Marcel Lefebvre: una voce che la Chiesa cattolica forse non ha ascoltato abbastanza
28 Luglio 2015
Nessuno può consolarci veramente dalla sofferenza, tranne Dio
28 Luglio 2015
Marcel Lefebvre: una voce che la Chiesa cattolica forse non ha ascoltato abbastanza
28 Luglio 2015
Nessuno può consolarci veramente dalla sofferenza, tranne Dio
28 Luglio 2015
Mostra tutto

Dove va la storia? E chiederselo, è misticismo?

Due sono le questioni che qui ci preme porre in evidenza: primo, se sia lecito domandarsi se la storia abbia una direzione, un senso, uno scopo cui tendere, insomma una finalità da perseguire e da raggiungere; secondo, se il fatto di porsi delle simili domande tradisca un atteggiamento di tipo "mistico", nel senso — spregiativo, oggi dominante — di emozionale e soggettivo.

Cominciamo dalla prima domanda: dove va, la storia? Va da qualche parte? Oppure non ha senso chiederselo, perché la "storia" non è un soggetto paragonabile ad una entità cosciente, e tutto quel che possono e devono fare gli uomini è di studiarla, cercare di spiegarla, ma senza mai spingersi un passo più in là dei fatti, dei puri e semplici fatti? Secondo il grande storico olandese Johann Huizinga, l’autore del celeberrimo «Autunno del Medioevo», il pensiero storico è sempre teleologico; secondo altri storici e filosofi della storia, no. Chi ha ragione?

A nostro parere, il problema della finalità presente nella storia si inscrive in una problematica molto più ampia: quella della finalità inerente all’intera realtà, e ciò sia a livello individuale, che generale. Una società che crede al significato profondo del reale è orientata a vedere un significato profondo anche nel divenire storico, così come nell’esercizio del pensiero, nell’arte, e in tutte le manifestazioni della vita, specie di quella spirituale; mentre una società che non ci crede, o che ha smesso di crederci, o che ha deciso che la questione è irrisolvibile, tenderà a negare o ignorare anche la questione relativa al senso della storia.

Inoltre, la conoscenza del passato presuppone una certa apertura verso il futuro: si vuole conoscere il passato per trasmetterne la testimonianza, e forse l’eredità, a coloro che verranno; e questa è una forma di fede nel futuro. Ma una società che non crede nel futuro, ad esempio perché è convinta di non averne; una società che vive nell’attesa dell’olocausto nucleare, o della catastrofe ecologica ormai imminente, difficilmente coltiva la speranza verso il futuro, e il crollo del tasso di natalità della nostra società lo attesta nella maniera più eloquente, insieme al dilagare impressionante delle pratiche abortive (dato, quest’ultimo, che i signori progressisti cercano di occultare in partenza, perché costituisce, da sé solo, la più eloquente smentita di tutte le loro enfatiche celebrazioni del progresso quale strumento per potenziare la vita umana).

Vi è poi una terza ragione che può spegnere la credenza in un senso della storia: da un lato, il trauma per certi avvenimenti verificatisi nella storia più recente (come si fa a credere ancora in Dio, chiedevano alcuni, dopo Auschwitz?), dall’altro, lo scetticismo, il fastidio e il rifiuto per tutto ciò che sa di "metafisica": e la teleologia della storia (come pure la teleologia della natura) sa certamente di metafisica, dal momento che ha origine dall’idea che non tutto, nella storia, si riduca alle forze visibili e, per così dire, misurabili, ma siano operanti anche delle forze profonde, invisibili, immateriali, espressione di un altro livello di realtà, sul quale la scienza positiva, in quanto tale, non ha niente da dire, perché non possiede gli strumenti per indagare.

È chiaro, dunque, che l’idea di un senso della storia, oppure l’idea che la storia non ne abbia alcuno, sono in stretta relazione con l’idea che l’uomo ha del reale, di se stesso e di Dio: la visione teleologica è, in senso "forte" o in senso "debole", figlia di una concezione teistica del reale, mentre la visione scettica, o pragmatica, è il risultato di una concezione ateistica e antropocentrica. A sua volta, quest’ultima può dare luogo a due orientamenti diversi e opposti: quello ottimista, fondato sulla nuova fede religiosa che sostituisce l’antica, vogliamo dire l’idea del Progresso; e quella pessimistica, che non riesce a scorgere, ovunque volga lo sguardo, se non una condizione umana incomprensibile, ostile, ingrata, carica di errori, sofferenze e ingiustizie.

Una pagina interessante in proposito è quella contenuta in una lezione tenuta dallo storico Edward H. Carr all’Università di Cambridge nel 1961 – anche se lui, personalmente, non credeva, e lo affermava esplicitamente, che la storia avesse una teleologia, un fine estrinseco ad essa (da: E. H. Carr, «Sei lezioni sulla storia»; titolo originale: «What is History?», 1961; traduzione dall’inglese di Carlo Ginzburg, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1966, pp. 117-121):

«Cominciamo col citare un passo della prolusione che il professor Powicke pronunciò allorché fu nominato Regius Professor di Storia Moderna a Oxford trent’anni fa: "Il desiderio di un’interpretazione della storia ha radici così profonde, che se on possediamo una visione costruttiva del passato, finiamo per cadere nel misticismo o nel cinismo". Penso che "misticismo", qui, stia a indicare la concezione secondo cui il significato della storia risiederebbe in qualche luogo al di fuori della storia stessa, nei regni della teologia o dell’escatologia: la concezione , insomma, condivisa da un Berdjaev, da un Niebhur, un Toynbee. Il "cinismo" designa invece la concezione , più volte esemplificata, secondo cui la storia è priva di significato, oppure ha molteplici significati, tutti egualmente validi o non validi, oppure un significato puramente arbitrario e soggettivo. Sono queste, forse, le due concezioni della storia più diffuse al giorno d’oggi. Io le rifiuterò entrambe, senza esitazione. Ci resta, quindi, la strana ma suggestiva espressione "visione costruttiva del passatoi". Poiché non possiamo sapere che cosa avesse in mente il professor Powicke nel pronunziare queste parole, cercherò d’interpretarle a modo mio. Come le antiche civiltà medio-orientali, le civiltà classiche erano fondamentalmente astoriche. Come abbiamo già visto, il padre della storia, Erodoto, ebbe un’esigua discendenza. In complesso, gli autori classici si preoccupavano poco sia del futuro, che del passato. Tucidide credeva che nell’età che precedeva gli eventi da lui descritti non fosse accaduto niente d’importante, e che niente d’importante, probabilmente, si sarebbe verificato nell’età successiva. Lucrezio dedusse l’indifferenza dell’uomo per il proprio futuro dall’indifferenza ch0esso ha per il passato: "Considera come non c’interessino minimamente le età interminabili trascorse prima della nostra nascita. È uno specchio che la natura ci porge del tempo che seguirà, la nostra morte." Le visioni poetiche di un futuro più luminoso assunsero la forma di ritorno di una passata età dell’oro, secondo una concezione ciclica che assimilava il corso storico al corso della natura. La storia non aveva una meta: poiché mancava il senso del passato, mancava anche il senso del futuro. Solo Virgilio, che nella sua quarta ecloga aveva fornito la classica descrizione del ritorno dell’età dell’oro, ebbe per un momento nell’"Eneide" l’ispirazione di prescindere dalla concezione ciclica: "Imperium sine fide dedi" era un’espressone di timbro assolutamente non classico, che in seguito avrebbe procurato a Virgilio una fama di profeta quasi cristiano. Furono gli ebrei, e dopo di loro i cristiani, che introdussero un elemento del tutto nuovo postulando un fine verso cui si dirigerebbe l’intero processo storico: nasceva, così, la concezione teleologica della storia. In tal modo la storia acquistava un significato e un fine, ma finiva col perdere il suo carattere mondano. Attingere il fine della storia avrebbe significato automaticamente mettere un termine alla storia stessa: la storiografia si trasformò in una teodicea. Questa fu la concezione della storia propria del Medioevo. Il Rinascimento restaurò la concezione classica di un mondo antropocentrico e del primato della ragione, in cui tuttavia la pessimistica concezione classica del futuro era già sostituita da una visione ottimistica derivata dalla tradizione ebraico-cristiana. Il tempo, che una volta era concepito unicamente come elemento ostile e distruttivo, divenne qualcosa di benefico e creativo: si ponga a confronto l’oraziano:"Damnosa quid non imminuit dies?" con il baconiano "Veritas tempori filia". Gli illuministi, che furono i fondatori della storiografia moderna, conservarono la concezione teleologica ebraico-cristiana, ma trasformarono il fine da trascendente in mondano. In tal modo riuscirono a reintrodurre il carattere razionale del processo storico. La storia fu concepita sotto forma di evoluzione progressiva,, avente per fine la miglior condizione possibile dell’uomo sulla terra. L’oggetto delle sue ricerche non impedì al maggiore degli storici illuministi, Gibbon, dal formulare, com’egli disse "la consolante conclusione che ogni età della storia ha accresciuto, e continua ad accrescere, la ricchezza effettiva, la felicità, le conoscenze, e forse la virtù della razza umana". Il culto del progresso toccò il culmine nel momento in cui la prosperità, la potenza e la fiducia in se stessa dell’Inghilterra erano giunte al massimo grado: e tra i più ardenti adepti del culto vi furono uomini di cultura e storici inglesi,.[…]

Nel 1920, allorché Bury scrisse "The Idea of Progress", si era ormai instaurato un clima meno mite, che lo spinse a biasimare, in ossequio alle mode correnti, "i dottrinari che hanno dato vita all’attuale regno di terrore in Russia"; tuttavia egli definiva ancora il progresso "l’idea che anima e guida la civiltà occidentale". In seguito questi accenti cessarono. Di dice che Nicola I di Russia avesse emesso un’ordinanza in cui si vietava l’uso della parola "progresso"; oggi, i filosofi e gli storici dell’Europa occidentale, nonché degli Stati Uniti, si sono tardivamente scoperti d’accordo con lui. La decadenza dell’occidente è diventata un’espressione così diffusa che ormai è inutile metterla tra virgolette. Ma in realtà, se prescindiamo da tutte queste strida, che cosa è successo? Chi ha generato questo nuovo clima d’opinione? […] Tutti questi discorsi sulla decadenza della civiltà, egli scrive [si parla dello storico A. J. P. Taylor] "significano semplicemente che i professori universitari avevano in passato delle donne di servizio, mentre ora si devono lavare i piatti da soli". […] In questa faccenda del progresso, non vedo il motivo di preferire "ipso facto" il giudizio degli uomini del 1950-60 a quello degli uomini della fine del secolo scorso, o il giudizio degli anglosassoni a quello dei russi, degli asiatici e degli africani, o il giudizio dell’intellettuale della media borghesia a quello dell’uomo della strada che, secondo Macmillan, non è mai stato così bene.»

Forse è più giusto dire che gli antichi non avevano una visione teleologica della storia — Ebrei a parte — perché la loro concezione del tempo era ciclica: e, se le cose sono destinate a ripetersi e a ritornare, allora è chiaro che non stanno andando da un’altra parte, ma si muovono sempre entro la stessa orbita. E, a sua volta, la concezione ciclica del tempo si lega con il naturalismo di fondo delle culture antiche, comprese quelle classiche: è inutile domandarsi se la storia sia diretta verso un determinato fine, perché la storia è fatta dall’uomo e dunque è parte della natura, e la natura non ha altro fine che quello di conservarsi e consentire agli esseri viventi di sopravvivere e riprodursi: senza uno scopo ulteriore, e con l’unica prospettiva di morire e avvicendarsi gli uni agli altri (come si vede nel famoso dialogo fra Glauco e Diomede nell’«Iliade»: le generazioni umane sono come le foglie degli alberi, cadono e ne spuntano poi di nuove).

Dunque, nella concezione classica della storia vi è un forte senso della continuità, della ripetitività, della costanza: il presente è simile al passato e il futuro sarà simile al presente; potremmo quasi definirla una concezione "attualista", con riferimento alla concezione geologica di Charles Lyell, che presupponeva la regolarità e la gradualità di tutti i processi naturali che si succedono sulla superficie terrestre. È per questo che le manca il senso del passato, e anche quello del futuro — in questo, Carr ha ragione; ma anche perché non si aspetta niente di straordinario dagli dèi del politeismo pagano, i quali non hanno fretta di tirare le somme delle vicende umane, possono intervenire o non intervenire nella storia; ma è anche possibile che se ne stiano, beati e imperturbabili, negli "intermundia" di lucreziana memoria, a godersi la loro eternità.

Il Dio cristiano, invece, erede diretto di Yahwé, e sia pure filtrato attraverso la sensibilità greca e, più tardi, il pensiero greco, non è un semplice spettatore, né un giudice dalla pazienza infinita: gli uomini sanno che saranno giudicati e sanno anche che ciò potrà avvenire in qualsiasi momento, poiché il Suo giorno arriverà come un ladro nella notte, e li sorprenderà, quando essi meno se lo aspettano (confronta la Prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi, 5, 2). Questo dà alla cultura cristiana un senso di urgenza, di inquietudine, ma anche la profonda convinzione che le vicende della storia hanno acquistato un senso ben preciso: ogni cosa corre verso il giorno del Signore, il giorno del Giudizio; pertanto ogni cosa cerca di realizzare il proprio scopo, prima che sia troppo tardi. Il tempo non si ripete all’infinito: esso corre verso la fine, e la sua fine corrisponderà al sorgere di nuovi cieli e di una nuova terra, santificata dall’amore di Dio.

Nella prospettiva cristiana, è ovvio che la storia abbia un senso e che tale senso stia al di fuori di essa; così come è ovvio che abbia un senso la vita umana, e che questo sia al di fuori della vita medesima: in entrambi i casi, il senso ultimo è Dio, al quale tende ogni cosa creata, come al suo termine e alla sua piena e perfetta realizzazione. La storia, dunque, non è che una marcia di avvicinamento a Dio, così come la vita umana è un pellegrinaggio per fare ritorno a Lui. Non gira in eterno, e soprattutto non gira a vuoto. Né conosce gradualismi e regolarità: il mistero dell’Incarnazione opera una cesura nel divenire storico, crea un prima e un dopo, separa nettamente due epoche, getta le premesse per la conclusione: la storia avrà una fine, come ha avuto un inizio; e non procede per gradi, ma a strappi, imprevedibilmente. Questo perché le vie del Signore non sono le vie degli uomini, il Suo pensiero non è il loro pensiero: Egli conduce l’umanità in una maniera che è misteriosa, che sfugge all’analisi razionale.

Si tratta di una concezione mistica? Se per "mistico" si intende qualcosa di puramente emozionale e soggettivo, la risposta è no; si tratta, semmai, di una concezione extra-razionale, ma nel senso di sovra-razionale: qualche cosa che è al di là e al di sopra della pura razionalità umana, senza essere, per questo, né irragionevole, né, tanto meno, inferiore al livello razionale. I razionalisti dovrebbero sempre tener presente che la ragione umana non è la ragione in assoluto: è quella forma di ragionevolezza di cui è suscettibile la mente umana. Inoltre, nulla vieta – checché loro ne pensino – che essa, per così dire, si faccia assistere, accompagnare e consigliare da alte forme di conoscenza e di consapevolezza, le quali hanno pure la loro evidenza, anche se non sono esperibili e verificabili in maniera altrettanto rigorosa e oggettiva: perché, come diceva un grande filosofo, che era anche un grande scienziato e un grande matematico, Blaise Pascal, il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non arriva a conoscere.

I razionalisti, cioè, assolutizzano la ragione, perché assolutizzano l’uomo; ritengono che, non essendovi nulla di più perfetto dell’uomo, la sua ragione — che essi, arbitrariamente, assumono come la sua caratteristica sovrana, dimenticando, fra l’altro, la volontà, per non parlare della sfera affettiva ed emozionale — debba essere il criterio supremo e infallibile per decidere della verità o della non verità di qualsiasi cosa. Si veda, in proposito, l’atteggiamento di sprezzante scetticismo che quasi tutti i razionalisti assumono di fronte al soprannaturale: davanti a ciò che non capiscono e che non sanno spiegare con il solo strumento della ragione, essi preferiscono dare torto ai fatti, anche i più evidenti, sostenendo che certe cose sono "impossibili", e con ciò chiudono il discorso, rifiutandosi, puramente e semplicemente, di confrontarsi con qualcosa che offende i loro pregiudizi e che insidia le loro arroganti certezze.

Se per mistico si intende, invece, qualche cosa che descrive l’abbandono dell’anima a Dio, ragione compresa, allora sì, la lettura cristiana della storia è essenzialmente mistica: perché pone la storia in cammino verso un fine, e concepisce questo fine come ciò che eccede le possibilità di comprensione della ragione umana, perché risponde a un disegno amorevole che scaturisce dalla Mente infinita di Dio: il Creatore del mondo e il Signore della storia stessa.

Alla domanda: «Dove va la storia?», pertanto, la risposta del cristiano non può essere che una ed una sola: la storia, come ogni altra cosa, va verso Dio, o meglio, per esse più precisi, la storia è la storia del ritorno — faticoso, tribolato, ma divinamente assistito – degli uomini a Dio, dal quale hanno avuto origine, così come l’ha avuta l’universo intero. Di più, egli non può dire. I particolari di questo itinerario, di questo pellegrinaggio, nessuno li può conoscere, fino a che la sua vita appartiene alla dimensione del tempo e dello spazio.

Poi, sarà diverso. Quando non apparterremo più alla dimensione del tempo e dello spazio, ci cadranno le bende dagli occhi, vedremo e capiremo. Allora ogni cosa diverrà chiara, e anche le più stridenti e dolorose contraddizioni acquisteranno un significato evidente. La fede è appunto questo: credere in ciò che, per ora, non è dato vedere, ma che ci è stato autorevolmente insegnato e tramandato, e che non contrasta con la ragione, ma la supera, in un grandioso e affascinante mistero d’amore.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.