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Grazia e natura

Che cosa sia la grazia, i teologi se lo domandano da sempre; ma non sempre sono giunti alle medesime risposte. Anche in questo campo, la cosiddetta "svolta antropologica" della teologia cristiana moderna sembra aver portato i suoi frutti di ottimismo e di volontarismo, quasi che l’uomo sia il solo artefice, in ultima analisi, della propria salvezza, sì che la grazia altro non sarebbe, a quel punto, che una sorta di premio aggiuntivo, di conferma, di rassicurazione, del quale, però, a ben guardare, non vi sarebbe poi un reale bisogno.

Il benedettino Cyprian Cooney è stato autore, negli anni famigerati intorno al 1968, di un manuale di "teologia contemporanea" (eloquente l’aggettivo "contemporanea": come se la teologia, come un qualsiasi sapere puramente umano, potesse andare soggetta agli alti e bassi dell’invecchiamento e dell’aggiornamento culturale), sembra essere stato un fautore della concezione "ottimistica", e dunque implicitamente anti-agostiniana, della grazia, poiché ha posto l’accento sulla stretta e inscindibile compenetrazione fra la natura e la grazia, sì che, a un certo punto, i suoi lettori non possono evitare di chiedersi che bisogno vi sia stato della Redenzione, visto che il mondo era già talmente pieno di grazia, da risultare decisamente buono in se stesso.

Cooney, un po’ come Pelagio, parla poco del Peccato originale; non distingue adeguatamente fra la natura "ab origine", creata buona da Dio, e la natura ferita dal peccato; sicché, leggendo il suo manuale, sorge spontaneo il pensiero che gli uomini, tutto sommato, possano salvarsi con le loro forze, dato che nulla manca, alla bontà della loro natura, per il raggiungimento d’una tale meta, e visto che, soprattutto, non manca loro il dono della grazia, inscindibilmente unita alla loro natura e offerta loro fin dall’inizio del mondo.

Certo, si coglie, nella recensione fatta da N. Tornese su «La civiltà cattolica», un’ombra di perplessità, se non proprio d’imbarazzo, specie laddove si dice, pur dopo molte lodi, che «forse sarebbe stato meglio dimostrare, in più d’un caso, come l’interpretazione contemporanea delle antiche e immutabili verità di fede non contrasti sostanzialmente con quanto si affermava nei secoli passati, rilevando più chiaramente come si tratti di uno sviluppo omogeneo, di un arricchimento, inerente alla natura del "depositum", piuttosto che di un salto qualitativo». Linguaggio cauto e circospetto: il fatto è che Cooney non si perita di dire, con estrema, e quasi brutale chiarezza: fino a ieri si è detto in questo modo, ora si è compreso che bisogna dire in tutt’altro. Con la tipica immodestia e con la tipica presunzione dei teologi "progressisti" della generazione post-conciliare, i quali avevano improvvisamente capito tutto, dopo quasi duemila anni di confusione e di ritardo. Altro che "depositum": parrebbe, a sentir lui, e quelli come lui, che la teologia sia un bene culturale perfettamente laico e puramente umano, bisognoso di aggiornamento continuo, altrimenti rischia di diventare vecchio e inutilizzabile. Ma per fortuna ci sono loro, i teologi "progressisti", che provvedono alla bisogna, facendo volare la polvere e gli stracci e lasciando irrompere ventate d’aria pura nell’atmosfera chiusa e stagnante dei seminari e delle facoltà teologiche.

Scrive, dunque, Cyprian Cooney nella sua «Guida alla teologia contemporanea» (titolo originale: «Understanding the new Theology», Milwaukee, The Bruce Publishing Company, 1969; traduzione dall’inglese di F. Ferrero, Torino, Gribaudi, 1970, pp. 178-81):

«Sotto l’influsso di Sant’Agostino, la teologia occidentale arrivò a considerare la grazia come una specie di aggiunta alla creazione. Prima Dio creò l’uomo, e lo creò con un’umanità piena e completa; poi aggiunse la grazia, elevandolo con tale aggiunta ad un nuovo e più alto stato di esistenza, di potere e di destino.

I teologi moderni tendono a disapprovare questo modo di vedere il problema. Esso rende la grazia ancora più difficile da capire di quanto già non sia in realtà e dà l’impressione che Dio abbia creato due mondi, quello della creazione e quello della grazia. Poiché la grazia tocca l’uomo così profondamente, i teologi moderni ritengono possibile un’altra spiegazione, che presenti la natura umana e la grazia più realisticamente unite fra loro.

Partendo dall’insegnamento tradizionale che la grazia è prima di tutto la nostra chiamata alla vita eterna, questi teologi la considerano fondamentalmente come la possibilità di vita eterna trasmessa da Dio nell’atto stesso della creazione dell’uomo. L’uomo, spiegano, non è mai esistito per un altro scopo finale che non fosse la vita eterna nella comunione con la Trinità. La sua umanità non è mai stata destinata a una sorte diversa da questa. Il fatto che l’uomo non possa conseguire il suo unico vero destino, cioè la vita eterna, se non mediante la grazia, non significa di per sé che PRIMA sia stato creato e che solo IN SEGUITO gli sia stata data la possibilità di raggiungerlo. Tale possibilità va piuttosto considerata come parte integrante del suo essere, sin dall’inizio.

Questa concezione è certamente in armonia con le intuizioni dei teologi orientali sia antichi che contemporanei. Per i pensatori orientali, la creazione fisica dell’unico disegno di Dio: iniziare il processo che porterà l’uomo alla completa partecipazione della vita du Dio stesso, nella sua augusta Trinità.

Per prima cosa, quindi, i pensatori moderni tendono a sostenere che l’uomo venne CHIAMATO alla vita eterna nell’atto stesso della creazione. Il suo essere era "orientato verso" la vita eterna, o "modellato per" essa, non a causa della sua umanità, ma per una speciale possibilità "incorporata" da Dio nella sua umanità sin dall’inizio.

Ma la chiamata non è sufficiente. Ci deve essere anche una possibilità di RISPOSTA di adempimento della chiamata. L’uomo ebbe anche questa capacità, ma, ancora una volta, la ricevette nell’atto stesso della creazione e non come un’aggiunta successiva.

Questo significa che, fin dall’inizio, l’umanità dell’uomo fu da Dio stesso dotata dell’energia necessaria per portare avanti il processo di una vita rivolta alla pienezza della comunione beatifica con la Trinità. In una parola, l’uomo non fu mai soltanto in possesso delle capacità umane, ma fin dal primo momento ebbe un’umanità arricchita dalla possibilità di arrivare alla vita con Dio. E questa possibilità deriva direttamente dalla speciale presenza e attività di Dio in lui, presenza e attività parimente associate al’atto stesso della creazione.

Allorché questa linea di pensiero è stata proposta, non sono mancate le contestazioni. Nel 1950, ad esempio, l’enciclica di Pio XII "Humani Generis" metteva in guardia contro ogni insegnamento che minacciasse un’"attenuazione" della distinzione fra grazie e umanità. Essa ammoniva Essa ammoniva, in modo particolare, contro tutto ciò che può far pensare che la grazia sia non tanto un libero dono, quanto un qualcosa di dovuto all’essere dell’uomo.

Un simile avvertimento ebbe effetto. In pratica, bloccò per circa un decennio il pubblico dibattito. Con il Vaticano II, tuttavia, e soprattutto con lo spirito di aperta ricerca inaugurato nella Chiesa, i teologi tornarono di nuovo sull’argomento. E trovarono altra acqua per il mulino della loro riflessione nello sviluppo del pensiero contemporaneo, nello sviluppo degli studi biblici e nella crescente influenza della teologia orientale.

Oggi essi tendono a pensare che le condizioni imposte dalla "Humani generis" possono essere rispettate anche con una visione unitaria dei rapporti fra grazia e natura umana. E spiegano che la concomitanza della grazia con la natura, concomitanza verificatasi fin dall’inizio, non implica che esse DEBBANO coincidere: la grazia, in altre parole, rimane totalmente un dono. Né è possibile concludere che, poiché il vero destino dell’uomo è la vita eterna, la chiamata e la risposta concernenti questo destino sono essenzialmente degli elementi della natura umana in quanto tale. La differenza tra umanità e grazia rimane intatta. Possiamo dunque tranquillamente considerare la grazia come trasmessa all’uomo nell’atto stesso della creazione. L’uomo non è stato creato senza la grazia, né è capace di portare avanti il processo della sua vera vita senza di essa.»

Strano ragionamento davvero.

Se la natura e la grazia non coincidono affatto, e se la grazia è e rimane un libero dono di Dio, allora diventa poco più di un sofisma bizantino il dire che la grazia è presente nella natura (umana) sin dall’inizio e che le è stata trasmessa già nell’atto della creazione. Come: se è stata donata all’uomo fin dall’inizio, egli non ne avrebbe dunque più bisogno? L’autore, a questo punto, si affretta a parlare di una "possibilità", per l’uomo, di realizzare il fine di grazia cui è stato destinato. Benissimo: ma se si tratta di una mera possibilità, allora resta inteso che la grazia non è stata data interamente all’uomo sin dalla creazione, ma che gli è stata data come semplice possibilità. Se l’uomo avesse la grazia fin dall’inizio, che bisogno vi sarebbe della Redenzione? E che bisogno vi sarebbe, soprattutto, del libero arbitrio? Pieno di grazia fin all’inizio, e dunque "naturalmente" buono (alla Rousseau, per intenderci), l’uomo non sarebbe toccato dal peccato originale: come sosteneva Pelagio, egli potrebbe dunque salvarsi con le sue sole forze, evitando il peccato e avviandosi naturalmente al suo destino di salvezza. Ma la verità è che, in tal caso, l’uomo non sarebbe altro che un burattino nelle mani di Dio: un burattino destinato a fare sempre e unicamente il bene e, pertanto, votato, non virtù propria, ma naturalmente e inevitabilmente, alla comunione finale con Dio. Se così fosse, allora l’uomo non avrebbe la possibilità di dir "no"; non sarebbe previsto, nel piano della creazione, il libero arbitrio, cioè la facoltà umana di assentire o dissentire dal piano di salvezza predisposto da Dio.

C’è un’altra conseguenza poco simpatica nella tesi esposta da Cooney, in esplicita polemica con la "Humani generis" di Pio XII e in esplicita, entusiastica sintonia con i teologi "avanzati" e "progressisti" del Concilio Vaticano II: che si fa coincidere la natura umana con la natura "tout-court" e, dunque, che si cade nel più vieto antropocentrismo. Solo l’essere umano attende la redenzione, visto che a lui solo è stata donata la grazia, e ciò fin dall’inizio? Non è vero, invece, come sostiene San Paolo, che tutto il creato «geme e soffre come nelle doglie del parto», in attesa della redenzione (Epistola ai Romani, 8, 22)? Non soffrono, forse, anche gli animali, e perfino le piante, impegnati come sono nella lotta per la sopravvivenza? E dunque la loro sofferenza sarebbe perfettamente inutile, e servirebbe solo e unicamente da strumento passivo al piano di redenzione divina, che si rivolge all’uomo, ad esclusione di tutte le altre creature? Se così fosse, la sofferenza delle creature non umane sarebbe totalmente gratuita, nel senso di priva di significato: un abisso di dolore che resterà eternamente senza risposta, se non in funzione del bene di qualcun altro, ossia dell’uomo.

Ebbene: qualcuno può immaginare un Dio così insensibile, così crudele, così totalmente privo di misericordia, da avviare milioni di creature incolpevoli a una vita di sofferenze e ad un destino di morte e di annientamento totale, senza riscatto alcuno, senza un sia pur minimo filo di luce e di speranza, al solo scopo di preparare la redenzione di un’unica specie, quella umana: quasi un Moloch assetato di vittime, che non si placa se non attraverso il loro sacrificio doloroso?

L’uomo, dunque — per tornare al ragionamento del nostro teologo — «non è stato creato senza la grazia, né è capace di portare avanti la sua vera vita senza di essa»; ma questo non è tutto: perché vi è una grazia originaria, infusa in tutti gli esseri umani fin dal concepimento, anzi, infusa in tutta la natura, fin dall’origine del mondo, e vi è una grazia che è donata da Dio per consentire alle Sue creature di incontrarlo, di conoscerlo, di sceglierlo e di amarlo, e questa è una grazia che non viene distribuita sempre e a chiunque, indiscriminatamente e illimitatamente, ma a chi la chiede, a chi la cerca, a chi ne è affamato ed assetato, e a chi se ne rende meritevole — adoperiamo un linguaggio umano, dunque imperfetto – per mezzo di una vita retta e di una coscienza pura.

Certo, la grazia è un dono di Dio; e, a rigore, nessun uomo è degno di riceverla per i suoi meriti, a nessuno spetta di diritto: in questo ha ragione Lutero; ma ha torto, Lutero, quando pensa che le opere dell’uomo a nulla servano, e che la sola fede sia bastevole: tanto più che nemmeno la fede, a ben guardare, è sufficiente; perché la fede è, in ultima analisi, un dono della grazia, e dunque non sta all’uomo darsela o non darsela, ma solamente riceverla, e riceverla quando e come piace allo Spirito. La grazia, infatti, è mistero: e tutto quel che possiamo dire, rispetto ad essa, è che il sincero, profondo, incessante desiderio di riceverla aiuta l’uomo a realizzare un tale desiderio, mentre la sua assenza lo priva di essa e lo esclude in partenza, almeno in via ordinaria: perché sta di fatto che, talvolta, si vede un uomo senza fede, toccato dal dono misterioso della grazia, e si vede ugualmente un uomo, che si affanna e si affatica per trovare Dio, che ne rimane privo, almeno in apparenza. Ecco il punto: almeno in apparenza! Perché la grazia è mistero, e "mistero" vuol dire che nessuno, dall’esterno, può dire d’averla vista, d’averla riconosciuta, d’averla compresa; né essa, né i frutti spirituali che da essa scaturiscono in colui che la riceve.

Si vede che questa semplice, semplicissima verità, deve essere un tantino sfuggita allo sguardo, un po’ troppo umano e non di rado presuntuoso, dei teologi "progressisti" e modernizzatori: come Cyprian Cooney e come tanti altri, figli della stagione sessantottina.

Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio (Raffaello)

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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