
Gli umanesimi laici non possono tollerare l’idea della morte
28 Luglio 2015
Londra voleva la guerra con l’Italia fin dal 1938 e intendeva colpirla nel Dodecaneso
28 Luglio 2015A chi, o a che cosa, serve il monachesimo contemplativo, oggi, in una società materialista, dominata da una cultura sempre più permeata dall’utilitarismo e dall’edonismo?
È ormai largamente diffusa, infatti, e non solo negli ambienti culturali "laici" o dichiaratamente atei, l’idea che la preghiera in generale, e la contemplazione mistica in particolare, non solo non servano a nulla, ma che siano, in se stesse, poco meno di un crimine: il crimine di sottrarre energie e distogliere l’attenzione dai problemi "veri" della società e dalla loro possibile soluzione, praticando una evasione, colpevole — perché cosciente e deliberata – nei regni di ciò che, essendo invisibile, è anche, per definizione (nella prospettiva materialista) inesistente, o quanto meno, in tutti i casi, ininfluente e irrilevante.
Come! Con tutti i problemi che attanagliano il mondo d’oggi — economici, sociali, demografici, ambientali, politici, culturali — ci sono ancora delle persone, ma sarebbe meglio dire dei disertori, dei vigliacchi, dei traditori, che, invece di dare il loro contributo per il loro superamento, trovano il modo (e il coraggio) di rinchiudersi fra quattro mura, di negarsi ai loro simili bisognosi, di scegliere un egoistico isolamento, lontani da tutto e da tutti? E ciò al solo scopo di cercare Dio: questa entità fantomatica, illusoria, improbabile, questa materializzazione delle nostre speranze e dei nostri timori, questa forma di nevrosi collettiva che affligge l’umanità ormai da troppo tempo, ma che è stata definitivamente "smontata", liquidata e archiviata da Marx, Nietzsche, Freud, e gettata nel cestino delle credenze fantastiche e — parafrasando il buon Leopardi — degli errori popolari dei nostri ingenui e creduli predecessori…
Infine: con quale diritto questi frati, queste suore, questi eremiti, eludono le loro responsabilità di cittadini, sottraggono alla società il loro contributo attivo di lavoro e di partecipazione, recidono il legame con i loro simili, facendosi simili alle fiere selvatiche? Domanda vecchia, addirittura antica: se la faceva, per esempio, il poeta latino Rutilio Namaziano (384-423), nel suo poemetto «De Reditu», allorché, navigando in vista dell’isola Capraia, divenuta luogo di eremitaggio di alcuni monaci, si lanciava in una veemente invettiva contro il cristianesimo, reo di ridurre in condizioni biasimevoli degli esseri umani, dopo averne stravolto le menti (cfr. il nostro articolo: «Il "De reditu" di Rutilio Namaziano è lo specchio di una classe dirigente ormai allo sbando», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 19/12/2011). Pertanto, i moderni critici del monachesimo e della contemplazione religiosa non hanno inventato proprio niente di nuovo: essi credono che la loro visione, "progressista" e molto politicamente corretta, tragga origine dalle idee dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese, e non sanno, nella loro ignoranza, che ripetono stancamente luoghi comuni addirittura stantii, quelli che sfoderavano gli oziosi e velleitari patrizi romani della decadenza, per nascondere a se stessi le vere ragioni del declino e della imminente dissoluzione dello Stato romano e della società imperiale tardo-antica.
In fondo, l’accusa rivolta al monachesimo contemplativo è sempre la stessa: non serve a nulla, dunque non ha giustificazioni. Nella prospettiva utilitaristica ed efficientistica, infatti, propria di tutte le società e di tutte le culture basate su di una smodata fiducia nell’uomo e su di una svalutazione, implicita o esplicita, dell’azione di Dio nel mondo, non c’è accusa più grave di questa: l’inefficacia di una certa pratica o di una certa credenza; perché dall’inefficacia — giudicata, peraltro, secondo il criterio unico di ciò che è visibile e immediato, quantitativo, misurabile — si passa immediatamente alla sua illiceità. Bisogna che tutto sia soppesato, ed eventualmente giustificato, secondo il parametro del risultato e del successo: è la versione laica e moderna del concetto teologico, tanto complesso e controverso, della "giustificazione" davanti a Dio. Oggi non ci si deve più giustificare davanti a un Dio trascendente, bensì davanti al dio immanente del risultato e del successo: ma si tratta di un dio particolarmente severo ed esigente.
Esemplari ci sembrano, per chiarezza e onestà intellettuale, le osservazioni svolte al riguardo da frate Oliveto Gerardin, dell’Abbazia olivetana di Maylis (Francia), nell’articolo «Il monachesimo contemplativo nella nuova evangelizzazione», apparso sul n. 5 del 2013 della rivista «Vita Nostra» dell’Associazione Nuova Citeaux, Roma, pp. 70-76:
«Il monachesimo contemplativo è difficile da capire, difficile da spiegare, difficile da giustificare. Di solito si risponde alla domanda sulla sua utilità invocando la necessità e la potenza della preghiera per l’umanità. È una buona risposta, forse la migliore che ci sia. Nonostante questa verità sia essenziale, rimane sempre un dubbio: certo è bene pregare, però non si prega tutto il giorno, si può fare altro. Tutti i religiosi pregano, tutti i cristiani pregano e sono chiamati da san Paolo a pregare senza interruzione (1 Tess. , 5, 17). Ci dovrebbe essere un tempo per pregare e un altro per agire. Perché tanto tempo sprecato nei monasteri? Perché tanta energia persa? Questo bisogno di pregare tanto non sarebbe piuttosto un desiderio egoista di tranquillità? […]
Ci troviamo dunque in una strana e paradossale situazione. La nostra pietra d’inciampo è proprio il nostro carisma, la nostra chiamata. Per questa ragione deve diventare una pietra angolare, il che necessita da parte nostra di una conversione dello sguardo e del cuore, cioè una conversione del modo di capire e e di vivere la nostra vita monastica. Qual è, in fondo, questa pietra d’inciampo che può farci cadere? L’apparente inutilità di una vita così semplice, l’impressione d’infruttuosità che nasce da questo nostro tipo di vita. Non ci piace l’infruttuosità. Vogliamo, legittimamente, portare dei frutti, servire a qualcosa. Vogliamo anche vedere e capire a che cosa siamo utili. E infine desideriamo segretamente essere riconosciuto in questa utilità. All’inizio può piacere essere nascosto, però dobbiamo riconoscere la verità: non ci piace essere troppo nascosti e per troppo tempo. È un legittimo richiamo della nostra psicologia. […]
Perché non ci piace l’inutilità, cerchiamo spesso di giustificare la nostra vita con un "fare qualcosa". Facciamo il monaco o la monaca come un altro farebbe l’operaio, il medico o il comico. E la nostra "conversatio", il nostro modo di vita, si presta benissimo a questo esercizio di fare il nostro compito. Basta rimanere lì stabile nel monastero e fare ciò che dicono la Regola e i superiori. Facciamo la formazione e gli studi, facciamo i lavori manuali o intellettuali, facciamo gli esercizi comuni e l’ospitalità, facciamo le preghiere e gli esercizi spirituali, forse facciamo anche qualche altra attività più "utile" di apostolato, etc. Non è male. Anzi, è bene. Alla fine possiamo anche sentirci soddisfatti di aver fatto, e ben fatto, il nostro dovere. Possiamo giustificarci con il nostri fare, un fare che d’altronde non è senza lustro perché richiama qualche sforzo su di noi. E siamo qualche volta lodati per il generoso dono della nostra vita di ascesi. Il rischio allora è di perdere parecchio, perché riceviamo la nostra vana ricompensa sui questa terra.
Saremo dunque fortunati se su questa strada incontreremo qualche problema da superare, sia personalmente che in comunità, se ci troveremo a incespicare su qualcosa, se non ce la faremo più. […]
Beati dunque saremo noi se nella nostra normale vita quotidiana incontreremo delle tentazioni. Queste difficoltà molto concrete permetteranno di accorgerci che dobbiamo affrontare la questione del senso della nostra vita per rispondere in modo giusto alla nostra impressione di vacuità interiore. La risposta a questa non è nella ricerca di qualche cosa utile da fare. La nostra vacuità interiore desidera e e richiama soltanto per essere colmata, soddisfatta, la profonda e autentica relazione d’amore con Dio e con i fratelli e sorelle. Saremo beati se nella tentazione sperimenteremo la forza del peccato e la potenza più grande ancora della grazia, e se capire, o che l’evangelizzazione di noi stessi è appena cominciata e deve essere sempre rinnovata.
Siamo arrivati a un punto molto importante: quello della conversione, la più importante "nuova evangelizzazione!". I monaci hanno avuto l’intuizione che vivere e annunciare il vangelo non consiste tanto nel Fare qualcosa quanto nel diventare qualcuno, nel diventare un uomo nuovo nel Cristo. L’importante non si trova nell’"utilità" o nell’"inutilità", perché questi non sono concetti evangelici. La ricerca della conoscenza di sé e della conversione, così fondamentali nella spiritualità monastica fin dalle origini, ci ricordano che dobbiamo lasciarci rinnovare nell’immagine e somiglianza con Dio perché siamo stati salvarti dal peccato. Ecco l’importante, l’unico necessario. Si tratta di portare la liberazione evangelica fin alle profondità della nostra personalità, e tramite i nostri cuori anche fin all’intimo della Chiesa.»
Una società che ha conservato la fede nell’invisibile è una società che crede nel soprannaturale; e una società che crede nel soprannaturale è, perciò stesso, una società che ha la massima stima, il massimo rispetto e la massima riconoscenza nei confronti di quei suoi membri che, scegliendo la via della solitudine, del raccoglimento, della contemplazione, si interpongono, in un certo senso, come se fossero dei parafulmini, tra la società stessa e le tristi, funeste conseguenze che l’avidità, la prepotenza, l’amore di sé spinto fino all’idolatria, inevitabilmente attirano su di essa, spargendo sofferenza, angoscia, disperazione.
La funzione che le persone contemplative e religiose svolgono, attraverso la preghiera, per la protezione dei singoli, delle famiglie, delle comunità, è percepita come importantissima, addirittura essenziale: il fatto che una percentuale della popolazione si sottragga, se così ci vogliamo esprimere, ai doveri della vita pratica, dal matrimonio al lavoro produttivo, alla pubblica amministrazione, non viene visto, né giudicato, negativamente, al contrario: perché quello che la società "perde", ammesso che lo perda, sul piano del finito, lo guadagna, e con gli interessi, sul piano dell’assoluto: il rapporto fra i costi e i benefici, pertanto, si chiude con un bilancio pienamente positivo.
Questo, però, non è il nostro caso; la società odierna ha completamente cambiato il suo orientamento spirituale, o forse sarebbe più giusto dire che lo perso: essa ha acquisito un orientamento puramente materialistico, pertanto ritiene che solo ciò che va direttamente nella direzione della pubblica utilità — giudicata, anche quest’ultima, esclusivamente in senso pratico e materiale — sia legittimo, giustificato ed apprezzabile; tutto il resto è inutile o addirittura dannoso e, quindi, da condannarsi, se non giuridicamente, almeno moralmente.
Il fatto è che una società spiritualmente e moralmente sana apprezza il fatto che vi siano persone desiderose di dedicare la propria vita alla preghiera e alla contemplazione di Dio, perché esse danno l’esempio, praticando, in maniera forte ed eroica, quello che tutti gli esseri umani, in una certa misura, dovrebbero praticare, e sia pure nel travaglio delle preoccupazioni e delle responsabilità della vita attiva: la conoscenza di sé, il depotenziamento dell’Ego e la ricerca del colloquio continuo con Dio. In una società cristiana — ma la nostra società odierna ha smesso, e da tempo, di essere tale — tutti gli esseri umani dovrebbero desiderare di far nascere in sé l’uomo nuovo, secondo il modello di Cristo: l’uomo nuovo, dotato di un cuore di carne, in luogo dell’uomo vecchio, con il suo cuore insensibile, duro come la pietra.
Quel che potremmo fare, in ogni caso, è di liberarci, per quanto possibile, dai pregiudizi razionalisti e materialisti, e di guardare al monachesimo contemplativo con occhi nuovi, valutandolo, se non altro, come un modello alternativo su cui vale la pena di spendere qualche riflessione. Non dovremmo essere troppo certi del nostro saper, o troppo corazzati entro di esso, come se fosse una cittadella inespugnabile; dovremmo abbassare il ponte levatoio e andare verso una visione più libera e aperta del reale, nella quale vi sia spazio per la dimensione dell’invisibile, del soprannaturale, dell’assoluto.
La preghiera e il colloquio con Dio non sono mai inutili; e colui che li pratica non è un individuo che ha del tempo da perdere, ma un essere umano che ha compreso più di quanto si possa trovare nell’arido sapere libresco o nel presuntuoso culto di un sapere scientifico divenuto fine a se stesso ed eretto al rango di valore supremo. Colui o colei che si abbandona alla dimensione contemplativa, d’altra parte, non è un individuo che ha smesso di cercare e che si riposa, o si chiude a sua volta, nelle sue orgogliose "verità": egli è, e rimane, un mite ed un umile di cuore, che pratica il nascondimento, ma anche la benevolenza gratuita e disinteressata, e che abbraccia l’umanità intera, anzi tutto il creato, nel proprio pregare, nel proprio adorare, nel proprio ringraziare. Dio sa se abbiamo bisogno di anime così. E se ci chiediamo dove trovino la forza, la serenità, il coraggio di pregare sempre, la risposta non potrà essere che una: in Dio, naturalmente, non certo in se stesse…
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