
Due italiani in India (non i marò)
28 Luglio 2015
«Ha sete di Dio l’anima mia!»
28 Luglio 2015Che il mondo sia governato da forze belle, e che, d’altra parte, la carità verso la bellezza sia una delle forze più potenti che muovono l’animo umano — e forse non solo quello, ma anche lo spirito stesso delle cose — è una intuizione che non solo il filosofo, ma anche il critico artistico e letterario, procedendo lungo direzioni parallele, si trovano continuamente a fare, a confermare, a rafforzare in se stessi.
Partiamo dalla prima di codeste due intuizioni: il mondo è pieno di bellezza. Perfino quanti lo odiano e lo maledicono, perché lo accusano di esistere in funzione del male di tutti e di ciascuno — come Leopardi o come Montale — non hanno potuto trattenersi dal celebrare, con animo trepidante e commosso, la bellezza della natura, l’arcano profumo che si sprigiona da essa e il mistero commovente che celebra il rito sacro, e tuttavia quotidiano, dell’erompere irresistibile, del gagliardo e vittorioso scaturire della bellezza da ogni filo d’erba, da ogni alito di vento, da ogni sasso levigato dall’acqua del fiume, da ogni raggio di sole che traluce dalle imposte socchiuse d’una finestra o d’un balcone.
È come se il mondo volesse essere visto, ammirato, goduto: ma da chi? Dall’uomo, senza dubbio. Anche dalle altre creature? È probabile. Come escludere, anzi, come non supporre, che anche il pesce che scivola veloce nell’acqua iridata; che anche il cervo, che annusa l’aria con le sue narici frementi; che anche la lucertola, che si espone ai tiepidi raggi del sole, non godano della bellezza delle cose, della bellezza della vita, e non ne assaporino la gioia, nella loro maniera semplice, umile, istintiva? Come pensare che anche l’animale, che anche la pianta, non soffrano al momento di morire, di separarsi dal godimento di tanta bellezza, di tanta armonia e perfezione? E chi può sapere, chi può negare che anche l’acqua del fiume partecipi della gioia e dell’entusiasmo della sua corsa vittoriosa, o che anche la montagna si raccolga in solenne contemplazione dello spettacolo sublime offerto dalle valli che si aprono ai suoi piedi, come scrigni che mostrano allo sguardo il tesoro inestimabile della loro bellezza?
La seconda intuizione è originata direttamente dalla prima: una tale profusione di stupenda armonia, una tale magnificenza di cose belle, meritano tutta la nostra ammirazione, tutta la nostra gratitudine e tutta la nostra lode; e, naturalmente, suggeriscono l’idea che solo una forza benevola può aver dato origine ad esse, non mai una forza, o un insieme di forze, malevole, e neppure indifferenti. Può forse il caso, nella sua distratta indifferenza, generare i prodigi di bellezza di una goccia d’acqua, osservata al microscopio; di un cristallo di sale, con la sua geometrica struttura, assolutamente perfetta; della doppia spirale di una nebulosa, che distende le sue braccia luminescenti e palpitanti nel gran buio e nel grande, immenso, infinito mistero della notte cosmica? Ne deriva che l’opera dell’artista, o quella del poeta, non può essere che quella di benedire le cose, di benedire la vita, di aiutare gli altri esseri umani a farsi partecipi, attenti, sensibili spettatori dello spettacolo di tanta bellezza, facendoli uscire dall’apatia, dalla noncuranza, dalla distrazione perenne con cui, troppo spesso, gli uomini, specie nelle epoche storiche dominate dalla fretta e dal mito del progresso tecnologico, si muovono come sonnambuli, divenuti ciechi davanti alla bellezza o, peggio, troppo abituati a darla per scontata, come fosse una cosa dovuta, ma senza ringraziarla, senza lodarla e senza realmente apprezzarla.
Ha scritto Gaston Bachelard nel breve saggio «Le ninfee o le sorprese di un’alba d’estate» (in: G. Bachelard, «Il diritto di sognare»; titolo originale: «Le droit de rêver», Presses Universitaires de France, 1970; traduzione dal francese di Marina Bianchi, Bari, Eduzioni Dedalo, 1975, pp. 9-13):
«Le ninfee sono i fiori dell’estate, esse annunciano che la bella stagione non verrà meno. […]
Come tutto è nuovo in un’acqua mattinale! Quale intensa vitalità deve possedere questo fiume-camaleonte per rispondere con tanta prontezza al caleidoscopio delle prime luci del giorno! La sola vista di un’acqua tremula ravviva tutti i fiori, il più lieve moto di un’acqua stagnante è l’esca cui abbocca una bellezza floreale. […]
Solo che l’osasse, un filosofo, un pensatore che se ne stia a sognare davanti a una composizione acquatica di Monet, potrebbe elaborare le dialettiche dell’iris e della ninfea, la dialettica della figlia eretta e della foglia pendula che, con calma, saggiamente, pesantemente, poggia sul filo dell’acqua. Senza dubbio si tratta della dialettica essenziale della pianta acquatica: qui innalzantesi, animata da non si sa quale ribellione contro l’elemento nativo, là adagiata, fedele al suo elemento. La ninfea ha fato sua la lezione di calma impartita dall’acqua dormiente. Dentro siffatto sogno dialettico sarà forse possibile sentire, in tutta la sua squisita grazia e delicatezza, la dolce verticalità che si manifesta nella vita delle acque stagnanti. Ma il pittore tutto ciò lo sente d’istinto, e sa trovare nei riflessi una legge sicura che compone in altezza il calmo universo acquatico. […]
In tal modo gli aberri lungo la ripa vivono in due dimensioni. L’ombra del loro tronco fa più fonda la profondità dello stagno. Non si sogna presso l’acqua senza formulare una dialettica del riflesso e della profondità. È come se dal fondo acquatico un’oscura materia salisse ad alimentare il riflesso. Il limo è l’elemento che rende l’acqua specchiante. Esso presta la sua torbida materia a tutte le ombre che gli si offrono. Per il pittore, il fondo del fiume è pur esso fonte di sottili sorprese. A tratti sale dal profondo una polla bizzarra: nel silenzio della superficie, sboccia un balbettio, e la pianta sospira, lo stagno geme. Allora, il sognatore che dipinge è mosso da un sentimento di pietà per il dolore cosmico. Quale male insondabile si cela sotto l’Eden dei fiori? Vien fatto di ricordare con Jules Laforgue il male delle Ofelie fiorite:
"Et des nimpheas blancs des lacs oû dort Gomorrhe".
Ma lasciamo passare questa nube filosofica: ritorniamo, con il nostro pittore, alla dinamica della bellezza. […]
Il mondo vuol essere visto. Innanzi che avesse occhi per vedere, l’occhio dell’acqua, il grande occhio delle acque tranquille, guardava i fiori sbocciare. È proprio in simile rispecchiamento — come dubitarne? — che il mondo per la prima volta prese coscienza della sua bellezza. Similmente, dacché Claude Monet le ha guardare, le ninfee dell’Ile de France sono più belle, più grandi. Esse galleggiamo sui nostro fiumi più ricche di foglie, e più maestose anche, sagge come immagini di Lotus fanciullo. Ho letto, non ricordo più dove, che nei giardini d’Oriente, affinché i fiori fossero più belli e più rapidamente fiorissero con una chiara fiducia nella propria bellezza, si aveva tanto amore da porre loro accanto due lampade e uno specchio ove potesse mirarsi lo stelo vigoroso e gravido d’un nuovo fiore. Ed ecco l’essere rimirarsi la notte, e gioire infinitamente del suo splendore.
Tale infinita carità verso la bellezza, questo incoraggiamento dell’uomo a tutto ciò che tende al bello, come compiutamente lo avrebbe inteso Claude Monet, lui che per tutta la vita seppe fare la bellezza più bella, ovunque posasse lo sguardo. A Giverny, divenuto ricco — così tardi! — teneva al suo servizio dei giardinieri per le piante acquatiche, perché lavassero da ogni sozzura le vaste foglie delle ninfee in fiore e fossero scrupolosi animatori delle correnti che stimolano le radici, e un poco curvassero il ramo del salice piangente sotto il vento, onde s’agita lo specchio sensibile dell’acqua.
In breve, con ogni atto della sua vita e in tutte le prove della sua arte, Claude Monet fu servitore e guida delle forze belle che governano il mondo.»
L’artista, il pittore, il poeta, dunque, sono come dei custodi e dei sacerdoti della bellezza del mondo, sono come l’espressione di una cosciente contemplazione e di una deliberata gratitudine di ciascun essere, pensante o anche solo senziente, verso la bellezza dell’universo.
E d’altra parte, non possiamo nasconderci che vi è un pericolo, implicito in questa concezione dell’arte e della poesia (e, naturalmente, della critica artistica e letteraria): quello di un neopaganesimo che, celebrando la bellezza delle cose, si dimentica di celebrare non solo la bellezza, ma anche la sapienza, la bontà e l’amore infiniti, dai quali la bellezza ammirevole delle cose ha ricevuto l’origine, la norma e la misura: insomma, di perdersi nell’estatica contemplazione del dito che indica il Cielo, anziché del Cielo in se stesso. Perché la bellezza delle cose, dal filo d’erba alla galassia, è, appunto, il dito che indica più oltre.
Fermarsi alla bellezza immanente delle cose, significa deificarle e adorarle in se stesse, e cadere, con ciò, nel peccato d’idolatria; peccato che conduce alle forme più estreme, e risibili, di superstizione, come testimonia la mania di Monet di far ripulire le foglie delle ninfee nelle fontane del suo giardino, o di far curvare ad arte i rami del salice, ad opera di giardinieri assunti a tale scopo preciso. Ma le foglie delle ninfee sono belle in se stesse, quando oscillano sul pelo dell’acqua, anche se impolverate, anche se segnate dalla presenza di qualche foglia caduta dagli alberi, di qualche rametto portato dalla brezza. E che! Vorremmo forse pretendere di rendere più bella la natura, "correggendola" secondo il nostro sentimento estetico, quasi che la sua bellezza intrinseca non fosse sufficiente?
Lasciamo questa trista mania ai cultori dell’arte topiaria e a tutti coloro che pensano il giardino come il luogo nel quale l’intelligenza umana trasforma le cose della natura secondo un progetto estetico migliorativo rispetto alla natura stessa; lasciamoli tagliare, incidere, togliere, arrotondare, deformare, le figure delle piante, deviare il loro asse di crescita: costoro non sono che i folli manipolatori accecati dal proprio orgoglio, simili a quegli altri folli, i costruttori delle dighe gigantesche lungo il corso dei fiumi e delle gallerie chilometriche scavate nelle viscere della montagna, che stravolgono il paesaggio; o come i più folli di tutti, quei biologi che praticano la manipolazione genetica e che si divertono a modificare la struttura cromosomica egli esseri viventi, nella sacrilega pretesa di rifare il progetto divino dell’universo.
Questa aberrazione nasce da un errore di fondo: quello di avere assolutizzato la bellezza delle cose, omettendo di rendere il dovuto omaggio al progetto non umano, ma divino, dal quale essa scaturisce; dunque, nasce anche dall’errore di prospettiva consistente nell’avere scambiato il dito per il Cielo, il significante per il significato. Del resto, se è vero — come ipotizza Gaston Bachelard — che le cose non siano paghe di se stesse, ma che godano della contemplazione di se stesse, come pensare, allora, che un tale godimento scaturisca così, spontaneamente, quasi come frutto del caso, e non sia, invece, la logica conseguenza d’una forza superiore alla natura, che traluce in mezzo alle opere della natura, e la cui bontà infinita si esprime anche nel fatto che le cose possano godere di se stesse, moltiplicando la gioia e il piacere che pervadono il mondo?
All’estremo opposto degli adoratori delle cose, vi sono i freddi materialisti, i quali, chiusi e corazzati nel loro razionalismo scientista, non possono ammettere che le cose, se, per caso, suscitano l’ammirazione degli enti, ciò non avviene per altra ragione che per una finalità immanente alla natura stessa e, in ultima analisi, puramente utilitaristica. Ad esempio, costoro sono assolutamente certi che il profumo dei fiori sia "soltanto" una astuzia inventata dalla natura perché gli insetti siano attratti da essi, e svolgano la loro opera d’impollinazione. Ma che cosa li rende tanto sicuri? Nient’altro che un pregiudizio: ossia che la bellezza della natura "debba" nascere da necessità pratiche della natura stessa, e che essa, in ultima analisi, sia casuale, incidentale, e, in se stessa, assolutamente indifferente, a nient’altro diretta se non a realizzare le singole funzioni necessarie alla vita materiale degli enti. Ma che cosa li rende così certi che il ciclamino non goda esso stesso del proprio profumo, o che quel profumo non sia un dono munifico che il fiore offre non solo agli insetti, ma all’universo intero?
La bellezza delle cose risulta essere, pertanto, una delle vie privileghiate, ma, nello stesso tempo, anche uno dei più insidiosi trabocchetti, che siano offerti alla riflessione umana per rapportarsi con l’Assoluto. Coloro i quali non la vedono, non possono scorgere, per definizione, neppure la suprema bontà da cui essa scaturisce: come non la scorgeva messer Galilei, allorché, tutto preso dalla vivisezione d’una cicala, si affannava per capire donde traesse origine il suono da lei prodotto, e intanto non vedeva, e anzi distruggeva, il prodigio di bellezza di quel piccolo corpo vivo e armonioso, produttore di quella ulteriore bellezza che è il frinire dell’insetto nei meriggi d’estate. Coloro i quali la vedono e ne godono, al contrario, rischiano, se si lasciano prendere dal troppo entusiasmo, di scordare donde essa nasce: non già dal caso, né da se stessa, ma dall’Amore divino…
Fonte dell'immagine in evidenza: sconosciuta, contattare gli amministratori per chiedere l'attribuzione