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La fine di Gheddafi ci mette in imbarazzo perché ci ricorda i nostri scheletri nell’armadio

Pare che le ultime parole di Mu’ammar Gheddafi, prima di essere ucciso come una bestia feroce, siano state: «Non sparate».

Un po’ tardi per pronunciare una implorazione del genere, dopo avere incitato i suoi seguaci, otto mesi fa, a sterminare come cani quanti avevano osato ribellarsi alla sua quarantennale dittatura, dando così il via ad una sanguinosa guerra civile.

Ciò detto, bisogna anche aggiungere che il regime del dittatore libico non è certo caduto per un collasso interno, ma solo perché contro di esso si è scatenata una massiccia aggressione militare proveniente dall’esterno, al di fuori del diritto internazionale e di qualsiasi decisione da parte delle Nazioni Unite.

Anche la frettolosa risoluzione O.N.U. del 17 marzo 2011, infatti, deplorando l’uso della forza da parte del regime di Tripoli contro la dissidenza interna, autorizzava gli Stati membri ad intervenire per la tutela della popolazione civile e non già a rovesciare quel governo.

Ora che tutto è finito e che il Rais è stato passato per le armi, senza ombra di processo, possiamo fare qualche riflessione sull’ipocrita atteggiamento del governo italiano e dei mezzi d’informazione nazionali a proposito della conclusione di questa vicenda.

Non ci soffermeremo sulla contraddittorietà, anzi sull’inesistenza, della nostra politica estra, a partire dal baciamo di Berlusconi verso Gheddafi, con tanto di salatissimo "risarcimento" pagato per i danni del colonialismo italiano: un atto, quest’ultimo, che non trova l’equivalente nell’operato di alcuna potenza coloniale o ex coloniale, a cominciare da quelle, come la Gran Bretagna , che non avevano tre o quattro colonie che costarono al bilancio statale più di quanto resero, ma un quarto delle terre emerse dell’intero globo terracqueo, da cui vennero spremute, per un paio di secoli, ricchezze incalcolabili.

Dal baciamo e dal "risarcimento", passando per il «non disturbiamolo» di Berlusconi, quando già il dittatore libico stava facendo mitragliare i suoi concittadini con l’aviazione, fino alla concessione dei nostri aeroporti per l’attacco anglo-franco-americano e, da ultimo, alla partecipazione diretta alle operazioni di guerra, magari con dei voli di esplorazione e non di bombardamento, è stata una Via  Crucis di brutte figure, di pretesti meschini, di balbettamenti imbarazzati, di ordini e contrordini; con un partito di governo, non dimentichiamolo, che era contrario all’intervento e con un presidente del Consiglio che, in quel caso come in tanti altri, pur di restare in sella era disposto a promettere a chiunque, in Italia e all’estero, tutto e il contrario di tutto.

Ma lasciamo perdere questo aspetto, ossia quello strettamente politico: perché il Principe, insegna Machiavelli, deve  saper "entrare" anche nel male, se necessario; e il criterio della necessità è dato dai superiori interessi dello Stato.

Dunque, possiamo anche ammettere che, in certi casi estremi, in politica si debba fare non quello che è giusto, ma quello che è necessario; e l’Italia, per un insieme di ragioni storiche, geografiche, economiche, più di qualunque altra potenza occidentale non poteva rimanere indifferente a ciò che stava accadendo sulla sponda opposta del Mediterraneo.

Nessun moralismo, dunque: forse l’intervento era necessario; peraltro, c’è modo e modo di mutare la propria politica internazionale e anche stavolta, come già troppe volte in passato, l’Italia ha dato al mondo la sgradevole impressione di muoversi con un miscuglio di intollerabile opportunismo e di imperdonabile irresolutezza.

Viene in mente il voltafaccia dell’8 settembre 1943, con le sue gravissime conseguenze sia sul piano internazionale che su quello interno: c’è modo e modo di combattere e di perdere una guerra, di chiedere un armistizio, di voltar le spalle a un alleato e di venire a patti con il nemico; e c’è modo e modo di assumersi le proprie responsabilità da parte della classe dirigente di fronte alla nazione, sia sul piano politico, sia su quello morale.

Di certo il modo in cui il re e il capo del governo fuggirono a Pescara non è stato dei più limpidi e nemmeno dei più coraggiosi e di certo essi non fecero nulla per alleviare la doppia sciagura dell’invasione nemica (e di quella amica; ma chi erano gli amici e chi i nemici, in quel preciso momento?) e della prevedibile, imminente guerra civile, suprema sventura che possa abbattersi su di una nazione.

Sventura così grande che, per sessant’anni, la si è voluta esorcizzare, chiamandola, in modo menzognero, non "guerra civile", quale realmente è stata, ma "guerra di liberazione" (ma contro chi, se il "nemico" era il vicino di casa?) e costruendoci sopra una mitologia trionfalistica che era l’esatto contrario di ciò che sarebbe stato necessario: un pensoso, accorato ripensamento di quel che era accaduto, un pietoso chinarsi sulle vittime di entrambe le parti, un doveroso sforzo di riconciliazione e di concordia nazionale.

Invece no: si è voluto seguitare il gioco dei Guelfi e dei Ghibellini, dei buoni e dei cattivi, come da tradizione, con la consueta carica di faziosità e di ipocrisia; si è voluto innalzare un muro invalicabile tra i vincitori e gli sconfitti, addossando a questi ultimi tute le colpe, anche quelle che non ebbero: ma i vincitori, si sa, hanno sempre ragione ed i vinti, lo si sa altrettanto bene, hanno sempre torto e sono colpevoli di tutto.

Così, per circa sessant’anni, l’antifascismo è stato la religione laica dello Stato repubblicano e democratico, la foglia di fico dietro la quale la sua classe dirigente ha potuto riciclarsi e rifarsi una verginità, nonché il comodo passe-partout con il quale coprire e giustificare qualunque maneggio, qualunque intrallazzo, qualunque ribalderia.

L’Italia ha vissuto moralmente bloccata, per oltre mezzo secolo, nello schema manicheo che escludeva dalla piena cittadinanza morale gli eredi della parte sconfitta e la memoria dei caduti di quest’ultima, e che esigeva una dichiarazione preventiva di eterna esecrazione nei confronti di essa da parte di chiunque volesse intraprendere la carriera politica.

Ingessata, imbalsamata in questo schema, che era, al tempo stesso, storicamente inaccettabile, politicamente iniquo e moralmente ipocrita, la nazione italiana non è mai stata capace di fare i conti con il proprio passato, di interrogarsi sulle ragioni del sangue versato, di considerare con rispetto e con pietà quanti caddero da entrambe le parti, combattendo in buona fede per un ideale di patria, ma anche di deporre dal piedistallo degli eroi quanti combatterono per mero odio di parte e soprattutto quanti, a guerra ormai finita, non seppero trattenere la mano omicida dal versare il sangue dei propri fratelli sconfitti.

Ma tutto questo copione non era che la conseguenza inevitabile del modo in cui il re e la camarilla dei generali, dei finanzieri e degli industriali si erano sbarazzati di Mussolini, il 26 luglio del 1943, dopo essersi avvantaggiati in ogni modo della sua politica per oltre vent’anni; del modo in cui l’Italia si era sottratta all’alleanza con la Germania e aveva spalancato le porte agli invasori, l’8 settembre del 1943; del modo in cui Mussolini venne arrestato e passato per le armi, senza testimoni e senza processo; e, ancora, del modo in cui venne firmato il Trattato di pace di Parigi, nel 1947, con quel vergognoso articolo che imponeva alla magistratura e al governo di astenersi da qualunque azione nei confronti di quanti avevano lavorato, fin dal 10 giugno 1940, per la sconfitta del Paese e per la vittoria del nemico.

Ecco: probabilmente l’imbarazzo e il disagio con cui l’Italia ha seguito l’ultimo capitolo della vicenda libica ha a che fare con quei fantasmi mai esorcizzati, con quegli scheletri nascosti negli armadi della sua recente storia nazionale.

Anche l’Italia era governata da una dittatura e anche quella dittatura godette di un ampio consenso popolare, proprio come la Libia di Gheddafi; anche l’Italia è stata "liberata" e convertita alla democrazia dai bombardieri angloamericani e anch’essa vi è giunta passando attraverso una guerra civile, non tribale ma sociale, nella quale sia gli uni che gli altri vennero manovrati come burattini da forze esterne, rispettivamente la Germania e gli Alleati angloamericani.

Anche l’Italia ha conosciuto l’adorazione del capo carismatico, la sua caduta, la sua esecuzione sommaria e la sua "damnatio memoriae": e la fine di Gheddafi ricorda fin tropo da vicino l’epilogo della dittatura mussoliniana, con la bassa macelleria di Piazzale Loreto e soprattutto con quella fretta di chiudere la bocca al caduto dittatore, prima che un pubblico processo potesse far venire a galla complicità insospettabili e connivenze sin troppo imbarazzanti.

I morti non parlano: e così nessuno avrà l’opportunità, oltre che il cattivo gusto, di rimestare nelle amicizie e nelle coperture internazionali di Gheddafi, il quale – non dimentichiamolo – era stato riammesso nel consesso politico mondiale, riaccolto fra i capi di Stato rispettabili anche da quelle nazioni della N.A.T.O. che ora gli hanno fatto la guerra, e formalmente perdonato per i suoi passati legami con il terrorismo islamico internazionale.

La sua esecuzione sommaria farà sì che i dossier riservati possano rimanere nei cassetti e negli armadi in cui giacciono, e che molto avrebbero messo in difficoltà le cancellerie occidentali ed i capi di governo della Francia, dell’Inghilterra e degli Stati Uniti; i quali, in nome del petrolio e delle superiori esigenze dell’economia, avevano tirato un colpo di spugna sul passato poco raccomandabile del Rais ed avevano sdoganato il suo governo dalla quarantena internazionale, con buona pace dei parenti delle vittime della tragedia di Lockerbie, ove, nel 1988, si era schiantato un volo della Pam Am con tutti i passeggeri a bordo.

Analogo sollievo aveva provato Churchill alla notizia che Mussolini era stato passati per le armi senza processo, nel 1945; e, con lui, anche altri capi di Stato, i quali per vent’anni avevano ammirato, applaudito e vezzeggiato il regime fascista, non lesinando elogi al suo capo e intavolando anche talune trattative sottobanco che, a guerra finita, era opportuno non venissero rese di pubblico dominio.

Una serie impressionante di analogie fra l’Italia del 1943-45 e la Libia di oggi, dunque, ci aiutano a capire il modo frettoloso e distratto con cui la nostra classe dirigente ed i nostri mezzi d’informazione, ad essa asserviti e di essa espressione e strumento operativo, hanno seguito le vicende di quella che un tempo si chiamava la "quarta sponda" e che continuano a interrogarci direttamente, se non altro per gli interessi petroliferi in gioco e, più ancora, per la probabile fiumana d’immigrati clandestini che continuerò a riversarsi sulle nostre coste, proveniente dall’Africa profonda e passando attraverso le rovine di uno Stato che non sarà più grado, per chissà quanto tempo, di fare da filtro tra loro e noi.

Perché la caduta del regime di Gheddafi, non dimentichiamolo, è stata una conseguenza di quel fenomeno che ha investito, prima della Libia, la Tunisia, l’Egitto e alcuni Paesi del Medio Oriente, e che i nostri politologi si sono affrettati a chiamare, invero con troppo ottimismo, la "primavera araba", al solito partendo dall’assunto che le dittature siano sempre e comunque un male e le democrazie, sempre e comunque un bene.

Fino ad oggi, però, quel che si è visto è che la cosiddetta rivoluzione tunisina ci ha regalato migliaia di immigrati clandestini, molti dei quali venuti appositamente per delinquere o direttamente fuggiti dalle galere del loro Paese: e ne sanno qualcosa gli abitanti di Padova e di altre città italiane che hanno avuto la ventura di ospitarli; mentre quel che si è visto della cosiddetta "rivoluzione egiziana" sono stati alcuni massacri di cristiani copti e una durissima repressione militare delle manifestazioni popolari per la giustizia e la democrazia.

Un bilancio a dir poco deludente, ancorché provvisorio, di quello che era sembrato l’inizio di una grande stagione di rinnovamento e (come oggi si suole dire, magari senza troppo riflettere sul significato delle parole), di "modernizzazione": quasi che la modernizzazione fosse un bene evidente in se stesso e la chiave obbligata per la soluzione di tutti i problemi, specialmente da parte dei popoli del Sud della Terra.

E allora guardiamole bene, le immagini di Gheddafi crivellato di proiettili, e riflettiamo con onestà sui ricordi sinistri che esse risvegliano in noi.

È un’altra occasione che ci viene data per fare i conti, una buona volta, con il nostro passato che non passa; con il nostro antico vizio di voler dimenticare troppo in fretta, senza assumerci sino in fondo le conseguenze dei nostri atti e delle nostre scelte, ma cercando sempre di tenere il piede in due scarpe, per trovarci poi dalla parte del vincitore di turno.

 

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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