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28 Luglio 2015I fossili della laguna di Bolca formano il più grandioso complesso paleontologico al mondo

La Val d’Alpone è la più orientale delle valli prealpine che scendono, con orientamento longitudinale, attraverso la catena dei Monti Lessini, in provincia di Verona; vi si trova il piccolo comune di Vestenanova (a 800 metri s. l. m.), nel cui territorio è la località di Bolca (in lingua cimbra, un antico dialetto tedesco: Bulk), nota a tutti gli studiosi di scienze della Terra.
Il territorio di Bolca, infatti, si è rivelato una vera e propria miniera paleontologica: in esso sono stati rinvenuti i più grandi giacimenti fossiliferi al mondo, sia per l’estensione geografica, sia per il numero delle specie vegetali e animali; ma ciò per cui i fossili di Bolca sono conosciuti e apprezzati in tutto il mondo, è il meraviglioso stato di conservazione, che li rende pressoché perfetti per essere esposti nelle sale dei musei geologici e ammirati dai visitatori.
Le specie vegetali ritrovate sono più di 270; quelle animali sono poche di meno, circa 250, consistenti soprattutto di crostacei, rettili, uccelli (piume e non esemplari completi), insetti e soprattutto pesci (ben 200 specie), oltre a frammenti di conchiglie, di coralli e carapaci di tartarughe. Infatti l’ambiente di 50 o 60 milioni di anni fa, nel quale tali creature vivevano – ossia nel Terziario, e più precisamente nell’Eocene Medio e Inferiore – era di tipo marino poco profondo, più precisamente lagunare, con un clima di tipo temperato caldo o subtropicale; un ambiente che presenta alcune rassomiglianze con quello che esiste attualmente nelle isole dell’Oceano Pacifico o in quelle dell’Oceano Indiano, nell’Asia sud-orientale. In totale, sono state contate 250 specie di animali, distribuite su 140 generi, 90 famiglie e 19 ordini.
Il fossile probabilmente più famoso, fra quelli di Bolca, è, quello di un pesce, «Mene rhombea», appartenente alla classe degli Actinopterygii, dal corpo molto alto e appiattito lateralmente, la bocca piccola e rivolta verso l’alto, l’occhio grande e le pinne tutte ben sviluppate. La sua classificazione scientifica risale al 1796 ad opera di Volta. L’unica specie vivente ai nostri giorni che sia imparentata con questa creatura è la «Mene maculata», che vive in branchi nei mari caldi della regione indo-australiana, ove si nutre di invertebrati del fondo marino; la si trova nelle acque più profonde della piattaforma continentale, mentre la «Mene rhombea» doveva vivere in acque più basse, quasi certamente in una zona lagunare delimitata da barriere corallifere. In ogni caso, la sua presenza, così numerosa da fare di essa la specie-simbolo dei giacimenti di Bolca, sta ad indicare che questa zona delle Prealpi Venete, che oggi forma una specie di area a sé stante, la Lessinia, con vette che, nel gruppo del Carega, superano i 2.200 metri, durante il Cenozoico non si era ancora sollevata e formava, appunto, un ambiente di lagune marine tropicali o subtropicali.
I giacimenti sono sparsi su un’ampia superficie, che comprende alcuni siti distinti: il Monte Purga (925 metri s. l. m.), il Monte Spilecco, la Pesciara di Bolca, il Monte Postale. La loro scoperta non è recente, ma risale al Rinascimento. È verso la metà del XVI secolo, infatti, che i primi fossili vennero scopeti e portati a conoscenza dell’ambiente scientifico e accademico, non solo italiano, ma europeo e mondiale.
Lo studioso toscano Pietro Andrea Mattioli, umanista, medico e botanico – nato a Siena il 12 marzo 1501 e morto a Trento, di peste, all’inizio del 1578, dopo essere stato al servizio dell’arciduca Ferdinando d’Asburgo, prima, e poi dell’imperatore Massimiliano II – venne a Bolca nel 1554 per esaminare alcuni fossili appena estratti, di cui gli era giunta notizia, e subito dopo li descrisse in un libro dal titolo chilometrico, comunemente riassunto in quello di «Commentarii», che è il primo testo scientifico nel quale si parla dei fossili di quella località. (Per i curiosi, il titolo completo suonava in questo modo: «Petrii Andreae Matthioli Medici Senensis Commentarii, in Libros Sex Pedacii Dioscoridis Anazarbei, de Materia Medica, Adjectis quam plurimis plantarum & animalium imaginibus, eodem authore»: un titolo veramente in linea con la moda letteraria del tardo Rinascimento e del Manierismo, preludio alle svolazzanti e fastose sonorità del Barocco.)
Così Tarcisio Caltran descrive i fossili di Bolca, in un’agile ma chiara monografia, intitolata «Bolca, laguna pietrificata» (Villafontana, Verona, Golden Time Communication, 1974, pp. 16-20):
«I primi ritrovamenti di fossili nel territorio di Bolca risalgono all’inizio del XVI secolo, ma solamente molto tempo dopo si diede inizio ad una regolare e razionale attività di ricerca e di estrazione. Da allora il numero di esemplari riportati alla luce è stato notevolissimo, quantificabile in molte decine di migliaia anche se si tratta di una stima approssimativa per la comprensibile limitatezza dei controlli effettuati nei primi secoli e la presenza di vari proprietari. Si può tuttavia affermare in tutta tranquillità che i reperti, provenienti dalle cave della "Pessàra" e dai monti Postale, Vegroni e Purga, sono presenti in tutti i maggiori nuclei di paleontologia e geologia del mondo, e pochi sono gli scienziati che non hanno potuto ancora esaminarli come meritano.
L’eccezionalità dei fossili di Bolca, la cui origine viene fatta risalire all’Eocene Medio (50-60 milioni di anni fa), risiede non solo nella quantità, ma anche nel loro ottimale stato di conservazione e soprattutto nella varietà e singolarità delle specie rinvenute. In effetti qui sono stati trovati in gran numero i pesci e le piante, marine e terrestri; non mancano peraltro i rettili, i crostacei, i molluschi, gli uccelli e molti altri esseri viventi che completano un panorama straordinariamente ricco e diversificato di un mondo scomparso, fatto rivivere da splendide immagini fissate sulla liscia pietra grigia solidificatasi sui fondali marini.
Per avere una dimensione reale del fenomeno basti ricordare che la fauna fossile, così come è stata ricostruita attraverso tante ricerche particolareggiate, è rappresentata da circa 200 specie di pesci e da una cinquantina tra vermi, crostacei, ditteri, coleotteri, ortotteri, ofidi e uccelli. Naturalmente si tratta di cifre passibili di variazione in ogni momento, grazie alle nuove scoperte ed agli studi che continuano a essere compiuti con l’aiuto di tecniche sempre più moderne e sofisticate.
Tra gli ittioliti, che interessano complessivamente 140 generi, prevalgono i Teleostei (in particolare le famiglie dei Carangidi, Clupeidi, Percidi, Chetodontidi, Menidi, Exellidi, Platacidi, Efippidi, ecc.). Di questi una gran parte è scomparsa, molti invece mostrano rilevanti somiglianze con l’attuale fauna marina della regione indo-pacifica (mari della Cina, della Malesia, dell’India), come i generi Eoplatax, Caranx, Scatophagus ed altri simili. Soltanto una piccola parte dei generi rinvenuti nella zona ha caratteristiche identiche a quelli attuali dei mari tropicali e subtropicali.
Rimanendo in tema di Teleostei, i più interessanti dal punto di vista scientifico, o semplicemente quelli più belli, se così si può dire, per il loro aspetto esteriore, sono considerati i generi Dules, Carangopsis, Naseus, Exellia, Caranx, Seriola, Vomeropsis, Mene, Archaephippus, Eoplatax, Cybium, Scatophagus, Carangodes; sono nomi che hanno fatto la fortuna di Bolca e di tutte le maggiori collezioni paleontologiche, italiane ed estere. Per inciso il genere Vomeropsis viveva nelle acque superficiali e si cibava di plancton, mentre il nobile e variopinto Eoplatax "brucava" i coralli delle scogliere. Nelle cave della "Pessàra" sono stati portati alla luce inoltre splendidi esemplari di Elasmobranchi, come gli Squali e le Razze di grandi dimensioni, abituali frequentatori delle profondità del mare aperto.
Grande interesse ha riservato anche lo studio della flora fossile, per la quale, a differenza della fauna, va subito precisato che le specie rinvenute sono tutte estinte; soltanto in qualche caso è stato possibile trovare qualche elemento di somiglianza con specie presenti in alcuni fiumi e laghi del Sud America, in particolare del Brasile. Essa è costituita da un’associazione di piante tropicali con forme tipiche del clima marittimo temperato ed è caratterizzata dalla presenza di elementi vegetali di mare, di terra e di acqua dolce, segnali evidenti che si era in presenza di un ambiente lagunare variegato.
Illustrata per la prima volta in modo completo per iniziativa dello scienziato Abramo Massalongo, la flora raggiunge le 250 specie dopo gli studi più recenti; sono presenti in una certa abbondanza le Angiosperme, tra le quali prevalgono le Monocotiledoni (graminacee, Naiadacee e Iliacee) rispetto alle Dicotiledoni (Streculiacee e Leguminose). Abbastanza rari invece sono i resti di Gimnosperme, mentre sono numerose le alghe rosse, verdi e brune. Le piante fossili di Bolca più conosciute sono senza alcun dubbio le palme, suddivise in Latanites, Hemiphoenicitese Morinda, che possono raggiungere altezze variabili fino a cinque metri; si distinguono in flabellate ed a fronde pennate a seconda della loro forma. E con le palme sono arrivati anche i fossili di frutti a completare il paesaggio, molto vicino e somigliante a quello del Pacifico attuale, ed a sollecitare la fantasia.
Come già accennato, la flora fossile ha avuto nel tregnaghese A. Massalongo il principale riferimento, verso la metà del XIX secolo; il suo lavoro è stato successivamente riveduto ed ampliato da altri due illustri ricercatori, i professori Meschinelli e Squinabol. In generale tuttavia la flora ha richiamato una minore attenzione a livello puramente scientifico, sia per il contenuto stesso della materia sia perché soverchiata dal’eccezionale attrazione esercitata dalla fauna fossile.
Non si può i ogni caso dimenticare lo straordinario e meticoloso lavoro effettuato negli ultimi decenni dal francese Jacques Blot e soprattutto dal prof. Lorenzo Sorbini, il quale ha esaminato in modo analitico una quantità notevole di fossili, ricostruendo situazioni e caratteristiche, singole e delle specie, e pervenendo a conclusioni innovative che ha illustrato in una serie di ricerche meticolose. Il mistero di Bolca non è comunque ancora stato svelato totalmente; oggetto tuttora di ulteriori analisi e confronti, conserva inalterato tutto il suo indiscutibile fascino.»
Condizioni climatiche e geologiche simili a quelle che contraddistinsero l’area di Bolca, in Lessinia, esistevano anche in altre regioni e località della odierna area pre-alpina orientale; per esempio, in quello che è, oggi, l’Altopiano del Cansiglio (al crocevia delle province di Treviso, Pordenone e Belluno), i cui fossili attestano l’esistenza di un’antichissima laguna sub-tropicale, delimitata da formazioni coralline.
Ad ogni modo, il rinvenimento di fossili come la celeberrima «Mene rhombea», ha confermato come l’intera area del Mediterraneo, nel Terziario, si presentasse con caratteristiche diversissime da quelle attuali: le Alpi erano ancora in via di formazione (si assestarono nel tardo Mesozoico, cioè, appunto, intorno ai 65 milioni di anni fa) e il paesaggio doveva essere assai simile a quello dei mari caldi della zona indo-australiana odierna, con coralli, conchiglie, tartarughe e branchi di pesci sub-tropicali, compresi gli squali, e con piante ormai estinte, i cui "parenti" più vicini vivono ora in alcune stazioni del Sud America tropicale, specialmente nell’area brasiliana.
Non si può non rimanere stupiti, ammirati e riconoscenti davanti alla meraviglia rappresentata dai giacimenti fossiliferi di Bolca, che si presentano veramente, al netto di ogni retorica, come gli scaffali o i volumi di una ricchissima biblioteca a cielo aperto, ove sono narrate le vicende delle forme viventi di un’epoca ormai così remota, che nulla, nell’ambiente e nel paesaggio odierni, farebbe supporre trattarsi del medesimo luogo. In un certo senso, visitare i giacimenti di Bolca è come ritornare indietro nel tempo e spostarsi assai lontano anche in senso geografico: ed è proprio questo il fascino della geologia, che ci ricorda la nostra piccolezza e le dimensioni enormi, a stento immaginabili, del passato della Terra e delle specie viventi, animali e vegetali, che la popolarono nel corso di milioni e milioni di anni.
Succede sovente che lo studioso di scienze della Terra, abituato, si fa per dire, a maneggiare queste quantità enormi, e parlare di decine e centinaia di milioni di anni come se fossero settimane o mesi, ossia con una familiarità e con una confidenza che provengono, appunto, dal suo tipo di studi, tenda a sottovalutare le implicazioni filosofiche delle cifre di cui parla e in base alle quali formula i suoi ragionamenti. Quando egli dice, per esempio: «sessanta milioni di anni fa», che non sono poi tanti, rispetto alla presunta età del nostro pianeta (la quale si aggira sui 4 miliardi e mezzo di anni), sta parlando, in realtà, di un ordine di grandezze temporali che è quasi inimmaginabile per la mente umana. In un arco di tempo del genere, tanto per intendersi, vi sarebbe stata la possibilità che sorgessero e si spegnessero non una sola, ma parecchie civiltà umane: e ne sarebbe avanzato quanto basta per far sparire le loro tracce, nascondendo tali eventi allo sguardo dei posteri.
Un fossile è davvero un monito, per l’uomo intelligente: quanto poco sappiamo, rispetto al tutto…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Vidar Nordli-Mathisen su Unsplash