
La donna, la seduzione, l’amore nel mondo greco e… oggi
28 Luglio 2015
Fino a che punto è giusto coltivare la virtù dell’umiltà?
28 Luglio 2015C’è stato un momento, tra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del Novecento, in cui la comunità scientifica è stata messa a rumore, e l’opinione pubblica si è letteralmente sbizzarrita, a causa del fortissimo impatto che ebbero le teorie dell’astronomo statunitense Percival Lowell (nato a Boston il 13 marzo 1855 e morto presso il suo osservatorio privato di Flagstaff, in Arizona, il 12 novembre 1916) sulla presenza di una qualche forma di vita intelligente sul pianeta Marte.
Ne avevamo già parlato in un articolo di alcuni anni fa (cfr. « La querelle sui ‘canali’ di Marte fra gli astronomi del primo Novecento», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 31/12/2007), in cui ci eravamo occupati della disputa scientifica legata all’ipotesi dei "canali" del Pianeta Rosso. Ma, se quella relativa alla reale esistenza dei canali, oppure sulla loro natura di semplice effetto ottico, fu una disputa che coinvolse e appassionò soprattutto gli astronomi e, in generale, il mondo degli scienziati di professione, la discussione sull’esistenza di un popolo marziano, fisicamente non troppo dissimile dalla specie umana e attanagliato dal problema di come fronteggiare, mediante gigantesche opere idrauliche, il progressivo e inesorabile inaridimento di quel pianeta, era tale da suscitare le reazioni più immediate ed emotive fra il pubblico di ogni ceto, età e tipo psicologico, indipendentemente dalla estrazione culturale.
Non si trattò, infatti, di una questione concreta e interessante, ma tutto sommato lontana e perciò, agli effetti pratici, quasi ininfluente: il vasto pubblico, influenzato dagli scrittori di fantascienza — che, sulle orme di J. Verne ed H. G. Wells, muovevano allora i primi passi e non erano, come sovente lo sono oggi, poco meno degli specialisti di fisica, chimica, astronomia e cosmologia — era convinto che, se forme di vita progredita esistono davvero su Marte, e se tali forme sono minacciate da una progressiva desertificazione di quel pianeta, allora bisogna aspettarsi, più o meno da un giorno all’altro, che quegli esseri intelligenti e disperati si presentino sul nostro orizzonte e si accingano con ogni mezzo, ospiti sgraditi e non invitati, a ritagliarsi una speranza di sopravvivenza, ma a spese dell’umanità, conquistando la Terra un poco alla volta e sottraendola a noi, che di essa ci sentiamo i "legittimi" abitanti.
Appare evidente, oggi, quanto vi fosse d’ingenuo e d’irrazionale in un simile atteggiamento; allora, però, con una letteratura e con un pubblico non ancora assuefatti a certe raffinatezze del pensiero scientifico, le cose stavano altrimenti. Nessuno si domandava perché mai la minaccia d’invasione avrebbe dovuto essere concreta e immediata proprio nel momento in cui gli astronomi si erano resi conto che un popolo marziano, dopotutto, poteva forse esistere, e trovarsi in difficoltà a causa dell’inaridimento del suo mondo; e a nessuno veniva in mente che, se una tale minaccia esisteva, essa avrebbe potuto manifestarsi già da molto tempo, anche se l’umanità non ne era cosciente, oppure che essa avrebbe anche potuto non manifestarsi mai, se i Marziani avevano perlomeno gli stessi problemi tecnologici a ideare e realizzare dei viaggi nello spazio, di quanti ne avevano, allora, gli esseri umani.
Certo, Jules Verne aveva immaginato un missile terrestre capace di viaggiare dalla Terra alla Luna («De la Terre à la Lune», 1865) e, poi, di orbitare intorno al nostro satellite naturale («Autour de la Lune», 1870); teoricamente, quasi tutti erano persuasi che la cosa fosse possibile: ma, in pratica, era chiaro che trasformare una simile possibilità teorica in una realtà, confinava più o meno con la barriera dei sogni; e, di fatto, fino al 1969, o giù di lì, quando venne dato l’annuncio del riuscito allunaggio, da parte di un equipaggio umano, e dunque per un secolo esatto, la realizzazione di quel sogno apparsa quasi impossibile o, comunque, estremamente improbabile.
Così il divulgatore scientifico Guido Ruggieri descriveva l’impatto delle speculazioni marziane di Lowell sull’immaginazione dei terrestri, al giro di boa fra XIX e XX secolo (da: G. Ruggieri, «La scoperta del pianeta Marte», Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1971, pp. 105-9):
«Quando Lowell divulgò le sue idee, sembrò che una meravigliosa fiaba diventasse realtà. Gli entusiasmi salirono alle stelle, benché si scatenassero, nello stesso tempo, critiche feroci. L’astronomo di Flagstaff le attendeva e si rendeva ben conto che era molto difficile persuadere gli altri osservatori di Marte; egli era, tuttavia, assolutamente convinto che l’aspetto dei canali è nettamente artificiale e che non c’è altro modo per spiegarli.
Secondo la grandiosa concezione del Lowell, il pianeta Marte è, da lunghissimo tempo, agli estremi della sua vita planetaria causa la mancanza d’acqua; senza l’intervento dei suoi abitanti non sarebbe che un deserto senza fine. I marziani sono certamente più civili di noi; non ci sono più guerre fra loro e il reticolato dei canali lo dimostra. Di fronte al pericolo di una totale distruzione,si sono coalizzati fin da epoche antiche e hanno tracciato attraverso deserti e foreste un gigantesco sistema d’irrigazione. Così, quel poco d’acqua che si libera dalle calotte a ogni loro dissoluzione viene ripartita e convogliata ovunque; allora la vita rifiorisce. In alcuni casi due complessi d’irrigazione scorrono paralleli., il che produce l’apparenza delle germinazioni. Su Marte non vi sono montagne, poiché ai canali non vi è ostacolo; essi si tagliano sotto tutti gli angoli. Ai loro incroci vi sono oasi rotondeggianti (i boschi) che contengono, certamente, le città marziane.
Come sfuggire alla suggestione di queste idee, all’emozione prodotta dal pensiero che, su un mondo vicino, una razza intelligente combatte l’ultima, disperata battaglia contro la morte del suo pianeta? Ai primi del secolo XX l’uomo della strada non dubitò più dei marziani e innumerevoli artisti si sbizzarrirono a rappresentare le città dei costruttori di canali. Non sembrava difficile, del resto, immaginare i paesaggi del pianeta. In alto, cieli d’indaco appena sbiancati, qua e là, da veli di cirri; in basso, deserti dai colori ardenti (arancione, rosso mattone, rame) stesi senza interruzione fino alla linea tagliente dell’orizzonte. Dai deserti s’alzano nel cielo fasci di grattacieli serrati in blocchi a formare uniche torri altissime, dominanti le macchie scure delle oasi. E, da un’oasi all’altra, rettilinee strisce verdi, percorse da larghi canali, tese nella solitudine come nastri titanici. L’immaginazione si sbrigliava; poiché le città si trovavano nelle oasi, si credette di individuarne le più importanti nelle oasi maggiori. Si volle addirittura la capitale degli Stati Uniti di Marte e la si trovò nel Lucus Ascraeus (l’Ascraeus Lacus di Schiaparelli) perché a quanto pareva, quell’oasi era il principale punto d’incontro di canali esistente sul pianeta.
Questa immaginosa vicenda si complicò con le rivelazioni dei medium e dei cultori di spiritismo. Una famosa medium svizzera, Elena Smith, aveva descritto nel 1896 il pianeta Marte come un mondo felice, popolato da innumerevoli esseri abitanti in case scavate nei monti e provvisti di veicoli capaci di muoversi sul suolo e nell’aria. . […]
Le idee degli astronomi di Flagstaff e le rivelazioni medianiche lasciavano libero corso ai sogni e alle speranze di una fratellanza cosmica; tuttavia serpeggiava già il timore diffuso di una invasione dei marziani che, più progrediti di noi, avrebbero certamente resa schiava la Terra. Questo timore era apparso dopo che un ben noto scrittore inglese, George Herbert Wells, aveva pubblicato nel 1898 un romanzo, divenuto poi famoso, dal titolo "The War of the Worlds" (La guerra dei mondi). La narrazione punta su un’idea base indubbiamente ragionevole: dato che Marte è un mondo morente, perché non pensare che i marziani decidano di appropriarsi della terra, pianeta ancora giovane e fertile? Essi la vedono nei loro telescopi — immagina il romanziere — e appare loro verde per i suoi boschi e le sue culture, ricca d’acqua per le sue nuvole, calda nell’effluvio dei raggi solari. Nel libro i marziani realizzano, appunto, l’invasione. Scendono nelle campagne inglesi con strani veicoli spaziali e distruggono tutti ciò che incontrano. Il loro grado di evoluzione li ha ridotti a sole teste munite di arti, poiché il loro corpo è diventato inutile, ma l’aspetto che ne risulta è orrendo, per un terrestre. L’abitante di Marte, come racconta Wells, è una massa grigia delle dimensioni di un orso, dalle sfumature del cuoio bagnato, sorretta da lunghi e tremolanti tentacoli; due occhi fissi, grandi come fanali, sporgono da questa palla deforme nella quale si apre una bocca mostruosa. Quest’essere da incubo si nutre di sangue. Dopo aver portato una devastazione senza limite, sarà vinto soltanto dai batteri della Terra, contro i quali il suo organismo non possiede difese.
Il cupo romanzo di Wells lasciò un terrore latente che affiora ancora oggi in certi racconti di fantascienza. Gli entusiasti cercarono però di dissiparlo, descrivendo l’aspetto dei marziani sulla base di ragionamenti più ottimistici che avevano un vago sapore scientifico. Supponendo sul pianeta rosso un’evoluzione organica parallela a quella avvenuta sulla Terra, essi dissero, i marziani devono essere fondamentalmente simili a noi, con quella diversità di struttura prodotta dall’ambiente in cui si sono sviluppati. Poiché sono soggetti a una gravità che è quasi un terzo della nostra, i loro organismi saranno liberamente cresciuti in proporzione e la loro altezza oscillerà da 4 metri a 4 metri e mezzo. Si può supporre che le loro membra corrispondano alle nostre; vi sarà invece una grande diversità nel petto, che sarà enormemente ampio e dilatato dovendo contenere polmoni sviluppatissimi. Ciò è una conseguenza ovvia della rarefazione dell’atmosfera marziana. La testa avrà un cranio molto grande, atto a contenere un cervello grandemente evoluto, ma, in compenso, una faccia molto piccola per la riduzione delle ossa mascellari avvenuta da tempo lunghissimo. I padiglioni delle orecchie saranno molto sviluppati, dovendo concentrare suoni molto tenui causa, ancora, la sottigliezza dell’atmosfera. Un grande sviluppo avranno anche gli occhi, perché sul pianeta v’è meno luce che sulla Terra. In complesso, quest’aspetto dei marziani non differiva gran che dall’idea che molti si facevano dell’uomo del futuro ed appariva, perciò, ben più accettabile di quello dei mostri di Wells.»
Ci sembra quasi superfluo segnalare i punti di contatto fra la situazione psicologica dei nostri antenati di fine Ottocento, e dei primi anni del Novecento, alle prese con il timore di una invasione marziana sul nostro pianeta, e quella delle odierne società europee e "occidentali" (nordamericana, australiana, neozelandese), che si vedono alle prese con una invasione non ipotetica, ma reale, da parte di milioni di persone provenienti dai Paesi del Sud della Terra.
A molti, lo sappiamo, non piace parlare di "invasione"; e i media, di fatto, non adoperano mai questa espressione: parlano, semmai, di "migranti", e vi aggiungono, quasi immancabilmente, l’aggettivo "disperati", o la locuzione "in fuga da guerre e dittature", oppure quella "in cerca di un futuro migliore", sicché la notizia del fatto viene data insieme a una certa lente interpretativa, quella di tipo buonista e giustificazionista. Chi sarebbe mai così egoista e insensibile, da negare simpatia ed accoglienza a delle persone che fuggono dalla guerra e dalle dittature, o che cercano una vita migliore, in cui vi sia spazio per la speranza nel futuro? Noi, che viviamo nel Paese di Bengodi, nel Paese di Cuccagna, non possiamo di certo negare la nostra comprensione e la nostra solidarietà a simili "disperati": se lo facessimo, scadremmo automaticamente al livello dei bruti.
Che si tratti di una impostazione tendenziosa del problema e di una vera e propria forzatura ideologica, fondata su un inaccettabile ricatto e sopra una pesante alterazione dei fatti, questo potrebbe anche sfuggire a quanti (e non sono certo pochi, beati loro) continuano ad affidarsi ai media come a delle fonti d’informazione sufficientemente obiettive e credibili. Così come potrebbe sfuggire che vi sono dei poteri occulti, specialmente d’ordine finanziario, i quali, ormai padroni dell’informazione mondiale, hanno l’interesse a presentarci le cose sotto un’ottica ingenuamente pietista e buonista, mentre la posta in gioco è ben altra, e cioè la sopravvivenza della nostra società e della nostra cultura, così come i nostri antenati l’hanno creata, sviluppata e custodita, e così come noi l’abbiamo sempre conosciuta, apprezzata e amata.
Dispiace, ma non sorprende, che un certo cattolicesimo "progressista" e terzomondista, incurante di stravolgere il significato stesso del messaggio cristiano, si presti ad un simile ricatto psicologico e morale, diffondendo l’idea che, per essere delle degne persone, non si può non spalancare le braccia e accogliere chiunque voglia venire nel nostro mondo, perfino quanti lo odiano e desiderano segretamente, o anche non troppo segretamente, distruggerlo, per imporci una cultura ed una religione che non hanno niente a che spartire con la nostra.
Piuttosto, dovremmo meditare sul perché di una sempre più diffusa "oicofobia", ovvero di una sorta di disprezzo e rifiuto di noi stessi, delle nostre radici, della nostra identità, che è il presupposto della nostra attuale arrendevolezza e di questo eccesso di buonismo e di ammirazione acritica per l’esotico – ad esempio, per la "negritudine"- il cui conto, salatissimo, dovrà essere pagato dalle nostre future generazioni, visto che noi stiamo facendo i generosi con dei beni che non ci appartengono: la nostra terra e la nostra civiltà, che abbiamo ricevuto in usufrutto e che dovremo consegnare, possibilmente in condizioni di vivibilità, ai nostri figli e ai nostri nipoti.
Non si tratta, quindi, di essere sordi e ciechi davanti al dramma delle popolazioni più povere e dimenticate del nostro pianeta; al contrario: bisogna comprendere come ristabilire condizioni di sostenibilità nei Paesi del Sud del mondo, è non solo nostro dovere, ma anche nostro interesse: si tratta, però, di individuare la strategia migliore, che, a nostro avviso, non può essere quella dell’accoglienza indiscriminata di decine o centinaia di milioni di persone, sotto la spinta del ricatto morale e all’ombra di potenti organizzazioni criminali, che sfruttano la tratta degli esseri umani, bensì mediante piani di sostegno ed intervento mirati, che non servano a finanziare dittatori ed élites parassitarie (si pensi, ad esempio, a quanto denaro l’Italia ha gettato, finanziando uomini di stato africani come Siad Barre, in Somalia, all’epoca dei governi Craxi), ma vadano effettivamente a vantaggio delle popolazioni, aiutandole a recuperare fiducia nel futuro della loro terra.
In altre parole: il dramma dell’Africa e del Medio Oriente non si risolve trasferendo puramente e semplicemente tutti i loro abitanti in Europa: questa è follia, e follia delittuosa nei confronti dei nostri figli; si risolve, o comunque si affronta, praticando politiche di sostegno e collaborazione con quelle popolazioni, se possibile saltando l’intermediazione dei loro governi, troppo spesso avidi, corrotti e immorali.
Certo, vi è un grosso ostacolo che si frappone a ciò; lo stesso ostacolo che si frappone fra noi e la vita serena che vorremmo fare, restando padroni di decidere il nostro futuro e di disporre delle nostre risorse: il potere finanziario internazionale, che sfrutta i popoli del Sud della Terra fino a ridurli alla disperazione, e, contestualmente, anche i popoli dei Nord, favorendo la loro invasione, la loro perdita di identità e il loro suicidio morale. Sono vittime, gli uni e gli altri, di uno stesso meccanismo, manovrato dagli stessi gruppi di potere occulto: le grandi banche e le multinazionali a carattere speculativo, che giocano con la vita dei popoli del mondo e che, per realizzare i loro tenebrosi disegni di sfruttamento globale e totalitario, non esitano a servirsi di qualunque mezzo, né arretrano davanti ad alcuna forma di violenza, materiale o morale.
Finché non riusciremo a individuare in quei poteri la radice dei nostri mali, e finché non impareremo a regolarci di conseguenza, nessuno di noi, nessun popolo e nessun individuo, potrà vivere in pace: saremo sempre e solo carne da macello, bestiame da mungere, utili idioti da spremere sempre di più, fino all’esaurimento totale.
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