
Dietro il “buonismo” idiota c’è il disegno d’un totalitarismo destabilizzatore
28 Luglio 2015
La natura, per l’uomo medievale, è misteriosa, talvolta vendicativa, ma sempre generosa
28 Luglio 2015Parole e cose non comunicano più, non s’illuminano a vicenda, come avveniva per i nostri avi; ora esse hanno divorziato, si sono divise, procedono le une indipendentemente dalle altre, senza legami significativi, senza collegamenti profondi. Questa è una delle manifestazioni del dramma dell’uomo moderno, sempre più solo e confuso, sempre più lontano dalla verità e dal mondo rassicurante, per quanto faticoso, delle certezze. La sua fatica è diventata sterile, perché egli sa che non lo avvicina più d’un solo passo alla verità. Eppure, nell’anelito alla verità sta il significato della sua esistenza: egli non l’ha scordato e, nonostante tutto, il suo cuore è trafitto dalla nostalgia per quel mondo così vicino, e ormai così lontano, nel quale erano chiare le distinzioni fra la verità e l’errore, fra la bellezza e la bruttezza, fra il bene e il male, fra la giustizia e l’ingiustizia.
La prima, grave frattura si è verificata, secondo Michel Foucault, a partire dalla metà del XVII secolo: essa coincide con la crisi e la perdita della legge della rassomiglianza, secondo la quale tutto il reale è intessuto da una fitta trama di correlazioni e di similitudini fra le parole e le cose, fra la scrittura e la descrizione della realtà. A questa legge si è venuta sostituendo la teoria della rappresentazione: parole e cose non si rassomigliano più, non concorrono allo stesso fine; il reale è interamente occupato da un sistema di segni che ne circoscrive lo spazio in un sistema di ordine e relazioni. Dal punto di vista scientifico e filosofico, per esempio, questo significa che non è più vero ciò che è vero, ma che è ragionevole ciò che si può mostrare e descrivere per mezzo della ragione, ovvero per mezzo di un sistema coerente di segni. Il linguaggio diventa grammatica generale; gli esseri diventano storia naturale; e i bisogni diventano una analisi delle ricchezze. Il mondo dei significati si è matematizzato — come voleva il "buon" Galilei — e agli individui concreti, alla realtà vivente, si è sostituita una fitta trama di corrispondenze e relazioni, di schemi e di formulazioni universali, di teoremi e di leggi. In altri termini, la parola se ne va per conto suo, senza più preoccuparsi di descrivere la realtà: la reinventa, così come la filosofia pretende di ignorare la questione dell’essere e si concentra sempre più sul problema del soggetto conoscente, che costruisce il mondo, tutto il "suo" mondo, per mezzo dell’atto conoscitivo.
All’inizio del XIX secolo si verifica, per Foucault, la seconda frattura: la "finitudine", con tutto il suo peso e la sua staticità, scende e si posa sul mondo della parola, creando una ulteriore barriera nei confronti delle cose. Al posto della grammatica generale, avanza la "parola", isolata e indeclinabile; al posto della storia naturale, la "vita", con tutta la sua carica irrazionalistica e incontrollabile, potenzialmente distruttiva, proprio perché pretende di essere auto-sufficiente e auto-evidente. In luogo dell’analisi delle ricchezze,ad esempio, si pone il "lavoro", formula astratta dentro la quale si finisce per smarrire il senso immediato dell’uomo e del suo dramma quotidiano, pur se le ideologie progressiste — aggiungiamo noi — pretendono di proiettare tale dramma sullo scenario soteriologico di una palingenesi che, ad ogni modo, si compirà al di sopra dell’individuo concreto e, se necessario, anche contro di lui. L’uomo, a partire dalla Rivoluzione industriale, è abbandonato sempre di più all’estraneità nei confronti del mondo, alla indecifrabilità del reale, alla illusorietà della conoscenza e, più ancora, della comunicazione.
Vale la pena di riprendere la pagina iniziale dedicata da Foucault al caso emblematico di Don Chisciotte, il nuovo anti-eroe di questo mondo stranito, ove parole e cose hanno definitivamente consumato il loro divorzio (da: M. Foucault, «Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane»; titolo originale: «Les mots set les choses», Paris, Gallimard, 1966; traduzione dal francese di Emilio Panaitescu, Milano, Rizzoli, 1967, pp. 61-63):
«Con i loro giri e rigiri le avventure di Don Chisciotte tracciano il limite: in esse hanno termine i giochi antichi della somiglianza e dei segni; in esse già nuovi rapporti si stringono. Don Chisciotte non è l’uomo della stavaganza ma piuttosto il pellegrino meticoloso che fa tappa davanti a tutti i segni della similitudine. è l’eroe del Medesimo. Non riesce ad allontanarsi dalla familiare pianura che si stende attorno all’Analogo, proprio come non riesce ad allontanarsi dalla sua angusta provincia. Incessantemente la percorre, senza mai varcare le frontiere nette della differenza né raggiungere il cuore dell’identità. Egli stesso è fatto a somiglianza dei segni. Lungo grafismo magro come una lettera, eccolo emerso direttamente dallo sbadiglio dei libri. L’intero suo essere non è che linguaggio, testo, fogli stampati, storia già scritta. È fatto di parole intersecate; è scrittura errante nel mondo in mezzo alla somiglianza delle cose. Non del tutto però: nella sua realtà di povero hidalgo non può infatti divenire il cavaliere soltanto ascoltando da lontano l’epopea secolare che formula la Legge. Il libro è più il suo dovere che la sua esistenza. Senza posa deve consultarlo per sapere che fare e che dire e quali segni dare a se stesso e agli altri per mostrare che la sua natura è la stessa del testo dal quale è uscito. I romanzi di cavalleria hanno scritto una volte per tutte la prescrizione della sua avventura. E ogni episodio, ogni decisione, ogni impresa saranno segni del fatto che Don Chisciotte è realmente somigliante a tutti i segni da lui ricalcati.
Ma se vuole essere loro somigliante è perché dimostrarli, è perché ormai i segni (leggibili) non somigliano più agli esseri (visibili). Tutti quei testi scritti, tutti quei romanzi stravaganti sono appunto senza uguali; nessuno al mondo è mai stato ad essi somigliante; il loro linguaggio infinito resta in sospeso senza che alcune similitudine arrivi mai a riempirlo; possono bruciare tutti e per intero, la figura del mondo non ne resterà cambiata. Somigliando ai testi di cui è il testimone, il rappresentante, l’analogo reale, Don Chisciotte deve fornire la dimostrazione e farsi portatore del segno indubitabile che dicono il vero, che sono il linguaggio del mondo. Gli tocca adempiere la promessa dei libri. È suo compito rifare l’epopea, ma in senso inverso: questa narrativa (pretendeva narrare gesta reali, promesse alla memoria; Don Chisciotte invece deve colmare con la realtà i segni, senza contenuto, della narrazione. La sua avventura sarà una decifrazione del mondo: un percorso minuzioso per rilevare sull’intera superficie della terra le figure che mostrano che i libri dicono il vero. La prodezza deve diventare prova: consiste non già nel trionfare realmente — è per questo che la vittoria è in fondo irrilevante — ma nel trasformare la realtà in segno. In segno attestante l’esatta conformità dei segni del linguaggio alle cose stesse. Don Chisciotte legge il mondo per dimostrare i libri. E non fornisce a sé prove diverse dal luccichio delle somiglianze.
Tutto il suo cammino è una ricerca delle similitudini: le più tenui analogie vengono sollecitate come segni assopito che occorre risvegliare perché riprendano a parlare. Le greggi, le fantesche, le locande ridiventano il linguaggio dei libri nella misura impercettibile in cui somigliano ai castelli, alle dame, agli eserciti. Somiglianza ogni volta delusa che trasforma la prova cercata in derisione e lascia per sempre vuota la parola dei libri. Ma la non-similitudine stessa ha il proprio modello da essa servilmente imitato: lo trova nella metamorfosi dei maghi. Per cui tutti gli indici della non-somiglianza, tutti i segni che mostrano che i testi scritti non dicono il vero, somigliano al gioco dell’incantesimo che introduce con l’astuzia la differenza nell’indubitabile della similitudine. E poiché questa magia è stata prevista e descritta nei libri, la differenza illusoria da essa introdotta non sarà mai altro che una somiglianza stregata. Un segno supplementare quindi del fatto che i segni somigliano alla verità.
"Don Chisciotte" traccia il negativo del mondo del Rinascimento; la scrittura ha cessato di essere la prosa del mondo; le somiglianze e i segni hanno sciolto la loro antica intesa; le similitudini deludono, inclinano alla visione e al delirio; le cose restano ostinatamente nella loro ironica identità: sono soltanto quello che sono; le parole vagano all’avventura, prive di contenuto, prive di somiglianza che le riempia; non contrassegnano più le cose; dormano tra le pagine dei libri in mezzo alla polvere. La magia, che consentiva la decifrazione del mondo scoprendo le somiglianze segrete sotto i segni, non serve più che a spiegare in termini di delirio perché le analogie sono sempre deluse. L’erudizione che leggeva come un testo unico la natura e i libri è rimandata alle sue chimere: deposti sulle ingiallite pagine dei volumi, i segni del linguaggio non hanno più come valore che la tenue finzione di ciò che rappresentano. La scrittura e le cose non si somigliano, Tra esse, Don Chisciotte vaga all’avventura.»
Il concetto centrale di questa analisi, secondo noi, è là dove Foucault sostiene che a Don Chisciotte è toccato in sorte di adempiere le promesse dei libri, ossia di "inverare" le storie di cavalleria degli autori antichi, con i loro paladini, i loro castelli ed i loro incantesimi. Don Chisciotte, dunque, non vive nella dimensione reale, ma in quella virtuale d’un riflesso letterario: è il personaggio mancato, che lotta per portare in scena il "suo" dramma, esattamente come i Sei Personaggi di Pirandello. E chi non vede come questo schema mentale è anche lo stesso di Emma Bovary, la quale non vive la "sua" vita, ma si strugge per adempiere, nella vita, le vaghe promesse contenute nei libri della sua adolescenza, sfavillanti di sogni indistinti e di mai vedute felicità sentimentali? E chi non vede come questa è, precisamente, la condizione dell’uomo moderno, dell’uomo moderno in quanto tale: sempre più "personaggio", ossia sempre più estraneo a se stesso e protagonista di una storia che non è la sua, ma di un altro, di un "doppio" elusivo e inafferrabile, che possiede ciò che a lui manca: l’essenza; ma che manca di ciò che lui possiede: l’esistenza concreta, reale?
Ecco, allora, che il compito necessario e doveroso per gli uomini del nostro tempo è quello di rinunciare non già, come voleva Emil Cioran, alla «tentazione di esistere», ma, tutto al contrario, alla tentazione di proiettarsi in una dimensione virtuale, nella quale egli si smarrisce, allo stesso modo in cui si sono smarrite le relazioni fra le parole e le cose, per cui le parole non significano più nulla, e ciascuno le adopera a suo modo, volendo significare quello che a lui soltanto è chiaro, ma che rimane fatalmente oscuro a tutti gli altri (un procedimento di cui ha usato, e abusato, tanta poesia moderna, specialmente nell’ambito dell’ermetismo; per non parlare del teatro dell’assurdo, dell’arte informale e di avanguardie come il dadaismo e il surrealismo).
Tornare ad essere se stesso; tornare ad essere persona: questo è il compito che si pone agli uomini del nostro tempo, dopo tanti smarrimenti pseudo metafisici e dopo tanti arzigogoli intellettualistici; tornare ad essere reale, vivo, pensante e operoso nella realtà concreta d’ogni giorno. Perché di uomini e donne che si credono d’essere ciò che non sono, che giocano a fare l’imitazione di un modello ideale (magari di qualche personaggio della televisione, squallidamente narcisista: altro che la generosa, disinteressata nobiltà di Don Chisciotte"!); che recitano — fuori parte — una commedia, o forse una tragedia, che non appartiene loro, ma che si sentono in dovere d’interpretare, perché tale ritengono essere il copione del "progresso" e della modernità, ce ne sono fin troppi. Così come ci sono fin troppe città che non sono città, strade che non sono strade, case che non sono case; opere d’arte che non sono opere d’arte, scoperte scientifiche che non sono scoperte scientifiche, sistemi di pensiero che non sono sistemi di pensiero. Proiettati sempre più nella dimensione virtuale, versione rivista e aggiornata della supposta razionalità kantiana ed hegeliana, gli uomini moderni, le cose che realizzano e le parole che pronunciano, soffrono sempre più di un deficit di realtà, di collegamento organico, di reciproca armonia: sono schegge impazzite che vagano a cascaccio in una specie di delirio universale, contrabbandato per il migliore dei mondi possibili.
È tempo di risvegliarsi, di riscuotersi; di restituire significato alle parole, di restaurare relazioni di significato fra le cose e le parole che adoperiamo; di ripristinare un generale orizzonte di senso. L’ubriacatura è durata anche troppo: è ora di smaltire la sbornia. E di tornare alla serietà della vita, alla sua bellezza e alla sua quota di necessaria sofferenza.
Il tradimento, l’infedeltà, forse, sono incominciati da qui: dal non aver voluto accettare la quota di sofferenza che la vita porta con sé, e solo mediante la quale è dato progredire e gustarne interamente l’autentica bellezza, svelarne l’intimo significato. Senza la sofferenza, la vita sarebbe un tragico scherzo; invece si è creduto il contrario: che essa sia un tragico scherzo perché c’è quella. La fuga davanti alla serietà della vita ha prodotto l’allucinazione dell’uomo moderno, uomo-massa per eccellenza: senza radici, senza identità, senza valori, e senza neppure il senso del proprio soffrire…
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