
Ma possono accadere cose del genere?
28 Luglio 2015
Il futuro non è nella mani dell’uomo, ma di Dio
28 Luglio 2015Ad un "Dio debole" (e "sconfitto") non può che corrispondere un "pensiero debole"; e viceversa, a un "pensiero debole" bisogna che corrisponda un "Dio debole".
Ecco perché il pensiero debole di Gianni Vattimo si incontra con quello di Pier Aldo Rovatti: il primo, che riprende la lezione anti-metafisica di Nietzsche e di Heidegger, e punta all’indebolimento dell’essere, s’incontra con il secondo, che deriva dalla fenomenologia di Enzo Paci e, in prospettiva, di Husserl, e si incentra sulla debolezza del soggetto conoscente; ed ecco perché quello di entrambi, ma specialmente del primo, è fatalmente destinato a trovarsi a metà strada con la "teologia debole" di Sergio Quinzio: ad un essere indebolito, non può che fare da corrispettivo un Dio indebolito, e viceversa.
Viviamo in tempi di post-modernità, ma non si direbbe che siano tempi di "superamento" della modernità, né di differenziazione qualitativa dalla modernità: se il pensiero moderno aveva gettato le basi del relativismo e del nichilismo, il pensiero post-moderno non ha fatto altro che riprendere, accentuare ed assolutizzare questi temi e questi atteggiamenti, senza troppa originalità, anzi — come abbiamo visto — rifacendosi in maniera esplicita ai pensatori della tarda modernità, visti come dei capiscuola, e sia pure pigliando da essi quel che fa comodo al discorso post-moderno, e rifiutando quello che non piace: ed ecco le strane operazioni chirurgiche e le disinvolte manipolazioni del pensiero di filosofi come Nietzsche, voltati e rivoltati incessantemente ora in un senso, ora nell’altro, da sinistra a destra e da destra a sinistra, fino a ottenerne un distillato che, francamente, avrebbe lasciato assai perplesso il diretto interessato, se avesse potuto immaginare il destino postumo che gli era riservato.
Ora, che ci sia una relazione diretta, organica, strutturale, fra pensiero debole dell’essere e pensiero debole di Dio, la cosa ci sembra alquanto evidente, anche se, forse, non è stata considerata in tutte le relazioni reciproche della sua necessaria consequenzialità. Tutto il pensiero moderno, in fondo, è una preparazione al pensiero debole, almeno a partire da Cartesio, poi da Locke, da Kant, da Hegel: un pensiero che abbandona la metafisica e si concentra sul conoscere del soggetto, poi sul soggetto, infine arriva a dichiarare che non l’essere crea il pensiero, ma il pensiero crea l’essere: e con ciò, vale a dire con il trionfo dell’idealismo, il cerchio è chiuso e la pazzia è definitivamente instaurata nella mente dei filosofi. Croce e Gentile sono gli epigoni di questa pazzia, di questa malattia degenerativa del pensiero, che Maritain, giustamente, si rifiutò di chiamare ancora "filosofia", perché aveva rimosso e cancellato quasi tutti i presupposti di ciò che quest’ultima era stata per duemila anni, e per la quale preferì coniare l’espressione di "ideosofia". Amore dell’idea, e non più amore del sapere, appunto: che, per duemila anni di tradizione speculativa europea, era stato il sapere relativo all’essere.
Dicevamo: stretta e necessaria correlazione fra pensiero debole e teologia debole; ed è chiaro che è l’indebolimento dell’essere a provocare l’indebolimento del pensiero, e non viceversa. Ma perché l’essere si è indebolito? Potremmo dare una risposta di tipo psicologico: perché si è indebolita la fiducia in sé, e nel fatto del conoscere, da parte del soggetto pensante; e però, abituato ormai a far coincidere se stesso con il problema dell’essere, il soggetto non ha voluto accettare il proprio indebolimento, ma ha preteso di farne una realtà oggettiva: di avere individuato, cioè, un indebolimento dell’essere. Come dire: è meno imbarazzante essere dei nani, se si è in una casetta rimpicciolita alle dimensioni di un giocattolo; il proprio orgoglio personale non ne soffre, perché la piccolezza è diventata universale, e, se tutto è piccolo, non c’è niente di strano e niente di male nell’essere diventati dei nani.
Ma possiamo anche rispondere, in senso ontologico (e logico): se tutto procede dall’essere — checché ne pensino Cartesio, Locke, Kant ed Hegel -, allora è chiaro che a un essere rimpiccolito deve corrispondere un pensiero piccolo, cioè debole: un pensiero che non osa più pensare la totalità dell’essere, la sua assolutezza, la sua perfezione, ma che si limita a balbettare qualche sillaba spezzata e storta (parafrasando «Non chiederci la parola» di Montale: perché c’è anche una poesia debole, la quale, fra parentesi, va per la maggiore da circa un secolo, e ancora non si è stancata, né lei, né il pubblico, della sua insostenibile debolezza).
Ora, nonostante il pensiero moderno sia un pensiero che, assolutizzando progressivamente il soggetto, nega progressivamente Dio, tuttavia è anche un pensiero in cui la morte di Dio, o, se si preferisce, il cadavere di Dio, pesa, eccome, anche se non è molto politicamente corretto dirlo e farlo notare; un pensiero in cui la nostalgia di Dio è fortissima, anche se raramente riconosciuta come tale, per cui diventa o "scheggia impazzita" di una verità religiosa, o, in alternativa, idolatria pagana di qualche cosa di finito, preso come sostituto dell’infinito. Ebbene: in questa nostalgia di Dio non poteva mancare l’incontro con un Dio ridotto alle misure del pensiero post-moderno, ossia di un Dio debole, che si nasconde, che è impotente, che si sottrae, che soffre, che si sente in colpa (per tutto il male commesso dagli uomini, da lui creati), eccetera: insomma, il "Dio dopo Auschwitz", che non è più il vecchio Dio, forte e sicuro di sé, ma un pallido fantasma torturato dai rimorsi e dall’impotenza, che non sa letteralmente che pesci pigliare.
Ed eccoci a Sergio Quinzio, tipico esponente di questo tipo di "teologia": una teologia ridotta alle misure del "dopo Auschwitz", che mesta e rimesta fra le ceneri del vecchio Dio, lo rimpiange, e tuttavia non sa fare a meno d’indulgere all’auto-compassione. Da un lato, Quinzio giunge alla conclusione estrema che il compito dell’uomo, forse, è proprio quello di prendere su di sé la croce di questo Dio impotente, sacrificarsi per Lui (capovolgendo il rapporto di redenzione fra noi e Lui) e ridargli, così, vita e splendore; dall’altro, l’uomo post-moderno di Quinzio è ormai troppo stanco, troppo amareggiato, troppo sofferente per continuare a credere ancora in Dio, e la colpa di ciò risiede proprio in Dio stesso: per cui non sa dire egli medesimo (Quinzio) che cosa l’uomo debba fare e in che cosa possa ancora credere.
Riportiamo un passaggio centrale del suo libro "La sconfitta di Dio" (Milano, Adelphi, 1992, pp. 39-49):
«… Ma la storia di io è, fin dalla prima pagina della Bibbia, una storia di sconfitte. Secondo la Kabbalah di Itzchaq Luria – siamo nel sedicesimo secolo – la creazione del mondo è rea possibile dallo "tzimtzum", il "contrarsi" di Dio. nella sua totalità infinita e perfetta, che non lascia nulla all’infuori di sé, non avrebbe potuto altrimenti trovare posto ciò che è altro da lui. Il contrarsi cabalistico di Dio non consiste nella concentrazione della sua potenza in un luogo, come nel tempio di Gerusalemme, ma nel ritrarsi dal luogo: il luogo esiste dal momento in cui Dio si ritrae.
S’instaura, nel momento stesso della creazione, una situazione di estrema precarietà. La giustizia di Dio è incompatibile, in realtà, con l’esistenza degli uomini e del mondo. A rigore, Dio, essendo giusto, dovrebbe impedire l’giustizia, annientare coloro che compiono il male, come quando,è scritto nel libro dell’Esodo, di fronte alle colpe degli ebrei usciti dall’Egitto rifiuta di accompagnare il suo popolo: "Se vi accompagnassi, non fosse che per un momento, vi sterminerei" (33, 3 e 5). Dio non può dunque esercitare la sua giustizia nel mondo. Si deve stabilire così un meccanismo compensatorio, che si manifesterà sempre più insufficiente e manchevole, ma che nelle Scritture, sia ebraiche che cristiane, ha un ruolo assolutamente fondamentale, anche se a noi moderni appare assurdo e inconcepibile. Il mondo, essendo ingiusto – e dovendo permanere, se permane, al cospetto della giustizia divina – , si sostiene su atti sacrificali che hanno anzitutto il potere di evitare ogni volta la colpa, di "compensare" l’ingiustizia, di ripristinare l’equilibrio continuamente rotto. La teoria sacrificale sembra del resto appartenere a tutte le culture umaneche ci hanno preceduto, ed essere scomparsa soltanto dopo aver toccato il culmine nell’uccisione dell’unica vittima perfetta, Gesù Cristo, il quale, dice la Lettera agli ebrei, "adesso, una volta per tutte, alla fine dei tempi, si è manifestato per abolire il peccato per mezzo del suo sacrificio (9, 26). […]
Ma neanche la creazione, con tutti i suoi orrori, è l prima sconfitta di Dio. C’è "qualcosa" di logicamente, se non cronologicamente, antecedente, che consiste, secondo il linguaggio dei filosofi, nell’atto di libertà originaria con il quale Dio pone se stesso. Dio, secondo la tradizione ebraica, non è l’Essere, ma piuttosto il "go’el", il "vendicatore", il redentore delle ingiustizie dell’essere. Già Lutero aveva alzato la voce contro l’idolatria aristotelica alla quale, da sempre si può dire, si sono asserviti i teologi cattolico, e non solo cattolici. Il Dio-"Essere", il Dio "motore immobile" dell’universo è stato chiamato – da Paolo De Benedetti – un "mito metafisico". Catturato dal’orizzonte dell’essere, il Dio biblico acquista le connotazioni, mitologiche appunto, dell’assoluta immutabilità, dell’infinità, dell’eternità, dell’onnipotenza, che la Scrittura non afferma, almeno non in modo diretto ed esplicito. Scholem ha notato che la concezione biblica di un Dio vivente non è compatibile con il principio dell’immutabilità di Dio. Un altro pensatore ebreo contemporaneo, Hans Jonas, usa l’immagine di un Dio diveniente, un Dio cioè che diviene nel tempo anziché possedere un essere completo, sempre identico a se stesso, nell’eternità. […]
Da parte ebraica si incontra spesso, in modi diversi e in tensione con l’opposta polarità, l’affermazione della finitezza, dell’impotenza, della sofferenza di Dio, che è in definitiva quella stessa della sua cabbalistica autolimitazione. La si incontra, per venire poi ad autori contemporanei, e sotto la terribile spinta di Auschwitz, in Neher, in Wiesel, in Jonas., Secondo Jonas, se Dio è buono e comprensibile (nel senso in cui ne parla la Bibbia) allora non pouò essere onnipotente; e se è onnipotente e buono insieme, non è comprensibile (soprattutto, non è comprensibile dopo Auschwitz). I tre attributi non possono stare insieme […].
Le Scritture offrono invece, secondo me, un quadro diverso da questo, in cui la scelta originaria di Dio non è il bene; e Dio stesso, in definitiva, non mi pare troppo diverso dall’essere, se la scelta, da sempre, del proprio essere Dio, della propria vittoria sul male, in una parola della propria onnipotenza, è necessariamente destinata, per quante vicende di ribellione gli uomini possano tentare, a trionfare, imponendo alla fine il castigo degli empi. Dio è allora nell’eternità, e nell’eternità, che è il luogo della verità, già da sempre trionfa, sebbene gli occhi di chi vive nel tempo non possano vederlo.
[Dopo aver considerato la Lettera ai Filippesi, 2, 5-9, l’A. afferma:] è Dio stesso che, in Cristo, percepisce come una preda, e cioè come se fosse il frutto di una rapina, il proprio essere Dio. Secondo l’eterna necessità dell’Essere, Dio è Dio e l’uomo è uomo, debole e pieno di dolorose limitazioni: che giustizia c’è in questo? La scelta originaria di Dio non è perciò la scelta di ciò che è nei confronti di ciò che non è, di ciò che ha valore nei confronti di ciò che non ha valore, della vita nei confronti della morte, della gloria e della libertà nei confronti dell’umiliazione e della schiavitù, ma è proprio la scelta opposta.
Come ha detto Paolo, "Dio ha scelto ciò che non è" (1 Cor., 1, 28). Dio ama, nella vita, non ciò che è forte e necessario, ma ciò che è debole e mortale, bisognoso di consolazione. […]
Tutto questo affannoso discorso più o meno mitologico teta di dire l’intima dimensione di debolezza, di finitezza, di limite, di sofferenza nella quale ci è rivelato, e ci è dato in quel limite di comprendere, Dio: una dimensione biblica, una dimensione presente sempre nella tradizione del giudaismo, una dimensione che dovrebbe essere soprattutto cristiana – perché la fede in Gesù Cristo è l’affermazione della croce di Dio – ma che i secoli cristiani hanno invece dissolto in categorie filosofiche astratte e incompatibili, affermando proprio ciò che la croce frontalmente nega, e cioè la struttura garantita e necessaria dell’"Essere" e quella, corrispondente, della "Ragione". Il Dio che sceglie la debolezza, ciò che non è nei confronti di ciò che è, è un Dio separato nei confronti di se stesso, lacerato da ciò che costituisce la pienezza della propria divinità: e questa originaria lacerazione in Dio, che solo alla fine conquisterà il trono della sua potenza e della sua gloria, è il "mistero" (ossia, nel linguaggio del nuovo Testamento, la verità svelata e rivelata, nell’attesa del suo perfetto compimento escatologico) della Trinità divina.»
La cosa, in fondo, è abbastanza chiara. Se Dio è amorevole, allora è impotente; se è onnipotente, non è amorevole; oppure — terza possibilità — è incomprensibile; in ciascuno di questi tre casi, è l’uomo che deve prendere l’iniziativa. L’iniziativa di che cosa? Di credere ancora in Dio, sacrificandosi per lui e resuscitandolo; oppure di recitare definitivamente il suo elogio funebre e andarsene per la propria strada, dopo averlo sepolto una volta per tutte.
Il guaio è che, delle due alternative, non sa quale pigliare. Nel frattempo (nell’attesa, cioè, di decidere), si attiene a una terza soluzione, scomoda, ma provvisoria: marciare sul posto, fare finta di avanzare e non staccare i piedi da terra, oppure fare un passo avanti e uno indietro: lodare Dio e maledirlo, averne pietà e tirarci sopra un rigo, meditando di disfarsene per sempre. Dio non sa che pesci pigliare; l’uomo non sa che pesci pigliare. Nessuno sa che cosa si debba fare, che cosa vada fatto: tutto è sospeso, perché l’essere non è più il fondamento del tutto, è divenuto parte del divenire, è stato catturato dalla teologia antropomorfica del giudaismo.
Quinzio se la prende con la metafisica greca e l’accusa di avere stravolto il cuore del pensiero cristiano, cioè l’incarnazione del Verbo; a noi pare che questo sia un falso problema: la metafisica greca ha effettuato la migliore mediazione possibile fra il pensiero dell’essere impersonale di Aristotele e il pensiero del Dio personale del giudaismo; perché le radici del cristianesimo, che piaccia o che non piaccia a certi teologi moderni, sono duplici: quelle giudaiche e quelle greche. Il vero problema è un altro: questo Dio che si fa uomo, non smette, però, di essere anche Dio, e non smette neppure di donarsi incessantemente a tutti gli uomini: ecco il mistero della Trinità. E questo non è un pensiero schiettamente giudaico, ma un pensiero dialettico: che assume una intuizione giudaica (Dio che crea dal nulla tutte le cose, e le crea per amore) e che la sviluppa secondo le categorie del pensiero greco (Dio che non cessa di essere Dio e che non cessa di creare, ma che, creando, resta comunque Dio, cioè il fondamento del tutto).
Non è vero che un Dio "forte" non mostrerebbe sufficiente commozione per i drammi della storia, per il male morale presente nel mondo; non è vero che sarebbe un Dio indifferente nei confronti di Auschwitz. Dio è sempre Dio, l’essere è sempre l’essere. Siamo noi che abbiamo perso coraggio e fiducia, non in noi stessi (ne abbiamo anche troppa, fino alla superbia metafisica, fino all’orgoglio satanico), ma nella realtà ultima che sta fuori di noi: e, non volendo riconoscere né il nostro peccato di superbia, né il nostro senso di scoraggiamento e di sconforto, ne abbiamo ricavato, ma con perfetta cattiva coscienza, una nuova,stranissima filosofia: quella del pensiero debole, dell’essere debole, del Dio debole. Per non voler confessare che ad essersi indebolita è la facoltà conoscitiva dell’uomo, dopo le ubriacature del razionalismo, dell’illuminismo e dello scientismo. E si è indebolita perché non ha più un terreno solido sul quale posare i piedi (la metafisica) e perché ha fatto del divenire la legge fondamentale di ogni cosa (relativismo), mascherando questa involuzione per un progresso e, magari, per un eccesso di salute (vitalismo: da Nietzsche in avanti, fino… a Vattimo).
Ma quante storie per non voler guardare le cose come stanno; quanti contorcimenti, quante fumisterie, per non voler guardare in faccia il vero problema: la nostra umana inadeguatezza, in tempi di delirante superbia intellettuale. Piuttosto che riconoscere d’essere impazziti, abbiamo preferito dichiarare che il mondo è il regno della follia. Abbiamo fatto di un nostro problema, il problema dell’essere.
Stando così le cose, dove, quando e come troveremo la forza per risalire la china? Evidentemente, solo al prezzo di un fondamentale atto di umiltà. Ma l’umiltà richiede coraggio; e il coraggio richiede un animo forte, un pensiero forte, un essere forte: non debole.
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