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«I tre filosofi» di Giorgione ci sfidano in un’atmosfera trepidante d’attesa e di risveglio

Il celebre dipinto di Giorgione comunemente denominato «I tre filosofi», databile al biennio 1506-1508, e attualmente collocato nel Kunsthistorisches Museum di Vienna, è una di quelle opere che costituiscono la croce e la delizia di tutti quei critici d’arte e di tutti quegli studiosi che non si accontentano di una valutazione strettamente estetica di un’opera, ma che cercano in essa, talvolta legittimamente, altre volte meno, di riconoscere eventuali elementi nascosti, simbolici e perfino esoterici, per arrivare a comprenderne il significato segreto.

Si tratta di un dipinto di medie dimensioni (cm. 123,5 x 144,5), commissionato da Taddeo Contarini e che, fino al 1636, si trovava ancora a Venezia, proprietà di un certo Bartolomeo della Nave; venduto ad Hamilton due anni dopo, finì nelle mani di Leopoldo Guglielmo d’Austria nel 1649, e, da allora, è sempre rimasto di proprietà degli Asburgo, fino alla sede attuale.

La scena rappresentata è relativamente semplice, ma solo in apparenza; il pregio principale dell’opera, dal punto di vista figurativo e formale, consiste nell’uso sapientissimo del colore, nelle sfumature di luce, nella pastosa e tuttavia brillante ricchezza cromatica e luministica, insomma nella somma abilità con cui l’autore riesce a creare un’atmosfera tutta particolare, di sospensione e quasi di trepidazione, così come in altri suoi dipinti celebri, a cominciare da «La tempesta», che, forse, è la sua opera più nota in assoluto, e nella quale vi sono pure elementi di difficile interpretazione, pur nella apparente semplicità della scena, che paiono rinviare a significati occulti.

Cominciando dal titolo, «I tre filosofi», non siamo affatto certi che i tre personaggi rappresentati siano realmente dei filosofi. Si tratta di tre uomini, di diversa età, che occupano gran parte della metà destra della tela; la metà sinistra è interamente occupata dal paesaggio. Il primo dei tre personaggi, all’estrema destra, è un vecchio con la barba fluente, dal viso austero e quasi corrucciato, che veste un mantello di foggia antica e che tiene in mano un foglio riempito di calcoli astronomici; il secondo è un uomo ancor giovane, che porta la barba corta e indossa abiti orientali, un turbante sul capo, e il pollice della mano destra infilato nella cintura della veste; il terzo, seduto e girato di profilo, è un uomo assai giovane, poco più di un ragazzo, che tiene fra le mani un foglio, un compasso e una squadra per il calcolo geometrico. Gli abiti del primo sono di color giallo e marrone; quelli del secondo, rosso e viola; quelli del terzo, bianco e verde: sono, dunque, molto vivaci, e stesi secondo le regole del tonalismo veneto.

Una fitta vegetazione e un boschetto dai tronchi eleganti e sottili fanno da sfondo ai tre individui, sul lato destro del dipinto; al centro, una valle boscosa e verdeggiante, con una città, o piuttosto un gruppo di case, i cui tetti s’intravedono appena nello spacco della valle, al di sotto di un cielo sereno, solcato da alcune nuvolette, nel momento del tramonto, con il sole che scompare dietro una catena di colline dal profilo arrotondato. Il paesaggio sulla sinistra del dipinto è quasi interamente occupato da una parete rocciosa e scoscesa, su cui si apre una grotta, o una caverna, che ricorda d’istinto quella del mito platinico; il suo imbocco è tappezzato di edera selvatica e muschio pendente, sullo sfondo di un alto e bellissimo albero di fico, il tutto immerso in un esplicito clima leonardesco.

Ma chi sono, o cosa rappresentano, i tre misteriosi personaggi? Quale significato racchiude tutta la scena? Sono davvero dei filosofi, oppure degli scienziati, o sono forse i Re Magi della tradizione cristiana, e sia pure spogliati della dimensione adorante e del tutto staccati dal contesto religioso, in qualche modo laicizzati? Certo è che non stanno conversando: ciascuno di loro è immerso in un suo pensiero, in un suo mondo; non comunicano, eppure formano un gruppo, nonostante tutto, unitario: si capisce che uno stretto legame deve unirli, e sia pure di tipo estrinseco. Ma quale? Potrebbero simboleggiare, semplicemente, le tre età dell’uomo: la prima giovinezza, la maturità e la vecchiaia; oppure potrebbero simboleggiare le tre culture e le tre religioni: la giudaica, l’islamica e la cristiana: e dunque l’Antico Testamento, il Corano ed il Nuovo Testamento. Ma, se è così, perché allora tutti quei simboli matematici, perché tutti quegli strumenti scientifici? E, soprattutto, perché quella atmosfera così "laica", quasi espressione di un sapere profano, che non trasmette per niente un senso di misticismo e di presenza del divino, ma, semmai di occultismo e di sapere magico ed alchemico?

Secondo Augusto Gentili, in base a complicati riferimenti di tipo astronomico ed astrologico, il personaggio anziano potrebbe essere Mosè, quello più giovane, Maometto, e infine il più giovane potrebbe raffigurare niente meno che l’Anticristo; secondo Salvatore Settis, sempre in base ad una serie di sottili analisi degli elementi simbolici, che qui non possiamo riassumere adeguatamente, i tre personaggi sarebbero i Re Magi. Ma vi sono anche molte altre interpretazioni, le più fantasiose e bizzarre: il guaio è che ciascuna si presenta come la spiegazione definitiva circa il significato di questo celebre dipinto, ma nessuna riesce del tutto convincente, a tutte sfugge pur sempre qualche cosa, nessuna può rendere conto, simultaneamente e persuasivamente, di tutti gli elementi simbolici in essa presenti.

Così fa il punto della questione Pietro Zampetti, nel volume «Giorgione e i giorgioneschi» (catalogo della mostra tenutasi a Palazzo Ducale nel giugno-ottobre 1955, Venezia, Casa Editrice Arte veneta, 1955, pp. 34-38):

«Il dipinto è tra i pochissimi ricordati dal Michiel: "In casa de M. Taddeo Contarino , 1525. La tela a ogli delli 3 phylosophi nel paese, dui riti et uno sentado che contempla li raggii solari cum quel saxo finto cusi mirabilmente, fu cominciata da Zorzo da Castelfranco, et finita da Sebastiano Veneziano". Nel 1659 esso si trovava nella raccolta dell’Arciduca Leopoldo Guglielmo. L’anno successivo venne riprodotta dal Teniers nel Theatrum Pictorium, come opera di Giorgione. Passò al Museo di Vienna attraverso le raccolte imperiali austriache. Questa famosa tela è stata recentemente restaurata (Baldass 1953) in modo davvero esemplare con grande vantaggio della superficie pittorica, resa oggi tanto più brillante e viva. Ad esempio la grotta a sinistra e gli arboscelli, ora così ben visibili, prima del restauro sembravano del tutto scomparsi.

Circa il significato anche questo dipinto, così come la Tempesta, è stato oggetto di discussioni e argomentazioni infinite. Nell’inventario del 1659 viene citato come "I tre matematici"; nel catalogo del Mechel (1783) "I tre Magi che aspettano l’apparizione della stella". Nell’800 e nel 900 le interpretazioni infittiscono: lo Janitschek (1871) ritiene che le tre figure simboleggino il mondo antico, il medioevo e l’età moderna; il Wickhoff (1895, p. 34) pensa a Evandro, Pallante ed Enea; lo Schaeffer (1910, p. 340) a Marco Aurelio con due filosofi. Altri, poi, prospettano ulteriori, diverse interpretazioni. Il Ferriguto (1933) ritorna al concetto dei tre filosofi, rappresentanti tre diverse età del pensiero umano: il giovane, simbolo del Rinascimento; la figura con turbante, della filosofia araba; il vecchio con la barba, del pensiero del medio Evo. Ultimamente F. Klauner (1954-55) in un ampio studio sul significato dei "Tre filosofi", svolge l’interessante tesi che il dipinto fosse stato concepito da Giorgione come una Adorazione dei Magi. Nella parte sinistra, là dove c’è la grotta, sarebbe dovuta apparire la Madonna col Bambino. Secondo tale idea i tre misteriosi personaggi, pertanto, sono proprio i Re Maghi del vangelo, raffigurati in atteggiamento di uomini di pensiero, anziché in quello tradizionale che li vuole in un atto di devozione verso il Neonato. Tale atteggiamento deriverebbe dall’influsso esercitato dalla correnti filosofiche rinascimentali, e, in modo particolare, dalla Scuola padovana.

Comunque sia, si tratta quindi di tre filosofi, come bene ebbe a dire il Michiel. Essi sono in contemplazione della natura e meditano ciascuno per proprio conto, uniti tuttavia dal comune desiderio della conoscenza. I raggi del sole, nel loro primo apparire, suscitano le più varie intonazioni cromatiche e danno vita alle cose ed armonia al creato: rivelando così il celeste del cielo e le case del villaggio; i monti lontani, i grossi alberi contro luce e le penombre della grotta. Un’atmosfera come di attesa e di risveglio nell’incanto mattutino.

Scrive L. Venturi (1954, p. 31): "Ciò che costituisce l’alone poetico del quadro è questa potenza di giungere con la sensibilità pittorica a intravvedere quella concezione sentimentale del mondo che fu chiamata panteismo". La radiografia eseguita dal Wilde (1932, p. 141) rivela che, in una prima versione, Giorgione aveva concepito le sue figure in modo alquanto diverso, più decisamente orientale il tipo dell’uomo in piedi e con una raggiera in fronte il vecchio barbuto. Si tratta di curiosità più che altro, tuttavia assai indicative perché rivelano come il pittore rielaborasse le proprie idee.

In merito alla collaborazione di Sebastiano del Piombo, di cui parla il Michiel, è ben difficile dire in che cosa essa consista e problematico rintracciarne con sicurezza gli elementi: l’opera infatti appare mirabilmente unitaria.»

Che dire, dunque, di questo famosissimo dipinto di Giorgione?

Da parte nostra, non osiamo tentare una ennesima spiegazione complessiva; inoltre, apparteniamo al numero di coloro che si ostinano a non voler confondere il piano della valutazione estetica e quello degli eventuali significati esoterici, anzi, che ci tengono a tenerli distinti. Può darsi benissimo che alcuni pittori, anche celebri — come Leonardo, Poussin, o, appunto, Giorgione — abbiano inteso fondere i due aspetti, consegnando a delle opere di straordinaria bellezza pittorica anche dei significati reconditi, comprensibili solo a pochi iniziati: pure con tutto ciò, noi restiamo del parere che, per lo storico dell’arte e anche per il semplice fruitore di un’opera artistica, la conoscenza di eventuali significati simbolici e nascosti sia un elemento aggiuntivo, non sostanziale e quindi non necessario, o, quanto meno, non indispensabile, per la comprensione e il godimento estetico dell’opera stessa.

Sì, lo sappiamo: è questa una posizione probabilmente minoritaria, e che si presta all’accusa di semplicismo, nonché di indebita separazione di elementi non distinguibili, quelli formali e quelli sostanziali; ma, a costo di passare per crociani (cosa che pure, un po’, ci seccherebbe, perché non condividiamo la rigida separazione di "poesia" e "non poesia"), restiamo della nostra opinione. E il criterio sopra esposto vale, naturalmente, anche per le altre forme di espressione artistica. Ci mancherebbe altro che, per gustare la «Divina Commedia», sia indispensabile aver letto Guénon, «Il Re del Mondo», o magari i "mattoni" indigeribili di Gabriele Rossetti, e chissà quali altre opere di esegesi esoterica: anche se la presenza, nel poema dantesco, di elementi esoterici è tutt’altro che irrilevante, e, anzi, pressoché certa, resta il fatto che una grande opera può essere fruita su differenti livelli di comprensione, e che i livelli superiori non sono indispensabili per un approccio formale ed estetico di primo grado, anche se possono completarlo, integrarlo, arricchirlo. Beninteso, a patto che siano sufficientemente credibili e persuasivi: e il problema è, appunto, che più ci si addentra nel terreno dell’esoterismo, più diventa difficile motivare adeguatamente determinate chiavi di lettura rispetto ad altre.

Ma torniamo a Giorgione. Dire che il significato esoterico dell’opera, che pure evidentemente esiste, non è indispensabile per la sua fruizione estetica e per la sua collocazione storica, non equivale, è ovvio, a negarne l’importanza, o l’importanza che il pittore di Castelfranco Veneto gli attribuiva. Una volta che un’opera sia stata realizzata ed esposta al pubblico, il suo autore può rivendicare, per essa, tutti i significati di questo mondo, ma non potrà mai impedire che ciascuno la legga a sua modo e la interpreti a suo modo. Quanto a noi, oltre alla magistrale bravura con cui Giorgione ha celebrato un autentico trionfo del colore e della luce, i due elementi che hanno reso giustamente celebre la scuola pittorica veneziana, resta l’impressione che ne «I tre filosofi» si esprima a pieno quello spirito rinascimentale, sottilmente ma sostanzialmente neopagano, che pretendeva di intellettualizzare tutto, compresi i misteri cristiani: con l’inevitabile tendenza a scivolare verso la gnosi, ossia verso un’idea del cristianesimo — Anticristo o meno, nella tela in questione — che privilegia una supposta verità occulta e razionale, rispetto alla "semplice" fede…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Daian Gan from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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