
Le ragioni dell’anima di Padre Brown nel rispetto del mistero umano
28 Luglio 2015
A chi o a che serve il monachesimo contemplativo?
28 Luglio 2015A colui che è appassionato di storia, può suscitare qualche perplessità, qualche interrogativo, il fatto che la legislazione cimiteriale sia stata una delle prime cose di cui si è preoccupata la Francia rivoluzionaria; vien fatto di chiedersi: con tanti problemi che la Convenzione doveva affrontare — e, dopo di essa, il Direttorio, e infine il regime napoleonico -, possibile che quella fosse percepita come una priorità? Occuparsi dei morti, delle sepolture, dei cimiteri? Far scrivere sul portone del camposanto, come fece Joseph Fouché: «La morte è un sonno eterno»? Far promulgare l’editto di Saint-Cloud, che escludeva ed espelleva le sepolture dalle aree cittadine, imponendo una rigida separazione fra i vivi e i morti? (Oh, ma per ragioni puramente igieniche e "umanitarie", sia ben chiaro, e non per durezza ideologica o mancanza di umanità; al contrario!).
Eppure, si tratta di una costante. Dove gli umanesimi laici arrivano al potere – è una giusta e acuta osservazione di Vittorio Messori – negli Stati Uniti d’America, in Francia, nella Russia ribattezzata Unione Sovietica – ecco che una delle primissime cose che i nuovi governi si affrettano a fare, è quella di mettere in chiaro che la morte non ci riguarda minimamente, perché — come aveva lepidamente osservato il filosofo materialista ed edonista Epicuro — dove c’è lei, non ci siamo noi, e dove ci siamo noi, lei non c’è (ancora). Come mai tanta solerzia nei confronti di una questione apparentemente così spirituale, così intima, così privata, da parte di governi imbevuti della filosofia del fare, e quindi — si presume — tutt’altro che inclini alle speculazioni bizantineggianti su questioni lontane dalla vita pratica e concreta?
Eppure, a ben guardare, una ragione c’è: ed è, in fin dei conti, piuttosto evidente; talmente evidente, che la sua stessa evidenza l’ha fatta passare inosservata, e quindi l’ha nascosta e resa, in un certo qual senso, misteriosa. Invece non c’è nulla di misterioso nel fatto che un regime basato su di un umanesimo laico, ossia sull’umanesimo che esclude totalmente Dio dall’orizzonte esistenziale, e che fonda tutto esclusivamente sull’uomo, voglia partire proprio da qui, da questo particolare aspetto della organizzazione sociale: dalla questione della morte. Infatti, per un umanesimo laico, sia esso totalitario o "democratico", la morte è lo scacco supremo, il granello di sabbia che potrebbe inceppare l’intero meccanismo: è lo scandalo intollerabile, e perciò inammissibile, capace di vanificare tutta l’umana presunzione, su cui codesti regini si fondano.
Aveva visto giusto, perciò, dopo Ippolito Pindemonte, il poeta Ugo Foscolo (che era un laico e un materialista, si badi: ma un laico intelligente e un materialista pensoso e problematico), allorché, scrivendo il carme «Dei Sepolcri», volle richiamare l’attenzione, pur in un periodo di profondi rivolgimenti sociali, politici ed economici e di particolare significato per la formazione della coscienza nazionale italiana, sul significato delle tombe e sulla riflessione relativa al senso del legame esistente fra i vivi e i morti, fra la generazione attuale e quelle passate. Aveva colto perfettamente nel segno: la legislazione "illuminista" (prima l’austriaca dei sovrani "illuminati", poi la francese della Rivoluzione dell’89 e di Napoleone) aveva di mira la distruzione di quel legame, di quella continuità, e desiderava occultare, se possibile, e in ogni caso allontanare dalla vista (e dai pensieri) lo spettacolo delle tombe, perenne e inequivocabile testimonianza della fragilità e della transitorietà della condizione umana.
Citiamo il seguente passo dal libro di Vittorio Messori «Scommessa sulla morte» (Torino, S.E.I., 1982, pp. 97-98):
«Quell’Illuminismo del quale, dunque, siamo tutti figli — in America, come in Europa, come in Unione Sovietica — arriva al potere politico alla fine del Settecento: con la rivoluzione americana prima e, soprattutto, con la rivoluzione francese poi.
Appena raggiunta la facoltà di imporre leggi, questi nostri trisavoli si affrettano a decretare un provvedimento significativo: ordinano cioè l’espulsione, urgente e forzosa, di ogni tomba dai luoghi abitati. Quasi che, non potendo abolire per legge la causa, la morte cioè, cella morte si servano per rendere almeno invisibile l’effetto, il cimitero.
Si intende: conosciamo bene le "gravi ragioni igieniche" accampate da quei signori per giustificare il loro provvedimento, presentato ovviamente come "segno di progresso".
Ma c’è sempre un petulante, un indiscreto. In questo caso il guastafeste è ancora Louis V. Thomas, l’antropologo, che ha studiato a fondo le leggi sui cimiteri della nuova Europa dopo la rivoluzione: "Dietro quei provvedimenti in apparenza molto razionali, c’è in realtà l’alibi nevrotico inventato da una società che tenta di sottrarsi alla sua angoscia".
Questa la conclusione dello studioso d’oggi, dopo l’analisi delle laiche disposizioni funerarie. Le quali altro non erano che la traduzione in decreto-legge dell’appello lanciato da uno dei padri più prestigiosi della nuova cultura, Wolfgang Goethe". "Via le tombe! Via dalle tombe!", esortava dunque quel grande, un altro nostalgico del paganesimo e delle sue superstizioni. Invece che avanti si andava anche qui indietro, si ritornava ai terrori degli antichi per i quali la sola vista di un sepolcro bastava per essere colpiti dal "fascinum", il maleficio, il malocchio, la jettatura.
Le culture della ragione esordiscono dunque con atteggiamenti irragionevoli? Le culture nuove riscoprono in realtà ciò che è vecchio?
A conferma del sospetto, i provvedimenti cimiteriali del mondo finalmente illuminato hanno tutti un punto in comune: evitare in ogni modo che le case dei morti siano visibili dalle case dei vivi. Per ottenere quel risultato le precauzioni sembrano non bastare mai: i giacobini della Rivoluzione e, dopo di loro, il Bonaparte avevamo fissato prima in duecento, poi in cinquecento metri la distanza dei cimiteri dalle prima case abitate.
Ma per tutto l’Ottocento sino ai primi del Novecento è un continuo fervore di progetti per costruire speciali ferrovie che raggiungano le necropoli, le città dei morti, da relegare in luoghi remoti, solitari, inaccessibili. In società dove la gente moriva di pellagra, di malaria, di inedia, dove mancavano ferrovie e strade per i vivi, grandi somme furono spese per realizzare quei progetti incomprensibili e insensati soltanto per chi non scorga l’angoscia che spingeva a por mano alla borsa.
In qualche caso le autorità, ansiose di impiegare in quelle necropoli inaccessibili le magre risorse nazionali, furono dissuase solo da rivolte popolari: meno nevrotizzata dei suoi padroni, la gente "comune" (o "normale, come si dice con termine indicativo) non intendeva farsi rubare anche i suoi morti.»
Insomma: nei regimi fondati sull’umanesimo laicista e secolarizzato, bisogna fare in modo di allontanare la vista delle tombe dallo sguardo dei vivi; bisogna fare in modo che i vivi, se proprio vogliono andare a trovare i loro morti, siano costretti a fare almeno un po’ di strada e impieghino almeno un po’ di tempo, quanto basta per rendere la cosa non proprio semplicissima; e questo proprio mentre gli urbanisti, gli amministratori e gli architetti danno fondo a tutte le risorse del loro ingegno, della loro padronanza tecnica, della loro inventiva, per abbattere le distanze e rendere più facili e più veloci possibili gli spostamenti delle persone (e delle merci), anche in mezzo al traffico cittadino, anche nei centri storici più intasati e congestionati.
Vittorio Messori cita la Rivoluzione americana e quella francese, poi il regime sovietico: avrebbe potuto concludere il suo ragionamento con il totalitarismo democratico, il quale, più raffinato e più abile, sul piano propagandistico, degli altri totalitarismi umanistici, non si impegna in una battaglia dall’esito incerto per rendere MATERIALMENTE difficile la vista delle tombe da parte dei vivi, ma dispiega tutte le sue risorse per fare in modo che si crei una distanza PSICOLGICA, CULTURALE, SPIRIRITUALE, fondata sul disinteresse e sulla inconsapevolezza dei vivi nei confronti dei morti.
La ragione è sempre la stessa: se c’è la morte, allora l’uomo non è onnipotente; e qualunque sistema politico che sia fondato sulla pretesa dell’umana onnipotenza non può che risultarne implicitamente, ma inesorabilmente, screditato e delegittimato. Non solo: se la morte c’è, allora una cultura basata sulla pretesa di onnipotenza dell’uomo, viene sbugiardata e messa con le spalle al muro; e qualunque psicologia che si fondi sulla pretesa di onnipotenza dell’uomo, entra in crisi e scivola verso il suo opposto: lo scoraggiamento cronico e la disperazione. L’uomo, divenuto consapevole di dover morire, subisce un tracollo emotivo e un gravissimo trauma esistenziale: il suo essere, come afferma il filosofo Heidegger, diviene un essere-per-la-morte; la sua vita, una specie di assurdità, di non senso; i suoi progetti, illusione e follia; la sua storia, una lunga e monotona successione di eventi tragicamente ironici.
In un certo senso, in una situazione del genere, accade quel che accadrebbe se si verificasse una invasione aliena, da parte di esseri infinitamente più potenti degli umani: tutte le nostre certezze crollerebbero, a cominciare dalle nostre istituzioni politiche e dalle nostre credenze religiose, perché spazzate via da un elemento nuovo e insospettato: una forza immensamente superiore a quella umana, accompagnata da una intelligenza che sovrasta di tanto la nostra, quanto la nostra sovrasta quella degli animali. Ora, perché una società rimanga salda sulle proprie basi, è necessario che il potere politico, che su di essa si esercita, non abbia rivali ad esso pari, e soprattutto ad esso superiori; e che le divinità nelle quali essa crede, non abbiamo rivali di pari potenza, o di potenza addirittura superiore, in altre divinità. Se tali circostanze, invece, si verificano (ed è qualcosa di simile a ciò che accadde allorché i "conquistadores" spagnoli, Cortés e Pizarro, si affacciarono ai confini dei due imperi pre-colombiani d’America, quello azteco e quello incaico), si verifica uno shock psicologico e culturale dal quale la società esce distrutta, senza speranza alcuna di ripresa o di resurrezione.
A tutto ciò si potrebbe obiettare che è cosa assurda tentar di far sparire la morte dal campi visivo e dall’universo mentale degli esseri umani; e che, pertanto, non è possibile che una ideologia politica abbia pensato seriamente di fare una cosa del genere. Invece non solo è possibile, ma è storicamente accaduto e continua ad accadere: proprio nella nostra società attuale e nelle sue forme politico-sociali e culturali. In fondo, la cosa è relativamente semplice: si tratta di sostituire, all’idea della more, qualche cosa che distragga la mente dal pensiero di essa, che la tenga perennemente occupata e che le impedisca di considerare la propria fragilità e la propria finitezza. Negli umanesimi laici che si sono succeduti fra la Rivoluzione americana e i totalitarismi novecenteschi, tale idea "sostitutiva" era la prospettiva di costruire un uomo nuovo, una società nuova ed un mondo interamente rinnovato, alla luce del nuovo vangelo laico della libertà, dell’uguaglianza, della fraternità, del comunismo, del fascismo, del nazismo. Nell’odierno totalitarismo democratico, essa si è fatta tutt’uno con lo stile di vita consumista: la ricerca continua del piacere, del denaro, del potere, l’accumulo di beni e servizi in misura illimitata, il senso di immortalità che deriva dal possesso di una scienza e di una tecnologia quali mai l’umanità, in tutto il corso della sua storia, aveva sognato o anche solo potuto immaginare.
Consumismo e tecnologia si sono così alleati ed uniti per conferire all’uomo contemporaneo un senso di onnipotenza; e i sistemi politici fondati su quest’ultima versione, aggiornata e corretta, dell’umanesimo laico e integrale, si sono particolarmente impegnati nella strategia di occultamento della morte e dei suoi segni, dei suoi indizi, dei suoi effetti. La morte è stata concretamente sottratta alla vista dei cittadini, relegata in apposite strutture e affidata ad un apposito personale, in modo che gli individui e le famiglie abbiano con essa il contatto più breve e più superficiale possibile; poi viene subito rimossa e, possibilmente, dimenticata. Bisogna fare di tutto affinché gli uomini non si accorgano che esiste un potere infinitamente superiore a quello cui oggi obbediscono e nel quale si identificano: un potere che non sta in loro e che non dipende da loro.
Questo potere è Dio. Gli umanesimi laici hanno cercato di abolirlo e, fino ad un certo punto, sembrano esserci riusciti; ma ecco che, respinta ovunque, la sgradita presenza della morte ritorna continuamente, evocando l’idea di quel potere superiore all’uomo, senza il quale la vita umana, la storia, il mondo, diventano una mascherata tragica e assurda. Ma è da qui che si deve ricominciare…
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