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È la “croce della storia” che fa nascere la domanda sul suo significato

Gli uomini si interrogano sul significato della storia.

Non è sempre stato così: gli antichi (ad eccezione del Giudaismo) non lo facevano, per il semplice fatto che la storia, per essi, non è lineare, non procede da un dato momento verso un altro momento, ma gira eternamente su se stessa, è circolare, come circolare è il tempo. Hanno incominciato a porsi la domanda sul senso della storia a partire dal Cristianesimo; e, nella maniera più chiara e organica, a partire da Sant’Agostino. A stimolarli è stato un evento storico traumatico: la caduta di Roma nelle mani dei Visigoti di Alarico, nel 410. L’impensabile era accaduto, e adesso tutti si chiedevano se, per caso, la fine del mondo fosse alle porte.

Tuttavia, questa domanda se l’erano già fatta i primi cristiani, quattro secoli prima. Molti di loro erano così convinti che la fine dei tempi fosse imminente, che rinunciavano a sposarsi, a fare figli, a intraprendere una carriera, perché si aspettavano il Giudizio finale da un giorno all’altro. Un’eco, abbastanza esplicita, di questa aspettativa, è presente già nelle lettere di Paolo, le quali — come è noto — sono i testi più antichi della religione cristiana, anteriori agli stessi Vangeli. Essa nasceva dalla interpretazione letterale delle parole di Gesù (riportate nel Vangelo di Luca), che, condotto al Calvario, diceva alle figlie di Gerusalemme di non piangere su di lui, ma per se stesse e per i loro figli, poiché presto sarebbero venuti giorni nei quali si sarebbe detto: «Beate le sterili»; e anche della profezia di Gesù (presente in tutti e tre i Sinottici), che le cose da lui annunciate si sarebbero compiute prima che trascorresse la generazione presente.

Se il tempo non è lineare, ma circolare, e se la storia non è una evoluzione dal passato al presente e al futuro, ma un eterno girare su se stessa, non sorge la domanda di senso, perché il tempo sarebbe percepito, in un certo senso, come immobile; e, se il tempo è immobile, o eternamente uguale a se stesso, è superfluo domandarsi dove si stia andando: si ritorna sempre allo stesso punto. Secondo la teoria della relatività galileiana, all’interno di un dato sistema di riferimento non esiste la possibilità di sapere se esso sia fermo o in movimento; solo dall’esterno lo si può percepire. Ma se il tempo è circolare, è come se la storia si trovasse imprigionata all’interno d’un sistema chiuso e nessuno sarebbe in grado di dire se esso si muove, e meno ancora verso che cosa si muova. Ci si potrebbe sempre domandare se le cose cambiano perché si muovono, oppure perché a muoverci siamo noi: proprio come i passeggeri d’un treno che vedono, o credono di vedere, muoversi il treno sul binario accanto, ma non pensano che sia il loro a muoversi, anche se forse è proprio così.

Ora, nel cristianesimo, l’elemento intorno a cui ruota il senso della storia, e la meta verso la quale è diretto il treno in movimento, percepito come tale e non come una mera illusione ottica (come accade nel caso delle concezioni circolari del tempo), è il fatto dell’irruzione di Dio nella storia. Una doppia, anzi, una tripla irruzione: Dio che crea la storia, perché, come Padre, è il creatore di tutto, e quindi anche del tempo; Dio che si fa uomo, nella persona del Figlio, ed entra nella storia come una creatura fra le creature, assumendo su di sé il peso dell’esistenza, la "croce della storia"; e Dio che resta con gli uomini attraverso la terza persona, lo Spirito Santo, aiutandoli e sostenendoli fin al giorno in cui il tempo finirà e la storia sarà compiuta: il giorno del Giudizio, allorché il senso ultimo di tutte le cose sarà finalmente svelato anche allo sguardo umano. Fino a quel momento, il senso ultimo della storia rimarrà misterioso: agli uomini è dato solo d’intuirne le grandi linee ed è chiesto solo di aver fiducia in Dio, nel suo amore e nella sua giustizia, abbandonandosi alla sua volontà.

Scrive l’arcivescovo e teologo Bruno Forte al principio del suo libro «Teologia della storia. Saggi sulla rivelazione, l’inizio e il compimento» (Cinisello Balsamo, Milano, Edizioni Paoline, 1991, pp. 9-10):

«È la "croce della storia" che fa nascere la domanda sul suo significato: le interruzioni e le cadute, le riprese e i nuovi inizi pongono l’interrogativo inevitabile intorno a un possibile senso di tutto questo, stimolando la ricerca di una sorta di "filo rosso", che unifichi la frammentarietà delle opere e dei giorni degli uomini, e alimentando il desiderio di una meta, che renda in qualche modo accettabile la fatica di vivere. "L’interpretazione della storia è in ultima analisi un tentativo di comprendere il senso dell’agire e del patire degli uomini in essa" (K. Löwith, "Significato e fine della storia", Milano, 1989, p. 23).

Il messaggio cristiano — con l’annuncio inaudito del Dio che ha fatto sua la morte, assumendo fino in fondo la "croce della storia" per amore del mondo — getta luce sulla domanda di senso: è dal cuore stesso della "buona novella" che nasce la possibilità di una "teologia della storia". Senza la fede nel Crocifisso Risorto per la coscienza credente le interruzioni resterebbero non meno inspiegabili dei nuovi inizi: tutto sarebbe abbandonato alla vittoria finale della morte e il trionfo del nulla si offrirebbe come la sola possibile soluzione al problema di esistere. Resistere e sopportare nonostante tutto, malgrado l’onnipresenza avvolgente del nulla, rimarrebbe l’unico sbocco del desiderio, la forma di un ultimo eroismo tragico, capace di dare sapore alla fatica dei giorni. "Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede" (1 Cor. 15, 14).

L’annuncio di Pasqua nega dunque la finale vittoria del nulla: l’ultima parola della vita e della storia non è il dolore e la morte, ma la gioia e la vita. La morte del Crocifisso è la morte della morte perché è Lui il Signore della vita: la "teologia della storia" non è che lo sforzo di rendere ragione — di fronte alla "croce del tempo" di questa speranza suscitata dalla Croce del Figlio di Dio. "Non vi sgomentate, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (1 Pt 3, 14s). Il silenzio del Venerdì Sabato è il luogo in cui l’avvento, in tutta l’indeducibile novità che lo caratterizza, ha incontrato l’esodo della condizione umana, in tutta la profondità e il peso delle sue contraddizioni e delle sue incompiutezze, riassunte nel "verbum abbreviatum" della finitudine umana: la morte. È l’eloquenza del silenzio del Crocifisso davanti alla "croce del tempo" che sarà all’origine di ogni possibile "teologia della storia".

L’impresa, tuttavia, non si svilupperà sul vuoto se la domanda che nasce dal dolore è antica quanto la vicenda dell’uomo sulla terra, il bisogno d "redimere" il tempo storico non è meno antico di questa domanda. È un tale bisogno che fa nascere fra gli uomini delle società arcaiche il "mito dell’eterno ritorno"; è questo medesimo bisogno che trova nella concezione ebraico-cristiana della storia una nuova, rivoluzionaria risposta, che sarà sviluppata in forme diverse nel tempo; ed è ancora esso a motivare nel profondo le moderne "filosofie della storia", la cui parabola di trionfo e di decadenza ripropone con nuova attualità e rinnovato interesse lo scandalo della Croce del Figlio di Dio. Come unico, possibile senso alla "croce del tempo", e perciò come fondamento e contenuto centrale di una visione del mondo e della vita che possa dare significato e speranza alla storia.»

Non solo, dunque, il cristiano possiede, e non può non possedere, una filosofia della storia, dal momento che egli fermamente crede nel senso della storia stessa (a rigore, solo i surrealisti e i dadaisti non dovrebbero averla affatto); ma essa non può essere altro che l’espressione di una visione ben precisa, teocentrica, carica di aspettativa e di speranza, che è, propriamente parlando, non una semplice filosofia della storia (come ve ne sono altre), ma una teologia della storia; una teologia basata sui tre momenti della Trinità: l’Inizio di tutto (il Padre), la Rivelazione (il Figlio), l’Amore che resta in mezzo alle creature (lo Spirito Santo). Alla fine, le tre Persone si riuniscono in una sola, perché la seconda e la terza sono sorte in funzione del progetto divino nei confronti del mondo degli uomini: la fine della storia corrisponde al Compimento del disegno amorevole e sapiente di Dio creatore. Non vi sono più parole da dire o da ascoltare, a quel punto, né azioni da compiere o da ricevere: resta solo l’infinito presente dell’Amore, che ormai ha rotto ogni confine, a cominciare da quello tra la vita e la morte («l’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte», afferma San Paolo nella Prima lettera ai Corinzi).

D’altra parte, il cristiano, ma anche qualsiasi uomo ragionevole, non può, né vuole, nascondersi che la storia è "croce": sofferenza, ingiustizia, incomprensibilità. La storia del genere umano non è bella: è costellata di sofferenze, molte delle quali assolutamente inutili, nel seno che l’umanità stessa potrebbe risparmiarsele, ed essa sola porta la responsabilità di non averlo fatto, di essersi inflitta dei mali così grandi, divenendo la peggiore nemica di se stessa. In nessun’altra specie vivente si nota un simile carico di auto-distruttività, spinto fin quasi al suicidio collettivo e all’annientamento totale, definitivo, per opera delle sue stesse mani.

Ora, questo pone un ulteriore interrogativo, non meno angoscioso del precedente: se la storia ha una direzione, e dunque un senso, come mai gli esseri umani fanno di tutto per renderlo ancora più misterioso, moltiplicando il male che essi infliggono a se stessi, quando potrebbero agire ben diversamente, ed aiutarsi nel sostenere il peso dell’esistenza, invece di nuocere l’uno all’altro? Ciò equivale a riconoscere che nemmeno per il cristiano il senso della storia è del tutto chiarito; anche per lui il mistero del male rimane tale: egli non ha la chiave speciale per interpretarlo, per dissiparlo; di fatto, Gesù Cristo non si è incarnato per risolvere il mistero del Male, ma per prenderlo su di sé, offrendo agli uomini un esempio, un modello e una proposta.

Se il senso della storia fosse chiarito interamente, gli uomini sarebbero già oltre la storia: sarebbero oltre la distinzione fra passato e presente, fra l’al di qua e l’Aldilà; sarebbero già abitanti del regno di Dio. Invece il mondo terreno non è il regno di Dio, ma solo la sua preparazione: e la storia umana non è la realizzazione del disegno divino a proposito dell’uomo, ma solo il luogo della possibile conversione di quest’ultimo, e il suo pellegrinaggio verso la Verità eterna. Il mondo, per il cristiano, è una terra straniera: una terra che non merita disprezzo, semmai compassione; ma pur sempre una terra straniera, che bisogna attraversare con molta attenzione, badando a non lasciarsi fagocitare dalla sua logica; ed è precisamente questo l’aspetto che certi teologi "cristiani" post-conciliari non hanno visto, tutti presi dall’ingenuo entusiasmo di scoprirsi "in dialogo" col mondo, e senza accorgersi che dal "dialogo" alla "accettazione" e alla "subordinazione" il passo è molto più breve di quel che essi riescano a immaginare.

La vita umana, dunque, è un incessante pellegrinaggio, mosso dalla nostalgia dell’Infinito; e la storia è la pista nel deserto che ciascun essere umano e ciascuna comunità umana sono chiamati ad attraversare, con pena, con fatica e con qualche raro momento di gioia, ma sempre nella tensione verso qualcosa che non è qui, che quaggiù non si dà, non si trova, non esiste; sempre come viandanti, come beduini, come nomadi che non fissano mai le proprie tende in un luogo definitivo, perché il loro destino è di non avere una meta definitiva, ma di essere sempre in viaggio, sempre protesi verso un altrove, verso l’Altrove. Le cose di questo mondo vengono utilizzate e anche, in certa misura, godute, ma non rappresentano mai dei beni definitivi e pienamente soddisfacenti: se così fosse, vorrebbe dire che il cristiano si è smarrito nel deserto, che ha costruito il suo bravo Vitello d’Oro e che si è inginocchiato ad adorarlo — magari senza rendersene conto e illudendosi di essere ancora un pellegrino alla ricerca della sua vera patria, del vero Dio. Quanti cristiani hanno smarrito il senso della propria storia? Quanti di loro si sono scordati d’essere alla ricerca del Dio che li guida attraverso il deserto, ma che tale ricerca è fatta anche di prove, di cadute, di infedeltà, di pentimenti e di conversioni? Quanti hanno scambiato gli accampamenti provvisori per delle città; quanti si sono fermati e hanno creduto d’essere giunti alla fine del viaggio, come se il viaggio della vita e il viaggio, parallelo, della storia umana, avessero una fine che dipende dal viaggiatore, e non, invece, dal Signore del tempo e d’ogni cosa creata? E quanti si sono scordati che nella storia c’è anche il Male, il male con la maiuscola; e che ogni infedeltà a Dio è un "sì" al grande Nemico? Una cosa è certa: il libro della storia, per il cristiano, resta pur sempre misterioso, fino all’ultima riga…

Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio (Raffaello)

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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