
In Franco Amerio la teologia s’incontra con la fede per uscirne rafforzata e vivificata
28 Luglio 2015
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28 Luglio 2015È una verità evidente perfino lapalissiana, tramandata — fra l’altro — dalla saggezza popolare di molti proverbi dialettali; e tuttavia è una di quelle verità che, proprio per il fatto di essere così immediatamente percepibili, finiscono per nascondersi all’interno delle loro stesse pieghe, per sottrarsi allo sguardo profondo, per mascherarsi da verità povere e banali, da verità superficiali e di largo consumo, mentre le cose stanno esattamente al contrario.
In breve, si tratta di questo: chi parla molto, dimostra, con ciò stesso, di sapere poco, e di capire ancora meno; chi molto ha compreso e molto conosce, non ha alcuna smania di farlo vedere agli altri: tace, osserva in silenzio e pare quasi che si nasconda; non per semplice modestia, o per altre ragioni meramente utilitaristiche, ma perché proprio il fatto di aver compreso quali sono le cose davvero importanti, lo rende consapevole che affrettarsi a dire la verità non è una cosa importante, o, per meglio dire, non è una cosa significativa.
Una cosa significativa è una cosa che può fare la differenza, che può rivestire un preciso significato nella vita di colui che ne viene reso partecipe; ma, per comprendere quando una cosa è importante, e quando non lo è, bisogna, comunque, avere fatto un lungo cammino di ricerca interiore; bisogna avere percorso molta strada, con i piedi stanchi e perfino piagati; bisogna essersi gettati dietro le spalle molte cose inutili, la prima delle quali, senza ombra di dubbio, è la tirannia e la smania di apparire del proprio Ego.
Ecco perché il saggio non si mostra facilmente; non parla volentieri in pubblico; non si dichiara, né si propone, quale salvatore della patria; non vuole convincere, e tanto meno convertire, alcuno: il saggio è una persona che, avendo fatto molta strada, e avendo affrontato cose che la persona superficiale non riesce neppure ad immaginare, è giunto spiritualmente oltre il comune modo di sentire e di pensare, non è più toccato dalle cose che sogliono coinvolgere gli altri, non si turba né si agita facilmente, non si spaventa, non brama alcunché.
Non stiamo dipingendo un saggio ideale di tipo buddista o taoista, e nemmeno stoico, anche se, indubbiamente, alcuni caratteri qui delineati richiamano quelle dimensioni culturali; stiamo parlando di qualunque persona, in qualsiasi contesto storico-culturale, abbia raggiunto, attraverso un percorso intimo, sofferto, non riducibile a formule di pronto uso e consumo, un certo qual grado di comprensione del reale, ciò che comunemente si chiama "saggezza"; e può essere, si badi, anche una persona illetterata, anche una persona che non abbia dimestichezza alcuna con la filosofia, con Platone o Aristotele: perché la vera saggezza viene in primo luogo dalla vita, e la vita è l’università più importante di tutte — beninteso, per chi sappia farne il giusto uso e sappia sviluppare la giusta consapevolezza del proprio posto nel mondo.
La persona saggia non si nasconde, ma neppure si esibisce: non è impaziente di dire e di parlare, perché sa benissimo che noi siamo pronti per quelle verità che corrispondono al nostro grado di maturazione e di consapevolezza; e che, pertanto, se colui al quale ci rivolgiamo non ha raggiunto quel determinato livello, non arriverà mai a far tesoro della nostra saggezza, non arriverà neppure a sfiorare il significato di quel che gli diremo, per quanto la nostra ricerca possa esserci costata grandi fatiche e sacrifici e per quanto noi siamo disposti a rivelargliela gratuitamente, senza alcun secondo fine, senza aspettarci di ricevere in cambio assolutamente nulla.
Ecco perché scrivere per un pubblico indifferenziato, o tenere delle conferenze per un pubblico indifferenziato, è una cosa che può avere la sua efficacia, ma solo a patto che si mantenga entro un livello di verità pratica e immediata: ad esempio, se si tratta di comunicare conoscenze di fatto, come potrebbe essere una questione di fisica, o di geologia; oppure se si tratta di fare appello al buon senso istintivo e alla legge morale naturale, inscritta silenziosamente nell’anima di tutte le persone di buona volontà. Però, se intendiamo comunicare delle verità di carattere più profondo, rivolgersi a chiunque, cioè a tutti e a nessuno in particolare, non è senza rischi, il primo dei quali è quello del fraintendimento: e Dio sa quanti discepoli imbecilli hanno preso, stravolto e pervertito le sante verità dei loro maestri, e ne hanno fatto dei derivati irriconoscibili, forieri di gravi confusioni e di ancor più gravi disordini sociali, politici, economici, morali e spirituali.
Qui si annida un duplice mistero: un mistero così vertiginoso, abissale, da lasciare a lungo pensosi e quasi interdetti.
Primo: che una verità, caduta nell’orecchio di una persona impreparata, rischia di essere capovolta e di diventare dannosa, perfino distruttiva, senza possibilità di rimedio.
Secondo: che tutti, o comunque moltissimi, credono di avere scoperto e compreso delle verità, ma proprio la fretta di comunicarle e il narcisismo di cui essi danno prova, dimostrano che non hanno raggiunto e compreso proprio niente; ma, allora, a quale criterio ci si deve affidare, per riuscire a distinguere le false verità da quelle effettive?
Ricordiamo la classica definizione, aristotelica e tomista, della verità: la verità è l’accordo fra la cosa e il giudizio; pertanto, vero è l’essere che è come deve essere; vero è lo sguardo che lo sa riconoscere per quello che realmente è; vera è la comunicazione che lo sa rappresentare in maniera fedele: e questo vale non solo per la filosofia, ma per l’arte, la scienza, il diritto, nonché per le concrete situazioni della vita quotidiana, a cominciare da quelle affettive e sentimentali, così importanti nella vita delle persone.
I passaggi, dunque, sono tre: la verità della cosa in se stessa; la verità della sua percezione; la verità della sua rappresentazione. Pertanto, non basta che vi sia accordo fra la cosa e il giudizio; bisogna vedere se la cosa è quella che deve essere, e se la sua rappresentazione è conforme tanto alla verità della cosa, quanto alla verità del giudizio.
Ma come deve essere, l’essere della cosa? Deve essere la fedele manifestazione dell’Essere da cui tutte le cose provengono: deve portare inscritta, cioè, in qualche modo, la sua natura spirituale, assoluta ed eterna: perché le cose sono un frammento dell’assoluto e dell’eterno, possiedono in se stesse una scintilla dello Spirito divino.
E come deve essere il giudizio? Deve essere conforme alla reale natura delle cose: deve coglierne, cioè, non l’aspetto effimero e transitorio, non le apparenze contingenti, ma il nucleo di verità eterna che ciascuna di esse possiede, magari nascosta nella sua parte più profonda, e perfino sconosciuta a se stessa.
Come deve essere, infine, la rappresentazione? Deve esprimere quel raggio, quel barlume di eternità e di assolutezza che traspare dalle pieghe della cosa effimera e contingente. Per fare un esempio: il ritratto di un volto, eseguito da un pittore, non deve soltanto rappresentare, in maniera più o meno fedele, le caratteristiche fisiche di esso: deve coglierne, specialmente attraverso la luce dello sguardo, l’essenza assoluta ed eterna, la scintilla divina seminascosta.
Ed ora torniamo al nostro assunto iniziale: che chi sa, non parla; e chi parla, non sa.
Nell’aforisma numero 56 de «Il libro della virtù e della via», attribuito a Lao-Tzu (titolo originale: «Te-tao-ching», secondo il manoscritto di Ma-Wang-Tui; Milano, SE, 1993, p. 29):
«(Chi sa) non parla, chi parla non sa. Blocca le sue stupidità, chiude le sue (porta, tempera) la sua brillantezza, uguaglia la sua polvere, smussa le sue cose affilate, dipana le sue cose imbrogliate: questo è detto il misterioso accordo. Perciò non lo si potrà trattare amichevolmente, neanche lo si potrà avversare; non si potrà avvantaggiarsi da lui, neanche si potrà esserne danneggiati; non si potrà (ottenerne) onori, neanche si potrà ottenere danno. Pertanto, tutto il mondo lo onorerà.»
I commentatori sono propensi a vedere in questo brano un ritratto ideale del saggio taoista; tuttavia, al di là dello specifico contesto culturale e spirituale asiatico, e più specificamente taoista, ci sembra che qui ci troviamo di fronte ad una di quelle perle di saggezza universale che scavalcano le differenze di tempo, di luogo e di ambiente, per donare un raggio di luce a tutti gli esseri umani che sono sinceramente impegnati nella ricerca della verità e nel percorso della propria evoluzione interiore.
Il saggio è colui che sa ascoltare, tanto le voci di fuori quanto le voci di dentro; e, per poterle ascoltare, egli è colui che ha imparato a fare silenzio: a fare silenzio con la propria voce, ma anche a fare silenzio nei propri pensieri, nelle proprie emozioni, nei propri movimenti interiori disordinati e convulsi: che ha imparato una disciplina di vita, una gerarchia di valori, una padronanza di sé, un abbandono dell’Io e delle sue smanie, delle sue velleità, delle sue illusioni.
Le vere illusioni dell’Io non sono le cose che vorrebbe raggiungere, e che continuano a sfuggirgli; sono tutte le cose, intorno a lui e dentro di lui, che reclamano più importanza di quella che meritano, e, viceversa, quelle che dovrebbero attirare la sua attenzione, e che invece gli sfuggono, perché non le sa vedere o (il che è lo stesso) perché lui non è pronto per comprenderle. E fino a quando l’Io non si sia sbarazzato dal condizionamento delle proprie illusioni, non riuscirà mai a sviluppare uno sguardo limpido sulle cose — e su se stesso; sarà sempre in balia di una visione distorta, dunque di una visione menzognera, non veritiera, del reale.
L’Io immaturo e superficiale tende a confondere continuamente la realtà con il reale. Ma la realtà non è la stessa cosa del reale: è solo quella parte del reale che noi riusciamo a percepire e che arriviamo a comprendere; il resto, cioè la maggior parte — così come la maggior parte della massa di un "iceberg" è quella sommersa, e che sfugge alla vista del navigante — per l’Io è come se non esistesse, perché non ne sospetta neppure l’esistenza. Ciascun Io vede le cose più o meno limpide, più o meno torbide, più o meno deformate, a seconda del lavoro che la coscienza ha saputo esercitare su di esso, purificandolo, alleggerendolo, liberandolo dalla ossessione compulsiva di voler soddisfare, in un modo o nell’altro, tutte le sue inclinazioni, anche le più futili e momentanee, tutti i suoi capricci, tutte le sue brame.
D’altra parte, la vera saggezza del saggio consiste nel fatto di essere umile, cioè di non considerarsi affatto come un saggio, ma, tutt’al più, come un individuo che si è messo in cammino e che sta cercando di realizzare la parte migliore di se stesso: non con le sue sole forze, tuttavia; non con orgoglio faustiano, ma, al contrario, con piena fiducia e abbandono nel grembo dell’Essere, dal quale tutto ha origine e al quale tutto ritorna. In altre parole, non vi è saggezza ove non vi sia, anche, la piena e profonda consapevolezza dei limiti umani; e, per converso, la capacità di un pieno e fiducioso abbandono al soccorso della Grazia divina.
È perfettamente logico, dopo quanto abbiamo detto, che il saggio non solo eviti di mostrarsi e di parlare inutilmente, ma che passi comunque inosservato, perché la folla degli uomini-massa non lo riconosce e corre dietro a uomini piccoli, gonfi di Ego e di narcisismo, i quali attirano l’attenzione con i loro discorsi petulanti e con le loro pose istrioniche; la folla scambia lo stalliere per l’imperatore e l’imperatore per lo stalliere, perché giudica secondo il proprio metro intellettuale e spirituale, vale a dire secondo le apparenze più superficiali e grossolane.
Il saggio, però, non se ne cruccia, né se ne duole. Non lo considera un’ingiustizia e, semmai, prova una certa compassione per la massa inconsapevole, prigioniera dei fantasmi tirannici dell’Ego. Se un furto c’è stato, è stato commesso non ai danni della persona saggia, ma dell’Essere, da cui la persona saggia ha ricevuto in dono la propria saggezza. La fonte di ogni vero sapere e di ogni vero comprendere non è in noi, ma al di sopra di noi. Questo il saggio ha compreso veramente: ed è la cosa più importante di ogni altra. Tutto il resto viene dopo e, in confronto, è secondario. Non ha senso preoccuparsi di ciò che è secondario: sarebbe come preoccuparsi di potare un albero, mentre l’intera foresta sta venendo divorata dalle fiamme d’un incendio.
Eppure, noi ci comportiamo, a volte lungo l’intero percorso della nostra vita, come quel giardiniere folle: ci preoccupiamo di potare una pianta, mentre il bosco è minacciato di distruzione. Il bosco è la sostanza eterna e immortale del nostro essere; l’albero, cui ci ostiniamo a rivolgere tutte le nostre attenzioni e le nostre cure, è l’uno o l’altro dei nostri capricci estemporanei, dei quali a stento, fra un giorno o fra un anno, serberemo ancora il ricordo.
Guai a noi, se avremo dissipato così il tesoro preziosissimo della nostra vita. Pace a noi, se avremo riconosciuto l’importanza del bosco; se avremo combattuto il pericolo; se avremo saputo amare…
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