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28 Luglio 2015Quando scoppiò la Prima guerra mondiale, fra le infermiere che prestarono la loro opera negli ospedali militari vi furono le suore missionarie della Consolata, il ramo femminile — sorto nel 1910 – di una nuova congregazione religiosa fondata a Torino, nel 1901, da don Giuseppe Allamano, rettore del Santuario della Consolata.
Alcune suore non ebbero bisogno di interrompere la loro opera missionaria per recarsi a prestare servizio negli ospedali militari italiani, perché erano già in zona di guerra: si trovavano, infatti, in Kenya nel 1915, e furono destinate a servire come infermiere nell’ospedale militare di Voi, affollato di malati per le gravi fatiche e privazioni cui erano sottoposti i portatori africani dell’esercito inglese, impegnato contro i Tedeschi del Tanganica. Fra esse c’era suor Irene Stefani, nata ad Anfo, nella Val Sabbia, sul lago d’Iseo, il 2 agosto 1891 col nome di Aurelia Mercede, e che sarebbe morta a soli 39 anni, a Gikondi, sempre nel Kenya, il 31 ottobre 1930, per una malattia contagiosa contratta mentre curava i malati.
Questa umile, dolcissima ed eroica creatura ebbe fin da giovanissima la vocazione di farsi suora missionaria: entrata nell’ordine della Consolata nel 1911, a diciannove anni, nel 1916 era già in servizio a Kenya, in condizioni terribili, presso l’ospedale militare di Voi, con una sola consorella e un sacerdote cattolico quali unici compagni; per essere poi trasferita, nel 1917, nell’ospedale militare di Kilwa Kiwinje, sulla costa meridionale del Tanganica – ove si erano spostate le operazioni di guerra contro il piccolo ma agguerrito esercito di von Lettow-Vorbeck, l’abile difensore dell’Africa Orientale Tedesca -, in condizioni, se possibile, ancora più drammatiche. I degenti salirono fino a tremila e le cure che ricevevano erano assolutamente insufficienti; né le autorità britanniche si davano troppo pensiero di quei disgraziati che, per esse, erano solo un fastidioso effetto collaterale delle operazioni militari.
Un giorno capitarono decine e centinaia di indigeni delle Seychelles che erano stati arruolati come operai, in numero di 600, per poi scoprire di essere destinati, invece, alla durissima mansione di portatori nella boscaglia equatoriale, cui non erano assolutamente adatti. Si ammalarono pressoché tutti nel giro di pochi giorni, furono ricoverati — si fa per dire — e più o meno abbandonati al loro destino; morirono per la maggior parte. L’ufficiale medico inglese era troppo cinico o troppo realista per prendere seri provvedimenti — anche se, a onor del vero, il suo successore si sarebbe dimostrato molto più umano e sollecito, prendendo energici provvedimenti per migliorare le cose – mentre gli infermieri arabi e i barellieri facevano quel che volevano e si rifiutavano persino di aprire l’armadio delle medicine perché le suore potessero somministrare ai malati il chinino: e questo benché la presenza delle religiose fosse stata concordata con le superiori autorità britanniche, che ne avevano richiesto espressamente i servigi.
Suor Irene è stata una di quelle donne che sembrano venute «di cielo in terra a miracol mostrare»: tutti coloro che la conobbero, cattolici e non, indistintamente la ricordano come una persona incredibilmente altruista, generosa e sempre disponibile, sempre sorridente, per quanto fosse rotta dalla fatica e dagli strapazzi. Non si concedeva un attimo di riposo e non considerava affatto il suo servizio come limitato alla cura della salute fisica dei pazienti, ma anche e soprattutto come servizio alle anime. Dedicava tutto il suo tempo, anche una parte di quello teoricamente destinato al riposo, a confortare i malati e a battezzare i moribondo, ma sempre su loro richiesta e dopo essersi accertata che tale fosse realmente la loro volontà, e che avessero ben compreso quel che ella andava loro dicendo (a tal uopo, studiava indefessamente le lingue indigene, sfruttando ogni minuto del suo pochissimo tempo libero).
Una volta, saputo che un malato era morto prima di ricevere il battesimo, che si accingeva a somministrargli, e che era stato trasportato in riva al mare, per esservi gettato assieme a tanti altri disgraziati, corse sul luogo e si mise a cercarlo, afferrata da un oscuro presentimento. Lo trovò, alla fine, sotto una pila di cadaveri, proprio l’ultimo: imbrattando la sua bianca veste con il sangue e il pus di tutti quei corpi in sfacelo, ebbe la gioia di trovare ancor vivo e lucido, incredibilmente, il "suo" uomo; lo fece riportare all’ospedale dove poté battezzarlo, prima che morisse, l’indomani, e questa volta per davvero. È solo un episodio; ma ce ne sarebbero tanti da ricordare.
Per rendere un’idea dello spirito con cui operava suor Irene, e delle condizioni materiali in cui si trovò ad operare, specialmente nell’ospedale da campo di Kilwa Kiwinje, ci piace riportare questa pagina di una sua biografia, scritta da una consorella della protagonista (da: Gian Paola Mina, «Gli scarponi della gloria», Torino, Edizioni Missioni Consolata, 1967, pp. 114-115):
«La sua dedizione era un enigma per gli infermieri, che non riuscivano a comprendere far ciò che lei faceva per degli sconosciuti, molti dei quali fra pochi giorni sarebbero finiti in bocca ai pesci.
Il ghigno ostile e beffardo, con l’avevano accolta all’inizio, andava a poco a poco scomparendo di fronte a quella bontà coraggiosa che non chiedeva, non imprecava, non condannava, soggiogando con la sola forza dell’esempio e della carità proprio come S. Pietro Clavier che on inveiva contro gli schiavisti ma dava se stesso per liberare i prigionieri.
In sua presenza, nessuno ardiva più seviziare i malati. E se qualcuno usava ancora lo staffile, lo faceva di soppiatto, assicurandosi che lei fosse lontana. Non si può più essere malvagi, quando si è incontrata la bontà vera personificata in una creatura.
Un giorno fu piacevolmente sorpresa vedendo un infermiere sollevare un infelice, caduto nel viaggio forzato verso le baracche delle latrine; fu più ancora stupita nel vedere che lo riaccompagnava a letto. Gli sorrise, ringraziandolo: – Dio premierà la tua carità -, gli disse contenta.
Ne sorprese altri porgere il cibo ai malati, dissetarli, riavviarne le coperte. Il loro gesto era ancora sgraziato, impacciato, come di chi non è aduso alle finezze della carità; lei lo apprezzava ugualmente, e ne giubilava. Diceva a suor Cristina [suor Cristina Moresco, piemontese, sua consorella, alla quale si deve se tanti episodi come questo non sono scomparsi nell’oblio, perché suor Irene non teneva un diario]: – Vede che questi poveri infermieri hanno qualcosa di buono in fondo al cuore.
Non immaginava di essere stata lei a far venire a galla quel fondo, con la persuasione irresistibile dell’esempio.
Qualche infermiere cominciò a domandarle spiegazioni sull’uso delle medicine; qualche altro la pregò di somministrarle lei stessa, confessandole di non intendersene affatto e di non aver capito nulla delle indicazioni del dottore.
A quelle richieste timide, che aprivano il varco sospirato verso una migliore assistenza ospedaliera, , suo Irene esultava, e figurarsi la sua gioia quando finalmente anche l’arabo della farmacia le aprì la porta e le disse di prendere tutto ciò di cui aveva bisogno per i suoi protetti.
Lo ringraziò con le lagrime agli occhi, e l’arabo commossosi disse: – Stupido, perché ho aspettato tanto a farle questo regalo?
Ancora una volta la carità paziente, umile, eroica, aveva sfondato le cieche barriere della diffidenza e dell’egoismo
L’assistente indiano riferiva al capitano medico le incomprensibile e straordinarie cose che la piccola suora stava facendo in quella bolgia d’inferno, dove riusciva perfino ad ammansire gli infermieri.
Il capitano sbuffava e noi rispondeva. Quando andava all’ospedale, aveva sempre lo stesso cipiglio duro e sprezzante vedeva suor Irene parlare familiarmente con i malati, occuparsi degli schizofrenici, dei senza-speranza… Vedeva e fumava rabbiosamente, per smaltire la stizza che gli ribolliva in corpo nel trovarsi in quell’immondezzaio umano. Come faceva quella giovanissima suora a resistere lì dentro? Le lo salutava con cortesia, anzi con deferenza, rilevava il dottore indispettito.
E neanche a lui chiedeva nulla. Egli sapeva che non si impicciava affatto negli ordini i più strambi che avesse dato; sapeva che non avrebbe fatto rapporto agli uffici superiori, che non avrebbe criticato né condannato il suo operato…
Sapeva che era come se non ci fosse, quella suora, al lazzaretto; eppure c’era, accidenti , e faceva sentire la sua presenza dappertutto. Il dottore, suo malgrado, si trovava a pensare a lei con ammirazione, e si domandava se fosse una pazza o una creatura di un altro mondo. Forse era un angelo vestito di carne umana.
La stessa cosa dicevano gli altri ufficiali del campo dei portatori e quelli dell’ospedale, Qualcuno aveva più volte cercato di intavolare discorso con lei: diamine, quattro chiacchiere per far passare un po’ la noia dell’isolamento e della fatica si scambiano sempre volentieri. Sono un distensivo anche quelle. Suor Irene rispondeva garbatamente alle prime battute che si riferivano alla guerra de all’ospedale; appena l’altro cambiava argomento, faceva un grazioso cenno del capo e fuggiva via, sorridendo.
Ogni mattina era puntualissima a presentarsi al rapporto degli ufficiali e del personale del campo, come prescritto dal regolamento. Salutava tutti con semplice cordialità e raggiungeva subito la lunga fila dei nuovi venuti che, accosciati o distesi per terra, attendevano di essere ammessi all’ospedale. Il suo occhio esperto scopriva presto i casi gravi a cui dare la precedenza, e allora la missionaria e l’infermiera entravano in azione. S’inginocchiava presso il nuovo venuto, parlava a voce alta lo istruiva e se era necessario lo battezzava prima ancora che il dottore l’avesse visitato. Gli ufficiali erano sempre là, fumando e chiacchierando attorno al tavolo, all’ombra delle palme. La piccola suora sentiva i loro occhi puntati u di lei forse la canzonavano, forse li infastidiva. Ella non se ne curava. C’era una povera creatura che moriva e dimenticava tutto, pur di salvarne l’anima. Non cera tempo da perdere.»
Una volta il filosofo Nietzsche ebbe ad osservare che il tipo femminile superiore è più raro di quello maschile, ma assai superiore ad esso; crediamo che tutta la breve, umile, eroica esistenza di una donna come suor Irene Stefani, confermi la verità di questa intuizione.
«Non si può più essere malvagi, quando si è incontrata la bontà vera personificata in una creatura»: in questo concetto c’è una verità profonda e misteriosa, talmente potente che potrebbe letteralmente spostare le montagne, se il suo segreto fosse meditato a fondo. Eppure, per comprenderlo, basta vedere dove suor Irene trovava la sorgente della sua inesauribile energia e, più ancora, della sua inalterabile bontà: la preghiera. Ella pregava sempre, ovunque poteva, ed esortava anche gli altri a rivolgere il pensiero a Dio. Proprio come Teresa di Calcutta, dedicava le stesse attenzioni — anzi, semmai, le maggiori attenzioni — proprio ai più infelici, ai moribondi che, fra qualche ora o fra qualche minuto, avrebbero lasciato libero il loro miserabile giaciglio d’ospedale, e i cui corpi sarebbero stati gettati in mare o nelle fosse comuni. Per lei, tutte le anime meritavano il massimo del rispetto, dell’attenzione, dell’amore; per tutti aveva un sorriso e una parola di consolazione e di speranza; non si arrendeva mai, non si scoraggiava mai, non perdeva mai quel suo sorriso celestiale, quella sua benevolenza semplice e schietta.
Era buona, non buonista: non si adirava mai, non protestava nemmeno di fronte agli abusi; agli infermieri arabi che, all’inizio, le ridevano in faccia quando lei chiedeva qualcosa per i malati, all’ufficiale medico inglese che la ignorava e trascurava le norme più elementari, se non della sua professione, almeno della umanità, lei non rispondeva che con quel suo sorriso mite, di persona incapace di odiare chicchessia, forte della propria pazienza e perseveranza. Sapeva far emergere negli altri, in tutti, persino nei più maldisposti, il fondo buono che si nasconde nel mistero di ogni anima: e operava un tale miracolo per mezzo della forza travolgente dell’esempio. Non parlava dell’amore, lo praticava; non esortava al bene, lo faceva: era tutt’uno con esso, perché il suo cuore era tutt’uno con Dio.
Tutti noi, probabilmente, ci siamo domandati, almeno una volta nella vita, cosa succederebbe se incontrassimo una persona che è l’incarnazione delle qualità migliori della natura umana, prima fra tutte la bontà; se sapremmo riconoscerla, e se ciò cambierebbe la nostra esistenza; se saremmo all’altezza di un simile incontro. Forse ne resteremmo turbati, spaventati. Vedremmo ciò che l’essere umano può diventare, secondo la propria natura e non — come credono i razionalisti e i materialisti, i nipotini di Voltaire e di Sartre — sacrificando la natura umana. E vedremmo, riflessa in quell’anima, la nostra stessa anima, allo stato potenziale: vedremmo ciò che anche noi potremmo diventare, ciò che anche noi potremmo essere.
Ne proveremmo imbarazzo, incredulità, forse anche vergogna, specialmente confrontando quel modello sublime con la meschinità di quel che effettivamente siamo e facciamo, con il nostro presente modo di pensare e di vivere, sempre all’inseguimento di qualche bene fuggevole, di qualche soddisfazione meschina. Proveremmo un immenso rammarico per tutto il tempo sprecato nell’ignoranza, per tutte le energie dissipate in cose frivole, del tutto secondarie, quando non — addirittura — dannose per noi stessi. Capiremmo che tutto quel che non ci avvicina all’essenziale, ci allontana dalla parte migliore di no stessi. E vedremmo, con assoluta, disarmante chiarezza, che l’essenziale è Dio: farsi una cosa sola con Lui.
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