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28 Luglio 2015«Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo»: è una di quelle frasi che tutti ricordano di aver udito e che tutti, quando capita loro l’occasione, citano, perché appare profonda e, nello stesso tempo, sufficientemente anonima da poterla far passare come propria; in effetti, è una frase di un filosofo americano, ma di origine spagnola, molto conosciuto negli Stati Uniti — ove trascorse quasi trent’anni della sua vita, e anche per il fatto di aver scritto in inglese tutte le sue opere -, ma non altrettanto in Europa e nel resto del mondo: George Santayana (nato a Madrid il 16 dicembre 1863 e morto a Roma il 26 settembre 1952), rappresentante del cosiddetto realismo critico, del quale fu uno dei teorici riconosciuti.
Santayana, come gi altri realisti critici, parte dalla critica all’idealismo: per lui, l’atto del conoscere non consiste nell’attingere immediatamente, intuitivamente, dati reali di per sé evidenti, bensì nel mediare tra l’esistenza e l’essenza, ossia tra i dati essenziali delle percezioni e le funzioni del nostro intelletto, che mirano a coglierle mediante una serie di passaggi successivi, collegati e logicamente strutturati. Se, viceversa, si prende la conoscenza come una intuizione immediata della coscienza, come fanno appunto gli idealisti, si rischia di attribuire consistenza reale a dei dati percettivi che non hanno un contenuto reale, ma fantastico, come avviene nei sogni e nelle allucinazioni. Sogni e allucinazioni, per Santayana, non costituiscono qualcosa di reale, ma di illusorio, e dunque non sono oggetto di una vera conoscenza, ma di una conoscenza illusoria.
Ci sarebbe molto da dire su questa impostazione fondamentale del realismo critico, che se, da un lato, vuole porre un limite alle pretese esagerate e velleitarie del pensiero astratto e alla soggettività del conoscere, dall’altro finisce per cadere nell’estremo opposto, che è quello di negare qualunque valore di conoscenza a quei dati della coscienza che non sono suscettibili di una analisi critica puramente razionale: il che equivale a collocare nel campo dei sogni e delle allucinazioni, per definizione, tutto il preternaturale e tutto il soprannaturale. In questo si coglie la radice rozzamente positivistica e ottusamente scientista del realismo critico, e ci si rende conto che esso è l’altra faccia della medaglia del solipsismo idealista, delle fumisterie hegeliane e di tutto l’armamentario, fra il profetico e il delirante, di Fichte e Schelling (ma anche degli idealisti nostrani).
Santayana è un illuminista e un naturalista che vede nella storia dell’umanità il progressivo emergere dei valori del pensiero, il progressivo farsi strada della ragione e dello spirito dalle forze ancora oscure della natura (ed è, questa, una curiosa rassomiglianza con la concezione della natura in Schelling: ma non tanto curiosa, se, appunto, le si considera come due facce di una stessa medaglia): per lui, pirandellianamente, tutto il reale si può rigidamente separare nelle due sfere dell’esistenza e della essenza. Si tratta di un dualismo estremamente rigoroso (che l’autore chiama "realismo dualistico", come se lo spostamento del dualismo al ruolo di aggettivo, e la sottolineatura dell’atteggiamento realistico, fosse sufficiente a renderlo meno ostico): da un lato, la realtà che si svolge nello spazio e nel tempo, mutevole e condizionata; dall’altro, quella che giace al di fuori dello spazio e del tempo, assoluta e incondizionata: la prima che incessantemente si trasforma e diviene, la seconda che è sempre uguale a se stessa, non si trasforma e non diviene nulla di diverso da ciò che è.
Santayana ha fiducia, o, per meglio dire, ha fede (che lui chiama, addirittura, "fede animale") nel fatto che ci si possa sottrarre allo scetticismo radicale, grazie alla possibilità, per l’intelletto, di riconoscere le essenze e di tradurle in strumenti di conoscenza; ma non si comprende molto bene su che cosa si regga una tale fede, dal momento che natura e ragione, per lui, sono forze puramente meccaniche. Nel cozzo fra l’una e l’altra, o anche nella mediazione che la ragione tenta di operare, come si potrà effettuare il passaggio della sfera delle essenze a quella dell’esistenza, e viceversa? In fondo, è lo stesso imbarazzante interrogativo che getta un’ombra su tutto il razionalismo cartesiano: se la "res cogitans" e la "res extensa" sono due realtà rigidamente distinte e separate, come avviene il passaggio dall’una all’altra, nell’atto della conoscenza? Come si possono tradurre le essenze in conoscenza, se non intuendole direttamente (come fanno gli idealisti), e come si può tradurre in conoscenza l’esistente, che è sempre mutevole e cangiante?
È inevitabile — a nostro avviso – che, a partire da una tale impostazione del problema gnoseologico, non si possa uscire dallo scetticismo, ma anzi, prima o poi, si giunga fino al pessimismo e al nichilismo radicale. Se natura e ragione sono solo delle forze meccaniche, chi opera la sintesi, la mediazione necessaria per passare dall’una all’altra? Perché ciò sia possibile, occorrerebbe la presenza efficace di un dato originario, non solo naturale, e non solo razionale: di una realtà ontologicamente sussistente, di natura spirituale e anteriore all’atto del conoscere; altrimenti, come potrebbe trascendere se stessa e gettare un ponte fra sé e il mondo esterno?
Questa parabola dal naturalismo al pessimismo e al nichilismo è delineata, senza però trarne le logiche conseguenze, da Joseph. L. Blau nella sua monografia «Movimenti e figure della filosofia americana» (titolo originale: «Men and Movements in American Philosophy», New York, Prentice Hall Inc., 1952 and 1957; traduzione dall’inglese a cura di L. Borghi, Firenze, La Nuova Italia, 1957, 1974, pp. 379-81):
«Santayana si è sempre occupato dei sommi ideali umani di bontà, di verità e di bellezza. Il suo interesse primario ha avuto per oggetto la filosofia morale, intesa come studio delle virtù definite da uno spirito riflessivo, da un essere vitale capace di comprendere le proprie condizioni. Ben presto, però, egli si accorse che era impossibile considerare tali ideali prescindendo dal loro contesto, e questo non tardò ad apparirgli come esclusivamente naturale. Così, Santayana fu indotto a fondare la propria concezione del bene, del vero e del bello su una teoria naturalistica dell’essere e una teoria realistica del conoscere. È la stesa natura che genera gli ideali umani, e gli uomini cercano di controllare la realtà naturale per adattarla a simili ideali affiorati nel suo ambito. Il rapporto esistente, secondo Santayana, fra la natura e gl’ideali può venir chiarito riassumendo la sua esposizione della dottrina aristotelica. In base ad essa, tutti gli ideali hanno origine naturale, e tutta la natura ha possibilità ideali. Conseguentemente, la filosofia morale si delinea come valutazione delle imprese umane, non escluso lo stesso filosofare, in termini della misura in cui esse realizzano le virtù, o valori, suggerite e sostenute dalle forze naturali. Nonostante questo interesse per il pensiero etico ed il riconoscimento dello sviluppo in natura degli ideali, nessun filosofo americano ha sostenuto più decisamente e più esplicitamente di Santayana la neutralità morale della natura medesima.
Il naturalismo, secondo Santayana, è l’unica concezione sostenibile del sostrato dei valori umani, "la vera e salda fondazione del coraggio, della ragione e dell’immaginazione dell’uomo". Dal proprio temperamento poetico egli fu indotto a ritenere che, una volta concepito un sostrato di tale tipo, atto a garantire lo sviluppo del coraggio, della ragione e dell’immaginazione, l’opera di questi fattori fosse destinata ad apparire libera. Tratti umani del genere possono formare qualsiasi figura sullo sfondo. Fu nei filosofi greci ed in Spinoza che Santayana, a quanto è dato di leggere nella sua autobiografia, trovò una combinazione delle due intuizioni successivamente riaffermate come basilari: "il naturalismo circa l’origine e la storia dell’umanità, e la fedeltà al sentimento morale, al dettame della ragione". Nell’interesse dei greci e di Spinoza per la natura e per la ragione, Santayana individuò elementi essenziali ai fini del chiarimento del compito della filosofia, che egli identificò con la libera riflessione della mente sul tempo e sull’esistenza. La filosofia non è affatto una scienza fra le scienze, né un’arte fra le arti; è il tentativo di una mente equilibrata che cerca di utilizzare tutte le scienze e tutte le arti per comporre "un quadro, il più vero possibile, della natura e del mondo umano". Si tratta di una visione distaccata, comprensibile solo entro una persona vivente in una data epoca, ma non appartenente ad essa, in una persona, cioè, sottratta alle contrastanti pressioni del proprio tempo. Santayana fu, per esplicita ammissione, uno spettatore distaccato. Il mondo intellettuale i cui visse lo disgustò, ed egli diede ad esso il none di "giardino zoologico dello spirito". In rapporto a questo, gli sembrò più opportuno essere un visitatore situato fuori delle gabbie ed intento ad osservarne il contenuto, che uno degli animali rinchiusi in esse ed occupato a guardar fuori. Fu in parte per tale motivo che egli preferì leggere le opere dei propri contemporanei, anziché incontrarli personalmente.
Partendo da questo punto di vista distaccato ed estremamente anti-sentimentale, Santayana giunse a concepire la vita vissuta dagli uomini come "la quintessenza e la sintesi della follia". La follia non è innaturale; anzi, ad un tipo di essa Santayana attribuì la qualifica di "follia normale". […] Non distinguendo a sufficienza ciò che è naturale da ciò che è semplicemente convenzionale, consideriamo la "follia" innaturale, mentre essa non è che un fenomeno in contrasto con le convenzioni. Di fatto, nessuna delle cose accadute può essere innaturale, e fra esse vi sono manie ed illusioni di ogni tipo, perfino la furia omicida. Si tratta, quindi, di fenomeni "contrari non alla natura, ma soltanto agli abiti della maggioranza". La malattia è naturale quanto la salute, e la morte non meno che la vita. È l’immaginazione umana che attribuisce sublimità e bellezza, o mostruosità ed orrore, agli eventi naturali. Nessuna di tali qualità è percepita dalla natura; essa è indifferente a tutte, senza eccezione alcuna.
Non vi è illusione più diffusa, e tuttavia, come abbiamo visto, meno fondata, dell’idea che la natura sia morale. Santayana non avrebbe sopportato l’affermazione di Ralph Waldo Emerson secondo cui "ogni organismo animale, dalla spugna ad Ercole, suggerisce o grida all’uomo le leggi del giusto o dell’ingiusto". Ciò equivarrebbe ad asserire che "una combinazione di atomi od un complesso di sentimenti" siano migliori o peggiori di altri; equivarrebbe a sostenere l’oggettività dei valori in natura, cioè che questa sia morale. Tale ingiustificata opinione è accettata da tutti i viventi, il che costituisce una credenza folle. Si tratta di una follia tanto comune, da poter essere denominata "normale", ed i rari filosofi emancipatisi dalla relativa illusione sono destinati ad apparire simultaneamente sani ed anormali. Così, si può concludere che la natura è indifferente ai valori umani, i quali, però, sono da essa sostenuti ed ispirati….»
Santayana, come certi personaggi di Pirandello, come Mattia Pascal al termine del suo vano tentativo di evasione dalla forma della propria vita, o come Vitangelo Moscarda di «Uno, nessuno e centomila», ama dunque guardare il mondo da lontano: visto troppo da vicino, gli fa ribrezzo. E gli fa ribrezzo perché, pur avendo compreso che la natura non è affatto morale, egli però non si rassegna e inconsciamente pretende da essa una moralità intrinseca. Che cosa vuol dire che il mondo del pensiero è un «giardino zoologico dello spirito», se non che egli fatica ad ammettere che natura e spirito non sono poi così radicalmente diversi, e che l’esistenza e l’essenza non si collocano in due sfere del reale proprio così distinte? Questa è la maledizione di ogni dualismo: che, a causa di esso, si finisce per disprezzare, e magari anche per odiare, ciò che appartiene alla dimensione inferiore, oppure a quella superiore, a seconda dei gusti e dei punti di vista.
Il ponte, la mediazione che egli cerca fra essenza ed esistenza, non può appartenere al pensiero, per il semplice fatto che il pensiero non è una categoria "neutra" e oggettiva, anteriore al reale: è la maniera in cui la coscienza cerca di comprendere il reale, e dunque è un elemento derivato, in cui la coscienza tenta di abbracciare e organizzare i dati offerti dalle percezioni. La coscienza, però, fin tanto che si affida unicamente al pensiero razionale, continua a muoversi all’interno di una dimensione già data, sia dal punto di vista fisiologico (in quanto natura), sia dal punto di vista intellettuale (in quanto cultura: e ciascuna cultura ha le proprie forme e categorie di pensiero). Però non si può comprendere il reale, partendo da elementi derivati: occorre partire da un elemento originario, solido come roccia; senza di che, qualunque conoscenza sarà necessariamente illusoria. Ora, l’unico elemento originario è, per definizione, l’Essere: qualunque conoscenza che non poggi sull’Essere, poggia sul vuoto. L’assenza di una metafisica: ecco la debolezza del realismo critico…
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