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Il mite cervo dell’Eden simboleggia la natura felice prima della colpa originaria

Tutti sanno che uno dei motivi ricorrenti dell’iconografia cristiana è il cervo; tutti avranno visto, almeno qualche volta, entrando in una chiesa, l’immagine di un cervo — dipinta ad affresco sulle pareti, sul soffitto o sulla cupola dell’abside; oppure sbalzata a bassorilievo sul battistero o, magari, sul pulvino di una colonna; oppure, ancora, composta con le tessere brillanti di un mosaico parietale o pavimentale — che si avvia a spegnere la sete verso un corso d’acqua, simbolo, quest’ultimo, dell’«acqua viva» promessa da Cristo alla Samaritana, oppure dello Spirito Santo, che si effonde agli uomini per mezzo dei sacramenti.

Ma il cervo, o la cerva (nella versione latina del Salmo 41: «Come la cerva assetata anela ai rivi delle acque, così l’anima mia anela a te, o Dio. Ha sete di Te l’anima mia; ha sete del Dio vivente»), a sua volta, di che cosa è simbolo? Evidentemente, dell’anima umana assetata di Dio; e così esso è stato rappresentato fin dai secoli dell’arte paleocristiana, ad esempio nei mosaici della cupola nel meraviglioso Mausoleo di Galla Placidia, a Ravenna, ove l’animale si fa strada verso l’acqua che scorre, avanzando in mezzo ai tralci d’una rigogliosa vegetazione.

Tuttavia, il cervo, o la cerva, si trova sovente anche per illustrare un’altra scena cara all’iconografia cristiana: quella del Giardino dell’Eden, ovvero l’antichissimo Paradiso terrestre, popolato da piante lussureggianti e fiori coloratissimi, nonché da una ricca e varia fauna di animali miti, pacifici, eleganti nel portamento, a rappresentare la perfezione, l’armonia e la gioia perpetua che regnavano in quel luogo, prima che il peccato di Adamo ed Eva guastasse in maniera drammatica — anche se, per fortuna, non irreparabile — il rapporto di amore fra il Creatore e le Creature, che sarebbe stato pienamente restaurato mediante l’Incarnazione del Figlio.

Incontriamo il cervo anche nella tradizione agiografica relativa alle vite dei santi, ad esempio in quella di Sant’Eustachio. Secondo la «Legenda aurea» di Jacopo da Varazze, il nobile romano Eustachio Placido, vissuto al tempo dell’imperatore Traiano, valoroso generale, ma anche fiero nemico dei cristiani, stava inseguendo un cervo, nel corso di una battuta di caccia, allorché l’animale, giunto davanti a un precipizio, si fermò bruscamente e si volse verso di lui, mostrando una piccola croce luminosa che brillava in mezzo alle sue corna, al di sopra della quale apparve Gesù stesso, che gli chiese perché lo stesse perseguitando: e quello fu l’inizio della sua conversione, che lo avrebbe portato al martirio, sotto l’impero di Adriano.

Il piccolo comune di Poli, sui Monti Prenestini, a 435 metri s. l. m., rivendica, in base a un’antica tradizione, di essere il luogo in cui sarebbe accaduto il prodigio del cervo; che è raffigurato in numerose opere d’arte, fra le quali un dipinto russo moderno, che si può ammirare in u’aula laterale nella grande chiesa di Saint-Eustache, a Parigi. Eustachio, comunque, è particolarmente venerato in Italia, ed è il patrono della città di Matera (e di altre nove città e paesi italiani, fra cui la già menzionata Poli), che egli avrebbe salvata, nel 994, apparendo sotto forma di cavaliere armato, da una incursione e dall’assedio dei Saraceni (ma si tenga presente che sono ben sei i personaggi storici che la Chiesa cattolica venera come santi: l’ultimo dei quali, martirizzato nel 1342, fu Sant’Eustachio da Vilnius, in Lituania). Comunque, vi è anche un santo transalpino che viene generalmente rappresentato insieme ad un cervo con il crocifisso tra le corna: è Sant’Uberto da Liegi, della dinastia regale merovingia, morto nel 772: per influsso del culto di Eustachio, si formò la leggenda secondo cui, un Venerdì santo, gli sarebbe apparso un cervo miracoloso che lo avrebbe invitato ad abbandonare la sua vita peccaminosa e a convertirsi.

Anche se, nel corso del tempo, la simbologia cristiana del cervo si è andata caricando di svariati significati, attestanti una continua evoluzione — ad esempio, nei secoli centrali del Medioevo, passò a significare la tentazione sensuale -, nel complesso il significato prevalente è sempre stato quello legato al concetto della purezza, dell’innocenza, del candore dell’anima, e, nello stesso tempo, del bisogno di Dio che ne caratterizza la vita più profonda: perché, nella prospettiva cristiana, Dio non è un "di più", una scelta individuale moralmente indifferente, ma il fine e il senso ultimo della persona umana, per cui si può dire che l’intera esistenza del singolo individuo, così come l’intera vicenda della storia dei popoli, degli imperi, delle civiltà, altro non siano che un itinerario di avvicinamento, o, talvolta, di allontanamento, dal loro autentico centro focale, dalla loro meta finale, che è sempre Dio, e nient’altro che Dio.

Riportiamo alcuni passi del saggio di Fernando Rigon «Uno su cinque. L’udito del cervo edenico», purtroppo selezionandoli al massimo per motivi di spazio e, perciò, "tagliando" i puntuali riferimenti icnografici che arricchiscono e danno particolare concretezza alla pregevole ricostruzione dell’Autore, alla cui lettura integrale rimandiamo il lettore (in: F. Rigon, «Arte dei numeri. Letture iconografiche» Banca Popolare di Vicenza, 2006, pp. 153-159):

«Quando le raffigurazioni artistiche dei Progenitori dell’Eden sono arricchite da presenze zoologiche, immancabilmente, o quasi, fa la sua comparsa il cervo; anzi, con frequenza esso diventa l’unico rappresentante della fauna paradisiaca che accompagna la vita felice di Adamo ed Eva prima della colpa originale. Questa constatazione fa pensare a una ineludibile necessità, della quale cercheremo di rivelare le ragioni simboliche, focalizzandoci qui sull’inserimento del cervo nel giardino dove cresceva l’albero del Bene e del Male e sui suoi significati allegorici in rapporto a tale contestualizzazione che trascende, e prescinde da molti ruoli iconografici attribuitigli nell’antichità classica. Non si può evitare infatti di tener presente come, in un ideale "indice" delle qualità mitiche, e analogiche, poi, degli "animali" entrati a far parte dell’iconografia con tutto il loro stratificato bagaglio di reminiscenze e allusioni, il cervo occuperebbe sicuramente il secondo posto, preceduto e di molto! — soltanto dall’imbattibile leone, con il quale divide proprio, spesso in esclusiva, l’onore d’accompagnare le rappresentazioni dei Capostipiti dell’umanità. […]

La facoltà del cervo più accreditata nell’antichità consisteva nell’accanita inimicizia del quadrupede con i serpenti e nella sua presunta capacità di catturarli e ucciderli, scovandoli anche sotto terra con getti d’acqua di cui si era riempito la bocca; passata al cristianesimo (vedasi i mosaici di Qasr Libya) la credenza lo consacrò ben presto, anche nei Bestiari medievali, come animale antidiabolico e simbolo del Cristo che stritola la potenza infernale. Una presenza esorcizzatrice del quadrupede presso l’albero del Male, avvolto nelle spire della tentazione tramata dal serpente diabolico, diventò perciò quasi scontata e non meno scontata la sostituzione del rettile, che si nutre di terra, con il cervo al seno della "Tellus" degli "Exultet", con l’animale posizionato dal lato delle tenebre che ospitano la Luna, la qual, vicina alla Terra, evoca così anche l’acqua di cui il quadrupede si serve — omologandola — per snidare il suo nemico per eccellenza. Fin da Aristotele s’era accreditata anche la convinzione che i cervi si lasciassero sedurre dal suono di una bella voce o di uno strumento armonioso, identificato da Plutarco con il flauto. Nel passaggio al Rinascimento questa predisposizione prevalse sulla precedente e si specializzò in una simbologia complementare per cui il nostro animale divenne tout-court l’incarnazione stessa dell’Udito e attributo specifico dell’Adulazione. Nell’ambito della rappresentazione dei cinque sensi, come caratteristiche corporee dell’uomo che o mettono in grado di percepire la materialità e di organizzare in linguaggio realtà ed esperienza, il cervo assume così costantemente nel Rinascimento — quando si ricorra alla perifrasi attributiva zoomorfa — il ruolo dell’Udito […].

Strettamente connesso alla particolare predisposizione dell’Udito — il più "emotivo" di tutti i sensi, secondo Teofrasto — è la "debolezza" del cervo di essere sensibile all’adulazione, poiché esso è, per antichissima credenza, predisposto alla vanità, forse a motivo del fascino che esercita la sua "ramatura". Così conferma anche il Ripa nel suo trattato di iconologia sulla voce "Adulazione […]. Sui derivati dalla timidezza, come pavidità, cautela e circospezione — affermatisi come attributi del cervo fin dal Medioevo — torna lo stesso Ripa quando consacra il quadrupede come prerogativa indispensabile della figura della Prudenza […]. Di antichissima tradizione, connessa ancora una volta la caratteristica distintiva del cervo, cioè impalcatura delle corna che cresce e si rinnova con gli anni, è la qualità che lo vuole molto longevo. […]

"In Oriente un certo parallelismo collegò il combattimento tra Ormudz ed Ahriman e quello fra il sole e la luna, il combattimento fra il "pausen" e il serpente; quest’ultimo animale ctonio e tenebroso, fu in tutto il vecchio mondo il geroglifico d’ombra pericolosa e dei misteri sotterranei"; laddove il cervo, agognante l’acqua, divora il serpente, che a sua volta si nutre di terra, in un chiasmo rivelatore di scambio tra i due elementi Acqua-Luna e cervo-Terra. Il cervo in età romanica è immagine della tentazione della carne ed è associato alla Sirena, abitatrice delle acque, che adula, blandisce e seduce, come il Serpente allettatore, fin dal Paradiso perduto. Atteone subisce la stessa tentazione sorprendendo Diana-Luna al bagno: "regredisce", così, per punizione a cervo e viene divorato dalla muta dei suoi stessi cani famelici, capeggiati da Melampo, dalla zampa nera…»

Di tutte le funzioni simboliche che gli sono state attribuite, dunque, nel lungo corso dei secoli, la più diffusa, probabilmente, è quella che vede il cervo come il mite abitante dell’Eden, ossia come il simbolo felice della vita universale, prima che l’uomo infrangesse, con il Peccato originale, la profonda armonia, la perfetta integrità e la suprema bellezza della Creazione, e dunque prima che il mondo della natura divenisse feroce e selvaggiamente competitivo.

Naturalmente, chi possiede una mentalità scientista e ha sviluppato una concezione materialista del reale, sorriderà davanti a tutto questo, e domanderà, con una sfumatura di beffarda ironia sulle labbra: «Ma quando, per favore, la natura è stata priva di competizione? In quale tempo, in quale luogo, il lupo e l’agnello hanno mai pascolato insieme? E allora: di quale innocenza, di quale mitezza, sarà mai simbolo il cervo, dipinto, scolpito, raffigurato centinaia e migliaia di volte, nel corso dei secoli, entro le chiese cristiane? Non sappiamo forse che gli animali, e tutti i viventi, derivano da progenitori comuni; e che, prima ancora, la vita sulla Terra è nata da un "brodo primordiale", in maniera assolutamente spontanea e casuale, senza bisogno di alcun Creatore? Ma, anche ammettendo che la creazione vi sia stata, come si può ancora raccontare la favoletta degli animali che vivevano in pace e reciproca armonia? Un erbivoro è sempre un erbivoro, così come un carnivoro è pur sempre un predatore: e la storia della vita è sempre stata la storia delle zanne e delle unghie insanguinate». In questo modo, più o meno, parlerebbe costui.

Il fatto è che gli uomini moderni, fra le alte cose, hanno dimenticato che cosa sia, propriamente, un simbolo. Abbiamo detto che il cervo è un tipico animale della simbologia cristiana: il che vuol dire che non bisogna vederlo, realisticamente, come un animale fra gli altri, come un mammifero artiodattilo e ruminante, che vive in un ceto modo, si nutre in un certo modo, si riproduce in un certo modo: perché questo non sarebbe più il simbolo del cervo, ma il cervo in quanto animale, che è quel che deve essere. Il cervo, nell’iconografia cristiana, è un simbolo di purezza, di mitezza, di desiderio ardente di Dio: a questo dobbiamo pensare, e non altro. Allo stesso modo, anche il Giardino dell’Eden è un simbolo, e non un luogo geografico, meno ancora un luogo realisticamente descritto; esso è un simbolo della natura originaria, uscita tutta buona dalle mani del Creatore, e non ancora ferita e deturpata dal Peccato.

Ora, se il nostro amico scientista e materialista insistesse: «Ma com’era, dunque, e dove, codesta natura originaria?», gli risponderemmo che nessuno lo sa, tranne una cosa: che era buona in se stesa, perché era perfetta. Gli scienziati sanno forse dirci che cosa c’era prima dell’Universo che noi oggi conosciamo, prima del Big Bang? Non lo sanno, perché nessuno lo sa. «Forse un altro universo simile a questo», dirà il nostro amico. Forse. E prima ancora? Messo alle strette, dirà forse che non vi è alcun "prima", perché il mondo, in questa forma o in un’altra, è sempre esistito. È una posizione che va forte, da un po’ di tempo, specie fra quegli scienziati che amano improvvisarsi filosofi (cfr. il nostro articolo «Perché esiste qualcosa invece che nulla?», pubblicato sul giornale informatico «Il Corriere delle Regioni», in data 19/07/2015). Solo che è logicamente insostenibile…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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