.
Della signora Raffella Paita, del suo chiacchierato marito, del fatto che è indagata per l’alluvione del 2014 e discussa per le elezioni primarie interne al Partito democratico, della sua inadeguatezza all’epoca dell’alluvione di Genova, della sua contiguità con il precedente governatore Burlando, che le ha spianato la strada in una maniera, a dir poco, stupefacente, senza che nessuno abbia ben capito donde venissero tanta stima, tanta fiducia, tanta presunzione di competenze specifiche che la signora, forse, non ha, o non ha nella misura necessaria a ricoprire la carica di assessore regionale, per non parlare di quella di governatore, è stato detto abbastanza; come pure della sua personale arroganza, della sua inconsistenza e mancanza di spessore, della sua smodata ambizione, della sua tendenza a evitare il confronto con chi potrebbe contestarla o metterla in crisi. Una perfetta donna in carriera, renziana d.o.c., speculare a tante altre donne in carriera, ma di diversa parte politica, già viste (anche troppo) negli ultimi due decenni.
Quello che resta da capire è come mai un partito, che si dice rappresentante del senso della legalità e paladino della lotta alla corruzione, abbia ritenuto opportuno insistere nella sua candidatura, anche se molte erano le perplessità emerse e anche se si profilava chiaramente una sconfitta elettorale, dovuta non tanto alla forza dei partiti avversari, quanto alle laceranti divisioni provocate, nel proprio schieramento di riferimento, appunto da quella candidatura. Sarebbe questo, dunque, il nuovo che avanza? Ahimè, come somiglia all’antico: nei suoi riti, nelle sue logiche perverse e incomprensibili, nella sua mancanza di chiarezza e trasparenza, nei suoi silenzi assordanti, nelle cose non dette e tuttavia evidenti, che ingombrano, come altrettanti macigni, la strada verso una maniera realmente nuova di fare politica e d’intendere la politica stessa.
Il caso De Luca, in Campania, è ancora più paradossale: una di quelle situazioni che fanno sospirare gli osservatori internazionali, i giornalisti stranieri e tutti coloro che riescono a guardare le cose con un minimo di distacco e di obiettività. Come è possibile candidare alla guida di una regione — e che regione!, quella della terra dei fuochi, della camorra, della corruzione e della disoccupazione dilaganti — un signore che è già stato condannato per abuso d’ufficio e che non si sa nemmeno se potrà, una volta eletto, dare vita a una nuova giunta regionale ed entrare nell’esercizio delle proprie funzioni? Questo significa giocare al Lotto; questo significa mettersi sotto i piedi ogni senso di legalità, ogni senso del ridicolo, ogni rispetto per il proprio Paese, anche nei confronti del resto del mondo. E tutto questi per guadagnare un pugno di voti a livello locale?
È stato uno spettacolo a dir poco pietoso, per non dire grottesco, quello degli equilibrismi verbali e concettuali che i dirigenti del Partito democratico, Renzi in testa, hanno dovuto fare per ostinarsi a portare avanti la candidatura di Vincenzo De Luca: abbiamo sentito di tutto, dalle petizioni di principio agli slogan astratti e petulanti («Noi siamo il partito che ha lottato con i fatti contro la corruzione!»), fino alle rassicurazioni paternalistiche di tipo personale («Io so, noi sappiamo bene, che De Luca è una bravissima e degna persona»): come se, in un Paese serio, i candidati alle elezioni si dovessero giudicare in base alle garanzie morali proclamate dai loro amici (interessati) e non in base a ciò che dicono i fatti; cioè, in un caso come questo, dalla sua fedina penale. Si è anche sentito dire che la legge Severino è sbagliata, che sarebbe da rifare: e se ne sono accorti adesso? Cioè: se ne sono accorti nella imminenza delle elezioni, con De Luca scalpitante per candidarsi a governatore della Campania, contro tutti e contro tutto?
Ed è da un governatore come lui che ci si dovrebbe aspettare uno scatto di orgoglio affinché quella disgraziatissima regione ritrovi il senso della legalità, e i cittadini recuperino un minimo di fiducia nella pubblica amministrazione? Via, cerchiamo di essere seri. Mettiamoci, per un istante, nei panni di un osservatore esterno: di un corrispondente di qualche giornale tedesco, o francese, o britannico: che cosa penseranno e, soprattutto, come spiegheranno queste strane cose che accadono in Italia, ai lettori dei loro rispettivi giornali? Finché non usciremo da questo inguaribile provincialismo, da questa soggettività etica e politica che confina con il solipsismo e con l’auto-accecamento, l’Italia non diventerà mai un Paese normale; gli imprenditori stranieri non verranno mai ad investire da noi, se non per fare razzia di quel che ancora ci resta di appetibile: un Paese poco serio non attira imprenditori seri, ma sciacalli e avvoltoi desiderosi di bottino.
Come si esce da una situazione del genere? Ammesso che se ne possa uscire, quel che ci serve è una ricostruzione morale della società, e, dunque, anche della pubblica amministrazione e della politica. I nostri amministratori e i nostri politici riflettono quel "deficit" di cultura, e soprattutto di etica, che si è accumulato in Italia negli ultimi quattro o cinque decenni: il nostro ritardo, rispetto agli altri Paesi del mondo industrializzato, parte da qui. Prima ancora di essere un ritardo del sistema finanziario, dell’apparato produttivo, della rete commerciale, della sfera giuridica, della scuola, dell’università, dello sport, è un ritardo di natura etica: siamo rimasti fermi a una concezione opportunistica e parassitaria della vita sociale. Alberto Sordi nel film «I magliari» è ancora il modello, largamente negativo, furbesco, irresponsabile, cinico, cialtrone, in cui si riflette una certa maniera italiana di fare impresa, di fare politica, di fare cultura.
Attenzione; non vogliamo dire che gli Italiani siano tutti così: vogliamo dire che lo stanno diventando, a grandi passi, da quando sono saltati i paletti del quadro etico e religioso nel quale si erano formati i nostri nonni, autori dell’ultimo grande "exploit" dell’Italia nel mondo: lo spettacolare sviluppo degli anni Cinquanta, quando la lira era una moneta fortissima, quando il debito pubblico era azzerato, quando la parola di un uomo d’affari, di un politico, di un professionista, di un sacerdote (sì, di un sacerdote) valeva ancora qualcosa, ed era presa sul serio anche fuori del nostro Paese.
Quei tempi sono passati e la generazione presente non è stata all’altezza del ruolo che l’Italia sembrava candidata a svolgere nel concerto delle nazioni. Non sembra essere nemmeno all’altezza di una civile convivenza al suo interno: perché una società in cui la legge è calpestata ogni giorno; in cui lo stato e cittadini giocano una eterna partita fatta di sfiducia, disprezzo, furbizia e mala fede reciproca; in cui chi produce, chi rispetta le regole, chi contribuisce al bene comune, si vede castigato, ostacolato, penalizzato in mille modi, mentre chi fa il parassita, lo sciacallo, il prepotente, il cialtrone, viene premiato e si vede spianata la strada verso le posizioni più prestigiose e meglio remunerate, ebbene una simile società corre verso il disastro e si sta già decomponendo, pezzo dopo pezzo, prima ancora che qualcuno prenda atto della sua fine.
La società italiana sta morendo: per riportarla in vita ci vorrebbe quasi un miracolo. Noi, però, crediamo ai miracoli, come la tradizione religiosa del nostro Paese ci ha insegnato. Non ai miracoli fasulli dei magliari, dei furbetti, dei disonesti, che promettono tutto a tutti e che avanzano sui cadaveri delle speranze e dei diritti altrui; ma ai miracoli veri, quelli che nascono dalla coscienza morale, dallo spirito di sacrificio, dalla consapevolezza di sé e degli altri. Forse non è troppo tardi; ma ci occorrono fatti, non parole. Ci occorre un soprassalto di fierezza, di dignità, di onestà e di dedizione a un ideale più alto che non sia una carriera facile, da raccomandati, da spiriti meschini bramosi solo di soldi e di potere, e che non si vergognano di addebitare alla comunità le loro spese private per i ristoranti, per gli alberghi, per i viaggi, per le feste con gli amici. C’è un vuoto, un deserto morale, che bisogna riempire, che bisogna colmare: c’è da rifondare il senso etico nella nostra società, a cominciare dalla prima società in assoluto: la famiglia. I genitori devono smetterla di fare gli amiconi dei loro figli e devono tornare a fare i genitori: soprattutto, devono ricominciare a dare dei buoni esempi. Molti non hanno mai smesso di farlo; ma molti, bisogna pur dirlo, hanno perso la bussola, accecati dalle luci scintillanti del consumismo e della mentalità, tanto egoica quanto puerile, del "tutto e subito".
È da qui che dobbiamo ripartire: dalle famiglie, dalle scuole, dalle parrocchie, da tutti i luoghi dove si fa vita sociale e dove si forniscono modelli di vita ai giovani. Ma chi si farà carico di questa rinascita, di questa ricostruzione morale, dopo tante macerie, tanti scandali, tanti cattivi e pessimi esempi? La risposta non può essere che una:se ne faranno carico i giovani di oggi, che saranno gli adulti di domani. Ma non possono farcela da soli, se nessuno li ha formati e preparati secondo certi valori, secondo certi modelli educativi: hanno bisogno del nostro aiuto. Gli adulti e i nonni, oggi, hanno qualcosa di più (e di meglio) da fare, che non accudire i nipotini, mentre i loro genitori sono a lavorare: questo può farlo anche un asilo nido, o una baby-sitter. Gli adulti e i nonni di oggi devono tornare ad essere, per i giovani, quello che sono stati, fino a due o tre generazioni fa, i loro genitori e i loro nonni: dei modelli positivi e degli esempi di vita quotidiana, di affettività familiare, di laboriosità e onestà professionale.
Forse, in questo modo, fra un paio di generazioni avremo anche una classe politica decente; così come avremo degli amministratori pubblici, dei professionisti, degli commercianti, degli artigiani, degli insegnanti, dei sacerdoti un po’ migliori, mediamente parlando, di quelli che ci sono in circolazione oggi. E forse allora, ma solo allora, l’Italia, come nazione, potrà ripartire veramente; e non limitarsi ad inseguire il miraggio di una "ripresina" che dovrebbe venirci da circostanze tutto sommato esterne, e che sarebbe, comunque, effimera, anche perché solo di tipo materiale: mentre quel che ci serve è innanzitutto una ripresa morale.
È la dimensione spirituale, di cui fa parte la vita etica, che comprende quella materiale, e non viceversa. Ce n’eravamo dimenticati: ora è tempo di ricordarcene…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash