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Il pensiero di Sorel è di destra o di sinistra, pre-moderno o anti-moderno?

Il pensiero do Georges Sorel (nato a Cherbourg nel 1847 e spentosi a Boulogne-sur-Seine nel 1922) è, da sempre, la croce e la delizia di quegli studiosi di storia e di quei filosofi della politica che non riescono a restarsene tranquilli, finché non siano riusciti a completare la loro mappa mentale con la giusta etichettatura di ogni cosa.

È la stessa razza di persone, per intenderci, che si tormenta nel dilemma se qualificare Mussolini, senz’altro, come un uomo politico di destra, anzi, come il fondatore della destra moderna, o se non si debba ammettere, in lui, anche l’esistenza di una componente di sinistra, se non altro per la sua lunga e battagliera militanza nell’estrema sinistra del Partito socialista, oltre che per gli aspetti sociali del fascismo repubblichino, tendenti alla socializzazione (Manifesto di Verona) e per la presenza accanto al Duce, fino all’ultimo istante — cioè fino al plotone d’esecuzione — d’un vecchio militante comunista, come Nicola Bombacci.

Ebbene, basterebbe che quelle persone risalissero a uno degli indiscussi e dichiarati modelli e maestri di Mussolini, il francese Georges Sorel, le cui «Considerazioni sulla violenza» (1908) tanto influenzarono gli orientamenti del sindacalismo rivoluzionario, per rendersi conto che il problema di "catalogare" ideologicamente Sorel – come, del resto, quello di "catalogare" ideologicamente Mussolini — è un falso problema: perché la stessa ambiguità, o, se si preferisce, la stessa ambivalenza ideologica, contraddistingue, appunto, un po’ tutto il sindacalismo rivoluzionario, europeo ed italiano (si pensi all’impresa di Fiume e alla Carta del Carnaro del 1920, scritta materialmente da Alceste De Ambris e rielaborata da D’Annunzio); e, come se non bastasse, che essa si estende anche al di fuori dell’ambito del sindacalismo rivoluzionario, e investe gran parte del socialismo della II Internazionale.

Il fatto è che la cultura ancor oggi dominante, erede di quella tardo-ottocentesca e del primo Novecento — la cultura del positivismo, con tutti i suoi annessi e connessi: evoluzionismo e psicanalisi -, con le sue chiare (fin troppo!) e rigide categorie concettuali, con la sua (esagerata) fiducia nei fatti concreti e obiettivi, nei fatti verificabili e quantificabili, non possiede, alla lettera, gli strumenti intellettuali per capire sino in fondo le ambiguità, o piuttosto le ambivalenze, di quel periodo storico: né in letteratura (è buffo vedere i soliti noti continuare a scandalizzarsi per la supposta "involuzione" nazionalista di un quasi-socialista come Pascoli; per non parlare di Carducci, poi!), né in filosofia (quanti grattacapi, ma sì, diciamolo pure: quanti fastidi, per etichettare uno come Nietzsche: di destra, di sinistra, o cosa?), né, appunto, nel pensiero politico (che cosa è stato il fascismo? come spiegare i suoi cambiamenti, da Piazza San Sepolcro ai Patti Lateranensi, per esempio?; e come mai perfino il nazismo ha sentito il bisogno di muovere i primi passi come «nazionalsocialismo, ossia come socialismo nazionale?»).

La verità è molto diversa da come oggi, con il senno di poi (che è, in ultima analisi, il senno dei vincitori del 1945), si pretende di rappresentarla. Che dire, ad esempio, di un Leandro Arpinati: fascista della prima ora, poi un pezzo grosso del regime, indi espulso dal P.N.F. e mandato al confino; amico di noti esponenti della costellazione antifascista; infine ucciso dai partigiani comunisti, durante la guerra civile, con sdegno e incredulità di molti esponenti dell’antifascismo? E che dire di quel Tullio Cianetti, Ministro delle corporazioni, che un uomo di destra non era mai stato, e che anzi aveva spinto le sue tendenze rivoluzionarie al punto di servirsi delle squadre d’assalto per far bastonare gli agrari più reazionari, contrariamente a quel che dice la Vulgata corrente? Potremmo continuare a lungo e citare decine e decine di nomi di personaggi, sia fascisti che antifascisti, ai quali va stretta, strettissima, l’etichetta di "destra" e "sinistra".

Prendiamo il caso dei fratelli Bergamo, di Montebelluna (in provincia di Treviso), Guido e Mario, e specialmente di quest’ultimo: socialista e antifascista, poi emigrato in Francia, invitato a rientrare da Mussolini all’epoca della R.S.I., non lo fece; nondimeno, dopo la fine della guerra, rifiutò di tornare in Italia, non riconoscendo alla Repubblica, nata nel 1946, né validità morale, né politica, per il fatto di non aver voluto assumere sino in fondo il significato di quanto era avvenuto nel precedente ventennio. Di Mario Bergamo esiste anche un libro, «Nazionalcomunismo» (raccolta di scritti scelti, editi e inediti, apparsa nel 1965, sue anni dopo la morte), che è tutto un programma; certo non era un uomo che giocasse con le perifrasi: quale intellettuale di sinistra – com’egli era, dai più, considerato, e assai rispettato – oserebbe esprimere un simile concetto politico, e adoperando una simile terminologia, ai nostri giorni?

Si resterebbe stupidi, peraltro, se si passasse in rassegna, con mente libera da pregiudizi, l’insieme degli scritti dei maggiori esponenti della sinistra di quegli anni, da Antonio Labriola a Gramsci (come ha fatto l’ottimo Enrico Landolfi nel suo saggio «Rosso imperiale», edito da Solfanelli nel 1992) e si verificasse con quale frequenza ricorrono, in essi, temi e spunti che, secondo la divisione manichea oggi data per scontata, dovrebbero, invece, appartenere alla destra (basti dire dell’influenza di Sorel su Gramsci). Perfino il tema più inviso alle sinistre, il colonialismo, è trattato da molti esponenti socialisti, tra l’epoca di Crispi e quella di Mussolini, con una disinvoltura e con un possibilismo, che sfociano, talvolta, nell’aperta adesione. Il culmine di questa tendenza fu raggiunto nel 1935-36, con la guerra d’Etiopia, con le sanzioni della Società delle Nazioni contro l’Italia, e, infine, con la proclamazione dell’Impero. Ce ne furono, allora, di socialisti e di antifascisti, perfino tra quelli emigrati all’estero, che chiesero e supplicarono di rientrare, e che si affrettarono a congratularsi con il Duce per aver felicemente condotto a termine l’impresa africana, a dispetto delle potenze capitaliste («plutocratico-massoniche»)!

Ma tutto questo, dopo il 1945, è stato semplicemente rimosso: i "vincitori" (o coloro che tali s’immaginarono di essere) e che per tali si pavoneggiarono ampiamente, come altrettante mosche cocchiere, dimenticando che di vincitori ve ne furono due soli: Wall Street e il compagno Stalin) non volevano aver più niente a che fare con i vinti; e, come nei cattivi romanzi polizieschi, fecero del loro meglio per far sparire le tracce dei loro trascorsi più compromettenti.

Ciò detto — ma questa premessa, a nostro avviso, era assolutamente necessaria -, torniamo al nostro buon Georges Sorel.

Particolarmente acuta e penetrante ci è sembrata l’analisi fatta da uno studioso di orientamento cattolico, Giuseppe L. Goisis, a proposito della "polivalenza" del pensiero di Sorel, di cui riportiamo una pagina centrale (da: Giuseppe L. Goisis, «Sorel e i soreliani. Le metamorfosi dell’attivismo», Spinea, Venezia, Edizioni Helvetia, 1983, pp. 24-26):

«La sua condizione di "uomo etico", infatti, e la sua posizione  di indagatore solitario lo rendevano un "outsider" di eccezione, lo collocavano, istintivamente,  sull’onda della colera dei poveri e dei proletari,  conducendolo a simpatizzare per la rivolta, quella più pura ed ideale, di quanti lottavano contro un assetto sociale ingiusto e soffocante, dominato dall’ipocrisia e dalla religione del procacciarsi denaro; ma, d’altro canto, il culto del lavoro ben fatto e dello sforzo, l’individualismo spiccato, che non trova che una temporanea  identificazione con i movimento sociali, di massa, il radicato idealismo, che lo porta a minimizzare, se non a misconoscere, l’importanza delle conquiste materiali quotidiane ed infine la profonda severità ed il "catonismo" morale, frutto della prima educazione cattolica di stampo quasi giansenista, sono tutti elementi che raccordano Sorel alla "destra" francese tradizionale, che si muove in un orizzonte "antimoderno" e fa propri gli antichi ideali dell’ethos cavalleresco, "in primis" quelli di fedeltà e di on ore.

In particolare, il dissidio si manifesta tra quella faccia  dell’opera soreliana che guarda in avanti, che scruta con attenzione non scevra di simpatia il moderno  industrialismo, l’ascesa della civiltà delle macchine e il vigoreggiare dei movimenti d’autoemancipazione, e quella faccia che rimira, con segreta ma cocente nostalgia,  i fieri costumi del passato, i sobri ed operosi  "mores" delle età preborghesi. A quest’atteggiamento di rimpianto lo sospinge una vena persistente di "conservatorismo morale", che lo connette, per mille fili tenaci, alla tradizione della Francia artigiana e contadina; è quest’intimo legame, tanto più forte quanto meno dichiarato, che trae indietro Sorel nell’apertura alla multiforme  e seducente realtà del mondo moderno, che smorza la sua ammirazione verso il mondo operaio.

La questione delle due anime – quella premoderna e quella antimoderna – che si agitano ed entrano in dissidio nel’opera di Sorel, è la questione stessa del movimento operaio francese, o meglio di alcuni esponenti di una parte consistente di esso: Proudhon, Péguy e […] Mounier.I oro legami col movimento operaio li conducevano all’opposizione più netta nei confronti della società borghese ad un inesauribile spirito di rivolta; ma la loro profonda adesione, anche in coincidenza con la moralità tradizionale, con l’idea tradizionale di uomo li sospingeva verso le teorie e gli ambienti della "destra"m, li sospingeva irresistibilmente a mescolarsi con gli uomini della "destra". Perché, in verità,  essi erano uomini molto simili, anzi erano gli stessi tipi di uomini; avevano in comune molto più che un’idea di uomo, che è già un fattore decisivo: avevano in comune la dimensione profonda, simili propensioni culturali, un analogo modo di sentire e di agire, "categorie" intellettuali simmetriche e corrispondenti. Bergson, maestro sia di Péguy, sia di Sorel,  aveva spiegato a sufficienza che ciò che conta non è l’uomo superficiale, con quel che crede di credere, quel che dice  o scrive secondo gli imperativi più estrinseci del suo ambiente, ma l’uomo "profondo", quell’io più vero che si manifesta solo a tratti,  rotta la scorza degli automatismi e delle abitudini, quello sconosciuto in noi stessi che l’educazione  e l’esempio hanno modellato compiutamente. […]

Ma il valore esemplare di Sorel è che la sua opera illustra in modo lampante, su questo punto, le stesse contraddizioni e tensioni presenti  in una parete rilevante del socialismo francese. Romanticismo rivoluzionario, malessere e disagio profondo  nei confronti della moderna società dell’intermediazione,  dell’informazione diffusa, degli affari,  della politica di massa; amore per un tipo  d’uomo che incarna un potere di semplificazione e di decisa risolutezza e, quindi, la propensione per "sblocchi" rapidi e violenti di situazioni complesse: sono tutti tratti  che unificano, davvero in profondità, il ribelle per amore di ordine, di un ordine più antico, "di destra" ed il rivoluzionario "di sinistra".

A Sorel capitò, e ciò è, a mio avviso,  straordinariamente interessante,  di essere non soltanto il tratto di unione  tra ambienti estremisti connotati come "di destra" e "di sinistra", ma di incarnare in se stesso le esigenze dei due ambienti, di viverle indissolubilmente intrecciate.»

In conclusione. Georges Sorel fu uomo del suo tempo: tempo di crisi e di ambivalenze (egli stesso conobbe l’esperienza del declassamento). Ambivalente fu il suo atteggiamento verso la modernità: da un lato, di sincera ammirazione per la civiltà delle macchine (egli stesso era ingegnere civile), e questo è l’aspetto "positivistico"; dall’altro di diffidenza verso il mondo moderno, urbano, disgregato, anonimo (oggi diremmo, con Zygmunt Bauman: "liquido") e di ardente nostalgia per quello pre-moderno, quello dell’agricoltura e dell’artigianato, proprio come in Proudhon.

Come Gustave Le Bon (l’autore del saggio «Psicologia delle folle») vedeva che il "popolo" si era trasformato nella "massa", una massa agitata, inconsapevole, preda di tutte le suggestioni, facilmente manipolabile: ne era angustiato, ma anche deciso a trarne tutte le conseguenze politiche. Il suo contributo al sindacalismo rivoluzionario nasce da questo realismo disincantato, se non proprio da questo pessimismo antropologico: le masse non sono capaci di governarsi da sé, questo è il fatto di cui bisogna prendere atto; di conseguenza, quel che può fare chi non accetti l’egoistico dominio delle classi abbienti, deve addestrarsi a guidare le masse, a condurle, a manovrarle, senza romanticismo e senza idealismi ingiustificati: un po’ come il Principe di Machiavelli.

Ecco perché Sorel era letto e ammirato da Mussolini, ma anche da Gramsci: perché il suo pensiero forniva una base razionale alla tecnica del potere nell’età delle masse, ossia nell’epoca democratica moderna. Esso forniva il veleno, ma anche l’antidoto: e ciascuno poteva interpretarlo a suo modo…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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