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Giovanni da Schio: il primo e ultimo tentativo della Chiesa medievale di far politica da sé

Il secolo XIII è stato un secolo fondamentale nella storia della Chiesa, ma anche nella storia delle idee e dei movimento sociali e nelle vicende economiche, politiche e culturali dell’Italia: il secolo di San Francesco e San Domenico; di San Bonaventura da Bagnoregio, di Alberto Magno e di San Tommaso d’Aquino; di papa Innocenzo III e Gregorio IX; dell’imperatore Federico II e di suo figlio Manfredi; di Dante Alighieri e di Giotto; di Cimabue e Giovanni Pisano.

È stato il secolo in cui i due ordini mendicanti, dei francescani e dei domenicani, hanno conosciuto una straordinaria, spettacolare diffusione; in cui le lotte comunali tra le fazioni, e quelle tra i diversi comuni e signori feudali, sono giunte al culmine della violenza e della crudeltà, spargendo per la Penisola migliaia di fuoriusciti, carichi di rancore e desiderio di rivincita; in cui l’economia comunale ha conosciuto la massima espansione, ma ha incontrato anche le prime battute d’arresto, i primi, gravi contraccolpi sociali, dal crescente impoverimento del popolo minuto e dei contadini, alla diffusione sempre più sfacciata dell’usura; in cui le tensioni sociali e religiose sono giunte all’acme, provocando tumulti, rivolte, persecuzioni sistematiche contro gli eretici, aggressioni di questi ultimi contro gli esponenti della Chiesa cattolica, insofferenza e intolleranza nei confronti degli ebrei, nella doppia veste di accusati, come "deicidi" e come usurai; in cui gli statuti comunali si sono incrinati ovunque, favorendo le manovre dei magnati da un lato, dei magistrati straordinari, come i podestà, dall’altro; in cui la Chiesa e l’Impero si sono dati battaglia con rinnovato ardore (e Federico II è stato ripetutamente scomunicato), coinvolgendo anche altre potenze, come Carlo d’Angiò, nella lotta tra Guelfi e Ghibellini; in cui le crociate si sono messe su una strada sempre più lontana dal loro obiettivo originario e sempre meno limpida; in cui la filosofia scolastica ha conosciuto il vertice dello splendore, ma ha iniziato anche la parabola discendente.

È stato, inoltre, un secolo attraversato da poderosi movimento popolari e animato da un potente spirito profetico e millenaristico, senza il quale non si possono capire né l’Inquisizione e la Crociata contro gli Albigesi, né la figura e l’opera di Gioacchino da Fiore, né il "Veltro" dantesco e, in genere, l’ispirazione escatologica ed apocalittica della «Divina Commedia» (nel senso etimologico di «togliere il velo», e dunque «rivelare», le Cose Ultime), né le cattedrali, né il monachesimo, né i movimenti pauperistici. Non è vero affatto, come taluni moderni s’immaginano, che all’uomo medievale fossero estranee l’idea e la pratica della partecipazione politica e sociale; è vero, semmai, che tale idea e tale pratica si esprimevano e prendevano corpo nelle forme proprie di una società profondamente, intimamente pervasa di senso religioso e tutta proiettata nella dimensione spirituale e nell’attesa di una vita eterna, rispetto alla quale la vita terrena non era che un transito e un "passaggio" temporaneo (non però fino al punto di svalutarla o rinnegala interamente, dichiarandola inutile e malvagia: questo è ciò che fecero i Catari, che vennero, appunto, perseguitati dalla Chiesa con estrema durezza).

Era molto sentito e molto diffuso un sentimento generale di stanchezza per le discordie civili, per le guerre continue, per l’avidità dei ricchi e per le intollerabili sofferenze dei poveri: e all’interno della Chiesa — che molti, dall’Illuminismo in poi, credono essere stata un organismo monolitico e "conservatore", mentre era estremamente variegata al suo interno, specchio fedele di un secolo di travaglio e di transizione — nacquero dei movimenti che se ne fecero interpreti, sia in senso tendenzialmente ereticale (come la Pataria), sia in senso sicuramente ortodosso (come il movimento dell’Alleluia).

Scriveva Andrea Castagnetti nella sua monografia «La Marca Veronese-Trevigiana» (Torino, UTET Libreria, 1986, pp. 111-113):

«Nella primavera del 1233 l’Italia del Nord fu percorsa da un movimento religioso "di giubilo e di aspirazione alla pace", chiamato in seguito "Alleluia", del quale ci parla diffusamente Salimbene da Parma. Fu all’origine un fenomeno prevalentemente cittadino, che traeva alimento dalla necessità di superare il clima di incertezza e di paura generato dalle lotte di fazione e dalle stesse calamità naturali.

Ben presto – già nell’estate del 1233 – alla testa del movimento si posero i frati medicanti, Predicatori e Minori: essi indirizzarono le manifestazioni popolari, oltre che verso la concordia politica, alla penitenza. 

A noi interessano qui gli aspetti prevalentemente politici, che ebbero l’obiettivo più appariscente nella pacificazione delle fazioni, ma che non tralasciarono quelli di realizzare la libertas ecclesiae" nell’ambito dei comuni cittadini, con l’abolizione o la mitigazione delle disposizioni statutarie ritenute lesive di tale libertà, e di introdurre, viceversa, in quegli statuti le disposizioni antiereticali emanate un decennio prima dall’imperatore Federico II, che prevedevano per gli eretici condannati dalle autorità ecclesiastiche la pena del rogo, eseguita dall’autorità civile.

I frati mendicanti si facevano interpreti delle più sentite aspirazioni delle folle, specialmente cittadine, sostenendo con la predicazione e le opere la pacificazione delle lotte intestine ed esterne.

Nel giugno

Del 1233 Giovanni di Vicenza, domenicano, giungeva nella Marca Veronese, preceduto da una larga fama di predicatore e "pacificatore" acquisita nella non lontana Bologna.

Nella Marca le lotte, intestine ed esterne, erano particolarmente accese: si preparava un grosso scontro fra Verona, divenuta filo-imperiale e controllata da Ezzelino, che alla fine dell’anno precedente si era accordato con Federico II, abbandonando la Lega Lombarda, e le altre città, guidate da Padova. Giovanni si recò appunto a Padova, predicando la pace, trascinando folle immense, che si imposero, sia pure per poco, ai capi militari e politico, alle grandi casate feudali come ai governi comunali cittadini, stremati tutte dalle lotte di fazione. Sotto la pressione popolare furono liberati i prigionieri e concluse le paci fra le "parti" e fra le città. Il momento culminante fu il 28 agosto, preso Verona, ove fra’ Giovanni era pure entrato facendosi assegnare i pieni poteri: a Paquara, in una piana sulla destra dell’Adige, in una grande assemblea, ove erano presenti il patriarca di Aquileia e i vescovi dipendenti, i governanti delle città e grandi signori — il marchese Azzo d’Este, i fratelli da Romano, Rizzardo da San Bonifacio, i da Camino -, fu decretata la pacificazione generale.

Il potere di fra’ Giovanni durò poco: egli si fece proclamare in Verona "dux et comes", riprendendo qualifiche pubbliche tradizionali, ma ormai entrate un uso per designare i signori rurali dotati dei poteri maggiori, già comitali, e attribuite comunemente, ad esempio, ai vescovi, come a quello di Verona dalla fine del secolo XII.

L’opera di fra’ Giovanni fu subito compromessa. Pochi giorni dopo la pace di Paquara, alcuni maggiorenti, sobillati dai Padovani, occuparono la città di Vicenza e fecero prigioniero lo stesso fra’ Giovanni accorsovi.

Proprio dalla filo papale Padova partiva l’azione più decisamente contraria, ispirata e guidata da Giordano Forzaté, un abate benedettino, che vedeva nella pacificazione generale un’offerta gratuita di respiro ai da Romano e al partito imperiale, allora in grave difficoltà, e che diffidava in ogni caso di una politica "demagogica" e preferiva agire secondo i tradizionali canini politici.

Lo "scacco" subito da Giovanni si ripercosse sull’azione generale dei frati mendicanti. Essi rinunciarono a svolgere in proprio un ruolo politico attivo, impegnandosi nella creazione di congregazioni e associazioni di pace.»

Che cos’era dunque successo? Un monaco benedettino di Padova, Giordano Forzatè, che godeva dell’appoggio del papa, aveva ispirato la reazione contro l’opera di Giovanni da Schio e ne aveva decretato il fallimento, benché anche questi, per lo meno nella fase iniziale della sua missione di pacificazione, avesse avuto l’appoggio papale? Come mai? Il fatto è che, nelle due figure di Giovanni da Schio (o Giovanni da Vicenza) e di Giordano Forzatè, si esprimono due maniere diverse nei modi, ma non poi tanto diverse nelle motivazioni, con le quali la Chiesa del XIII secolo tentava di relazionarsi con la realtà politica e sociale dei comuni e delle signorie italiane.

Giordano Forzatè aveva svolto numerose missioni diplomatiche fra i signori e le autorità comunali dell’Italia nord-orientale, non per conto del papa o della Chiesa, ma proprio allo scopo di trovare dei compromessi accettabili tra le forze politiche locali e ristabilire condizioni di pace e sicurezza all’interno delle città e nelle relazioni delle città fra di loro, intavolando complesse e faticose trattative caso per caso, volta per volta, tenendo conto delle situazioni specifiche, interne ed esterne, senza, però, mai perdere di vista il quadro d’insieme: la rinnovata lotta fra papato e Impero, fra partito guelfo e partito ghibellino, e gl’interessi supremi della Chiesa. Fu così, ad esempio, che egli riuscì a far concludere la pace tra Padova e Venezia al termine della cosiddetta Guerra del Castello d’amore, nel 1216. E fu così che svolse tutta una serie di arbitraggi fra i potentati in lotta, nello scenario straordinariamente complesso e crudele allora esistente: basti pensare che uno dei suoi interlocutori era Ezzelino III da Romano, personaggio fin troppo celebre per la sua spietata tirannia, che la voce popolare indicava addirittura come figlio dei Diavolo. Da Ezzelino, fra Giordano Forzatè ebbe molti dispiaceri personali: venne arrestato, gettato in carcere e fatto liberare solo per intercessione dello stesso imperatore, Federico II, dopo che il papa in persona aveva protestato per il trattamento riservatogli dal tiranno padovano; dovette, però, ritirarsi dalla scena politica e rinchiudersi nel monastero della Celestia, a Venezia, ove si spense nel 1248.

Come rettore del monastero padovano di San Benedetto, il Forzatè ne aveva fatto il centro del movimento degli "albi", che alcuni storici hanno definito anche "monachesimo comunale", per evidenziare la forza con cui esso era compenetrato nella concreta realtà sociale (e poi c’è ancora qualcuno che pensa che solo con la «Rerum novarum» di Leone XIII la Chiesa si sia "accorta" dei problemi sociali!), nel quale s’intrecciavano e confluivano realtà diverse, dagli ospedali, alle canoniche, ad alcune comunità religiose e monastiche, agli stessi eremiti. Come si vede, la Chiesa del XIII secolo, pur tenendo ben fermo l’orientamento spirituale della vita umana e di tutte le attività terrene, non perdeva affatto di vista, tutt’altro, la dimensione della vita quotidiana, con i suoi problemi e le sue complesse dinamiche di tipo produttivo, assistenziale, comunitario.

Anche Giovanni da Schio partecipa di questo clima, fervoroso ed entusiasta, che accetta la sfida del mondo secolare, della realtà politica e sociale, in nome dei valori della pace, della giustizia e della libertà della chiesa. Fu tra i promotori del movimento dell’Alleluia, che, in accordo con il Papato, perseguiva la pacificazione universale e la giustizia sociale; e si spese in tutta una serie di azioni diplomatiche fra le città e i potentati dell’Emilia, della Lombardia e del Veneto, talvolta (come a Vicenza) facendosi conferire una autorità quasi assoluta, per poter imporre la pacificazione alle famiglie più riottose. Era anche uno straordinario predicatore, che infiammava l’uditorio e commuoveva fino alle lacrime l’intera cittadinanza: davanti alle sue prediche, si vedevano i signori, nemici giurati fino al giorno prima, scambiarsi baci ed abbracci, giurandosi la pace e la reciproca osservanza dei patti.

Non bisogna credere che tutto questo avvenisse in maniera indolore: a Verona furono ben sessanta le persone che, non volendo assecondare la politica della pacificazione, vennero condannate al rogo come eretiche. La "libertà" della Chiesa, infatti, come la intendevano i seguaci del movimento dell’Alleluia (che erano, si badi, in gran parte di estrazione popolare) non aveva nulla a che fare con l’analogo concetto di cui sono portatori i cristiani d’oggi: essa voleva dire, in primo luogo, lotta senza quartiere contro gli eretici, e piena collaborazione delle autorità civili nella loro repressione. Per la mentalità medievale, infatti, la Chiesa non era una istituzione separata, per quanto prestigiosa, dalla società civile; essa era la custode della pace e dell’ordine sociale, sicché attentare all’unità e alla purezza della Chiesa, equivaleva ad attentare anche alla pace e alla stabilità sociale.

Il conflitto che si produsse fra l’opera di Giovanni da Schio e Giordano Forzatè non nasceva da differenze sostanziali di principio, ma da una diversa valutazione pratica della situazione politica esistente. Il primo, più "puro", se si vuole, nel suo vasto disegno di pacificazione, non guardava in faccia a nessuno e ciò fu visto da alcuni, inevitabilmente, come una maniera di favorire la parte imperiale, nello specifico la famiglia dei Da Romano, provocando la reazione del partito guelfo più estremo, che vedeva in lui quasi un agente ghibellino travestito da mediatore imparziale. Forzatè, appunto, pur desiderando quanto lui la fine delle lotte comunali ed intercomunali, si preoccupava che l’azione di Giovanni da Schio, e specialmente la solenne assemblea di Paquara, potesse favorire la parte ghibellina, e per questo motivo ispirò la reazione contraria al frate domenicano, che, non più appoggiato dal papa Gregorio IX, dovette ritirarsi dalla scena, umiliato e sconfitto (morirà nelle Puglie dopo parecchi anni di vita oscura, verso il 1265). Ma, come si è visto, anche il Forzatè finì per cadere in sospetto di Ezzelino e anche lui — ironia del destino – dovette uscire mestamente di scena, proprio su pressione delle forze ghibelline.

In conclusione, entrambi cercarono di svolgere una funzione di pacificazione e di restaurazione della giustizia sociale nel travagliato mondo comunale dell’Italia Settentrionale; essi concordavano sia nell’analisi generale dei problemi politici da affrontare, sia nella condanna morale dell’usura e della vita dissipata dei ricchi, ponendosi come restauratori di una società autenticamente cristiana, ispirata ai principi della pace, del bene universale, del perdono e della equità. Ma le loro strade si divisero nell’analisi specifica del quadro politico e nella linea da adottare rispetto al conflitto tra le forze che si ispiravano al guelfismo e quelle che facevano capo al partito ghibellino.

Nel caso di Giovanni da Schio, si trattò del primo — ed ultimo — tentativo, da parte di un importante ordine religioso, quello dei domenicani, di svolgere un ruolo politico in quanto espressione della Chiesa, ma non direttamente per conto di essa, facendosi portatore di una istanza superiore a quelle delle singole città e delle singole fazioni: la sua sconfitta, fu anche la sconfitta di tale linea. Dopo di lui, la Chiesa non tentò più di condurre una propria politica autonoma nel complesso mondo politico dell’Italia tardo-medievale: e non c’è dubbio che un tale esito fu causato, in buona misura, proprio dal "fardello" rappresentato, per la Chiesa stessa, dal potere temporale relativo al Patrimonio di San Pietro. Tale era la contraddizione di fondo della Chiesa nel XIII secolo: che, detenendo essa stessa un cospicuo potere politico, si trovava poi in contraddizione allorché cercava di svolgere una "sua" politica di pacificazione e di giustizia sociale nelle città italiane.

Anche se i papi medievali concepivano il loro potere temporale come la logica estensione del Patrimonio di San Pietro, che essi vedevano non già in termini "politici" (o, almeno, non nel senso moderno del concetto di "politica"), ma come lo strumento per assicurare alla Chiesa la necessaria indipendenza rispetto ai poteri politici esistenti – dei signori, dell’Impero, e poi anche delle monarchie nazionali – si veda il drammatico scontro fra Bonifacio VIII e Filippo il Bello di Francia – resta il fatto che la loro doppia condizione giuridica, di capi spirituali della cristianità, ma anche di sovrani temporali, li metteva in una posizione ambigua, e troppo spesso falsa, rispetto al loro programma teorico di pacificazione universale e di giustizia sociale, perché, inevitabilmente, finivano per appoggiarsi alle forze ad essi favorevoli, come la Lega Lombarda e, poi, la dinastia angioina, e per entrare in conflitto con quelle ad essi contrarie, che non erano solo quelle ghibelline in senso stretto, ma anche quelle "autonomistiche" rispetto alla politica della Curia, come i Guelfi Bianchi di Firenze prima del colpo di mano del 1301 (che venne favorito, appunto, dal Papato, attraverso la subdola azione di "pace" di Carlo di Valois).

Date le premesse, non c’erano alternative a questa contraddizione e a tale dilemma irrisolto. Resta il fatto che la Chiesa, nel XIII secolo, compì un grosso sforzo per non perdere il contatto con la società civile; che membri prestigiosi degli ordini religiosi si posero alla testa di importanti movimenti popolari finalizzati alla ricerca della pace e al ristabilimento del bene pubblico; che abati, vescovi, frati e sacerdoti non esitarono a "sporcarsi le mani" per farsi carico dei più urgenti problemi comunitari, nel momento del trapasso verso una economia capitalistica moderna, con tutti i contraccolpi da ciò provocati, specie per le classi più deboli; e che insomma i cattolici in politica e nel sociale ci sono sempre stati, ma senza fare confusione, come accade a certi preti e laici odierni…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Biswajeet Mohanty from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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