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Il presupposto della concezione estetica di A. L. Borgés è l’idealismo di G. Berkeley

Se l’essere equivale, come affermava George Berkeley, all’essere percepito, allora tutto ciò che viene percepito rientrare nella categoria dell’essere, senza distinguere se ciò che viene percepito esiste in sé e per sé, o se esiste solo per colui che lo percepisce; anzi, a rigore, questa distinzione viene a cadere, perché non ha più senso domandarsi se qualcosa esista in se stessa, indipendentemente dal fatto di essere percepita.

Questo, almeno, sul piano della realtà finita e delle menti finite; al di sopra del quale vi è, tuttavia, Dio, mente infinita, in cui tutte le menti sono pensate, e all’interno delle quali viene pensato tutto ciò che esse percepiscono, e dunque tutto ciò che, per loro, esiste. Ed è chiaro che questa precisazione è indispensabile: senza di essa, il sistema di Berkeley diviene insensato: se non vi fosse Dio, che pensa le menti finite, non si capisce da dove verrebbero alle menti le loro percezioni, a meno di immaginare che il mondo, così come ci appare, non esista che a intermittenza, nei momenti nei quali lo vediamo e ne facciamo esperienza, per poi diventare nulla mentre dormiamo, o mentre siamo impegnati in altre cose, e non percepiamo gli oggetti che lo compongono.

Ebbene: il mondo dello scrittore argentino Jorge Luis Borges (nato a Buenos Aires nel 1899 e spentosi a Ginevra nel 1986) è un mondo che rimanda fortemente all’idealismo berkeleiano, ma, cosa notevole, anche se non molto spesso evidenziata, senza quel presupposto, logico e ontologico, che, per il filosofo inglese del XVIII secolo, è Dio, la Mente Infinita che pensa tutto il reale e che, pensandolo, gli conferisce una qualche forma, e sia pure provvisoria, di esistenza. Ora, proprio da tale omissione, o, per dir meglio, da tale trascuratezza, da tale agnosticismo, deriva al mondo di Borges il suo carattere allucinatorio, onirico, impalpabile, virtuale, illusorio: perché l’idealismo, privato dell’Idea fondamentale, che è Dio, ci lascia in eredità un mondo ingannevole e impazzito, stralunato, nel quale ciascuno insegue i propri sogni e le proprie illusioni, ma senza percepirne il carattere elusivo ed evanescente: per cui, come in Pedro Calderon de la Barca («La vita è sogno») e come nell’ultimo Shakespeare («La tempesta»), la vita assume l’aspetto, inquietante e perfino angoscioso, di una incomprensibile ed evanescente commedia, nella quale non si sa mai cosa sia realtà e cosa fantasia, illusione, inganno.

I temi più frequenti, nella letteratura fantastica di Borges, sono gli slittamenti temporali; le realtà parallele; il doppio; nonché la biblioteca ed il libro come luoghi di un sapere misterioso, magico, mediante il quale è possibile accede ad altri piani di realtà; ma il motivo di fondo più frequente, e quasi incessante, è quello della impossibilità, pirandelliana (e sveviana), di discerne verità e menzogna, e, dunque, dell’ambiguità della letteratura, come luogo della finzione per eccellenza, e anche come luogo della contraffazione della vita, quasi della sua ri-creazione, essendo lo scrittore, in fondo, quasi un mago onnipotente per i suoi personaggi, capace di crearli e distruggerli, nonché di guidarli attraverso i labirinti del reale.

Come per Ariosto, infatti, anche per Borges la realtà è labirintica; e, come per Ariosto, il labirinto è sia la cifra della complessità del reale, sia il luogo dell’"errore", cioè dello smarrimento, più o meno volontario, e, forse, dell’abbandono dell’io ad una realtà "altra". E qui si attua anche la convergenza fra Borges e Calvino: come per Calvino, infatti, il labirinto (ma anche lo specchio, la scacchiera, la biblioteca) è lo strumento letterario atto a riprodurre l’estrema complessità del reale, ma anche il luogo della "tentazione" di nascondersi e di non uscire più, abbandonandosi alla sua misteriosa magia (si confronti anche un verso de «I Mari del Sud» di Cesare Pavese, in cui si parla di un bambino che, giocando a nascondino, si nasconde entro una siepe e si dimentica poi di uscirne; un po’ come Cosimo Piovasco di Rondò, ne «Il barone rampante», decide di non scende più dagli alberi, sui quali è salito quasi per gioco).

E così come Ariosto gioca sul doppio significato del verbo "errare", sia nel senso di andare senza meta, sia di allontanarsi dalla verità, così Borges ama giocare sul significato di altre parole-chiave, prima fra tutte "inquisire": perché l’"inquisizione" è la ben nota istituzione creata per reprimere l’eresia, da parte della Chiesa cattolica, ma anche l’atto dell’inquisire, cioè del ricercare, e, più precisamente, del ricercare la verità. Suprema ambiguità del reale, appunto: impercettibile è la linea di separazione fra la ricerca della verità, legittima e fondamentale aspirazione dell’anima umana, e l’imposizione violenta della propria verità a tutti gli altri. Ogni inquisitore è un po’ un fanatico, almeno in potenza; e ogni fanatico è anche un inquisitore. La realtà ha sempre due facce (perlomeno) e ogni tentativo di semplificarla equivale ad una forzatura, ad un vero e proprio stravolgimento della verità.

Questo punto è stato sufficientemente chiarito da Cesco Vian nella sua monografia «Invito alla lettura di Borgés», Milano, Mursia, 1980, pp. 43-44):

«"Inquisiciones", molto borgesiano nel titolo semi-umoristico (gioco intellettuale sul doppio significato del vocabolo, quello letterale e quello storico), destò subito due echi importanti in Europa: le elogiose recensioni di Valéry Larbaud — il benemerito "neolatinista" francese che scoprì anche Italo Svevo — e dell’umanista dominicano Pedro Henriquez Ureña, che insegnò a Buenos Aires e fu uno dei pochi amici "accademici" di Borges; pubblicate la prima nella "Revue Européenne" di Parigi (dicembre 1925), la seconda nella grave "Revista de Filologia española", diretta a Madrid da Ramon Menendez Pidal (XIII, 1926).

"È il miglior libro di critica che abbiamo ricevuto, fino ad oggi, dall’America latina", cominciava l’acuto francese, e addirittura "l’inizio di una nuova epoca nella critica argentina", dovuto al "più moderno dei poeti di Buenos Aires, vale a dire di quelli che esperimentano poeticamente la vita quotidiana e il paesaggio" di quella città. "Per molto tempo gli intellettuali dell’America Latina, discepoli incoscienti di Simon Bolivar, si sentirono soddisfatti degli elementi della cultura puramente francesi, o nel migliore dei casi franco-spagnola"; mentre ora, grazie a Borges, entrano nel loro ambito culturale anche le letterature inglese, tedesca e italiana. Borges, però — termina la breve e densa nota — non è "un semplice erudito", in quanto "possiede una teoria estetica… quella che ha la propria base nell’idealismo di Berkeley e nega l’esistenza dell’io e dei suoi prodotti, il tempo e lo spazio. La poesia è "divina", nel senso che è un puro presente, un’eternità. Borges parte di qui per combattere il sentimento romantico del Mistero e gli epiteti negativi "ineffabile", ecc.).

Più professorale, ma non meno intuitivo, Henriquez Ureña osserva che Borges, "poeta d’avanguardia, secondo la parola di moda", unisce nel suo libro "disquisizioni filosofiche e letterarie", secondo un orientamento "nuovo in castigliano, verso la stilistica", e due lavori su autori dei secoli XVII e XVIII, Quevedo e Torres Villaroel: studi tutti d"di valore singolare per la loro qualità e rarità" e per l’importanza attribuita, in poesia, alla parola e alla metafora, "problema centrale per il gruppo ispanico dell’Avanguardia", non tanto però da non avvertire che "le immagini non sono il limite dell’espressione, e che ogni tecnica di esse degenera fatalmente in retorica".Il recensore critica, infine, "l’insufficienza delle osservazioni (di Borges sul Concettismo e il Gongorismo), mentre sembra elogiare la sua volontà di definire, di là dallo stile dei singoli autori, "i caratteri, lo spirito dei popoli e dei luoghi" e in concreto "l’espressione criolla dell’America".

Osservazioni indubbiamente fondate, nell’un caso come nell’altro; sebbene nessuno dei due recensori rilevi la sommarietà e persino, talvolta, la superficialità degli articoli borgesiani, forse per simpatia o amicizia personale. Abbastanza singolare anche il fatto che nessuno dei due eccellenti letterati abbia visto (Valéry Larbaud l’intravvede appena) la decisiva prevalenza, in "Inquisiciones", degli interessi inglesi.

L’influenza dell’idealismo berkeleiano era già considerevole, come vide il critico francese, in Borges (importante correttivo, se non altro, al positivismo spenseriano ch’era statola base degli insegnamenti paterni); ma più importante ancora era il saggio dedicato a un libro inglese che Borges doveva poi ricordare e citare a lungo, segno certo della profonda impressione che lasciò in lui: la "Religione Medici", di Thomas Browne (1642). Assai prima di scoprire un’altra grande ed esemplare "anima sorella", Montaigne, Borgés ammirava — "Inquisiciones", appunto, lo documenta — i grandi saggisti inglesi, da Bacone ad Addison, dal puritano Bunyan, adorabile nella sua "sancta simplicitas", al biblico Milton, non meno grande prosatore che poeta, ma forse nessuno quanto il medico-umanista Browne, insieme medievale (credeva ancora nella simbologia della natura), secentesco per la sua predilezione per i ragionamenti sottili e persino alquanto sofistici, e moderno, nella sua passione metafisica e antropologica che lo spinse, fra i primi in Europa, a "esplorare l’allora malnota regione dell’io cotidiano, quell’io che è sede di fuggevoli pensieri, di singolarità di gusto e di sentimento" (M. Praz): uno spirito raro, dunque, introverso e acuto, che non poté non apparirgli fraterno.»

Ora, tornando al nostro assunto iniziale, è chiaro che il mondo di Borges è un mondo "borgesiano" (come quello di Pirandello è, o finisce per diventare, "pirandelliano") precisamente nella misura in cui l’uscita dal labirinto viene resa difficile, o impossibile, non tanto dall’azione di fattori esterni, ma dalla strana, segreta attrazione che la realtà del labirinto esercita su coloro che si accorgono di esservi penetrati (perché, quanto al mero FATTO di penetrarvi, nessuno può vi si può sottrarre, dal momento che il labirinto è la vita stessa): proprio come, nel palazzo del mago Atlante, i cavalieri di Ludovico Ariosto finiscono per trattenersi volontariamente, e sia pure per l’effetto dei loro inganni e delle loro illusioni.

Ma perché, ci si potrebbe chiedere, il labirinto, che pure suscita inquietudine e angoscia, tende anche ad attrarre, e sia pure segretamente, e induce coloro che vi si trovano a non avere poi tanta voglia di uscirne? Sul piano strettamene psicologico, si potrebbe rispondere che il labirinto offre pur sempre una forma di protezione: come la nebbia, come la siepe (si pensi a tante poesie del Pascoli), il labirinto impedisce di uscire, ma rende difficile anche l’essere trovati: stando al suo interno, si è comunque "difesi" dal mondo esterno, il quale, se pure esiste (il mondo che si trova al di là del "muro", in «Meriggiare pallido e assorto» di Montale), non è detto che sia ospitale, potrebbe anche rivelarsi una tremenda delusione, rispetto alla quale la realtà asfittica, ma protetta, del labirinto, appare quasi rassicurante, o, comunque, come il male minore («Io vivere vorrei addormentato / entro il dolce rumore della vita», recita una bellissima poesia di Sandro Penna).

Siamo sempre lì, alla domanda cruciale del signor K. ne «Il processo» di Franz Kafka: finché non sappiamo esattamente di che cosa siamo accusati, forse è meglio non spingersi al di fuori del terreno conosciuto, fosse pure il labirinto che ci tiene prigionieri: non è il male, ma il timore del male, ciò che fa maggiormente paura, una volta che il meccanismo dell’incanto si sia spezzato e che le nostre vite giacciono gettare alla rinfusa, in un mondo senza ordine, né senso. Non è un caso che, nei romanzi e nei racconti di Borges, manchino, o siano così avari ed ambigui, i riferimenti storici e temporali, nonché quelli geografici: l’unico tempo che conta è quello soggettivo ("esse est percipi", appunto) e l’unica realtà che conta è quella della "recherche" interiore, dell’inchiesta all’interno di se stessi; e come stupirsi che la realtà sia labirintica, se noi stessi vaghiamo incessantemente, con moto circolare, attorno al nostro io, senza mai riuscire ad afferrarlo?

Il mondo borgesiano è parente di quello kafkiano proprio perché, in esso, il meccanismo del senso si è infranto, insieme all’incanto per le cose: e le cose, abbandonate a se stesse, fluttuano come in una nebbia, ove è impossibile distinguere il vero dal falso, la realtà dall’illusione.

In senso filosofico, la domanda sul perché il labirinto eserciti un così potente fascino segreto su quanti vi si trovano imprigionati, rimanda direttamente alla questione che avevamo posta all’inizio: al venire meno, cioè, di una istanza superiore — Dio — che si faccia garante tanto dell’ordine delle cose, quanto della loro bellezza, sensatezza e verità. Se Dio non c’è, ragiona Ivan Karamazov, allora tutto è lecito: anche scambiare la serietà della vita, alla ricerca del Vero, per una commedia senza soggetto, per una mascherata di dubbio gusto e d’incerto significato, nella quale (come si vede in Umberto Eco) tanto vale giocare con tutto, visto che nulla offre un terreno solido sotto i piedi…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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