Cronache di ordinaria follia
16 Agosto 2011
Quando palestrato fa rima con effeminato
21 Agosto 2011
Cronache di ordinaria follia
16 Agosto 2011
Quando palestrato fa rima con effeminato
21 Agosto 2011
Mostra tutto

L’insoddisfazione per il finito è, per Fichte, la nostra connessione con l’Infinito

Massimo Donà ha esposto la concezione di Fichte, sottoponendola a una critica stringente; presentiamo l’una e l’altra, per vedere se davvero il filosofo tedesco avesse perso, per un eccesso di razionalismo, il contatto con la realtà della condizione umana, e se davvero la critica di Donà colga nel segno (da: M. Donà, «Serenità»Milano, Bompiani, 2005, pp. 200-03):

«Lo rilevava anche Fichte: "Tutti vorrebbero essere felici, in pace, soddisfatti del proprio stato, ma non sanno dove trovare questa felicità; non comprendono ciò che propriamente amano ed è oggetto delle loro aspirazioni. Pensano di doverlo trovare in ciò che immediatamente viene incontro e e si offre ai loro sensi, cioè nel mondo,non essendoci per loro, nello stato d’animo in cui si trovano, nient’altro che il mondo. Con coraggio si fanno avanti in questa caccia della felicità, appropriandosi intimamente e abbandonandosi con amore asl primo oggetto che loro meglio piaccia e che prometta di soddisfare il loro sforzo (Streben)." ("Introduzione alla vita beata").

Come potrebbe un qualche oggetto soddisfarli? Si chiede Fichte.

Eppure anche l’INIZIO, ciò che già da sempre siamo,ci si dà in forma oggettuale; perché noi siamo la SUA POSITIVITÀ, quella di cui esso è NEGAZIONE "non escludente" e in ragione di ciò non possiamo che guardarlo come si potrebbe guardare qualsiasi altra oggettualità.

Fichte avanza subito, comunque,l’ipotesi fondamentale: che proprio in tale ineludibile scarto – quello che ci impedisce di rapportarvicisi in una forma che non sia quella oggettuale – si dà l’unico nostro nesso con l’Eterno. Che proprio "il fatto che nulla di finito e caduco possa soddisfarci, sia l’unico nesso grazie al quale siamo in relazione con l’Eterno e continuiamo a esistere" (ibidem).

Qualora un oggetto finto dovesse soddisfarci pienamente,, infatti, saremmo destinati alla morte eterna; al male assoluto. E diventeremmo definitivamente ALTRI dal bene che tanto a lungo abbiamo cercato. Finiremmo per ritrovarci sospesi sulla definitività di un esser parziale non più perfezionabile; e la nostra impercettibilità si tramuterebbe in paradossale condizione di definitiva IMPERFEZIONE. E non si tratta neppure – sempre secondo Fichte – di attendere l’età della saggezza per risolversi a rinunciare finalmente "a ogni felicità e a ogni pace" (ib.), uccidendo per ciò stesso ogni desiderio e ogni pulsione al bene eterno.

Ciò produrrebbe un mero "intorpidimento" — che stoltamente finiremmo per confondere con la vera saggezza. Come se essere saggi significasse in verità farsi consapevoli di non essere affatto destinati alla felicità.

In realtà il bene è già qui, ovunque ci si venga di fatto a trovare; in ogni stazione di tale ricerca infinita; che, lungi dal giustificare una qualche forma di tragica disperazione, deve farci comprendere – sempre secondo Fichte – che proprio l’insufficienza di ogni bene determinato e parziale – ossia, oggettuale – manifesta la nostra già risolta beatitudine. Che proprio il fatto di non essere mai soddisfatti di questa quella conquista sta lì a testimoniare la nostra già risolta in-finitudine.

Solo in quanto in-finiti, dunque, saremo sempre sostanzialmente insoddisfatti di ogni guadagno finito e oggettivo. Perciò, sempre per il maestro dell’idealismo tedesco, cercare la verità non è in contraddizione con il nostro eterno abitarla e frequentarla nell’intimo della nostra anima. Perciò il mostrarsi desiderosi di serenità non im0plica impossibilità di vita serena e beata. Ma ne è al contrario costante testimonianza.

Certo, il discorso di Fichte è quantomai stringente; e fortemente seducente è la sua potenza argomentativa. Ma una cosa sembra sfuggirgli davvero: che anche la vita eterna e la sua perfetta beatitudine dovranno essere percepite come META sempre ancora da guadagnare — così esse dovranno essere intese dalla soggettività di uno sguardo finito che anche dell’infinitudine divina, sarà tentato di fare una semplice oggetto da catturare e possedere in modo pressoché de-finitivo.

Un ogni caso, ciò consegue anche dal fatto che l’eterno, per lui, non può che essere esperito per il tramite del pensiero"- "la vita vera e la sua beatitudine consistono nel pensiero, cioè in una certa visione particolare di noi stessi e del mondo" (ib.). Perciò "una dottrina della beatitudine non può essere altro che una dottrina del sapere"; e "vivere veramente significa pensare veramente e conoscere la verità" (ib.).

Fichte sembra cioè non rendersi conto del fatto che il pensiero non può frequentare altro che oggetti, che esso è naturalmente OGGETTIVANTE, – che tale destino, cioè, non ha nulla a che fare (come avrebbe voluto di ì a poco un certo heideggerismo ancor oggi di gran moda) con la disposizione alienata del pensiero scientifico e tecnologico.

Il pensiero oggettiva tutto ciò che pone; ogni posto dal pensiero si costituisce infatti come oggetto; conceptum, ciò che può essere sempre in qualche modo catturato (cum-capio). Perciò, anche l’Eterno Bene, se PENSATO, non potrà che essere oggettivato; e farsi quindi META di una ricerca che sarà infine sempre delusa nelle proprie aspettative.

Si tratta dunque di sottoporre a critica radicale questa pretesa del pensiero, e di comprendere (con il pensiero, è evidente!) che l’UNIVERSALITÀ che mai inizia e mai finisce non soddisfa affatto NELLA e PER LA semplice soddisfazione procurata dalla ricerca oggettuale.

perché, un benessere che fosse sperimentabile sempre e solamente nello scacco di un mero guadagno oggettuale e nella costitutiva insoddisfazione a esso connessa, si trasfigurerebbe manifestandosi appunto nella forma della perenne insoddisfazione. Il fatto è che il mortale non ci guadagnerebbe nulla da tale rapporto con l’eterno!

Nessuna beatitudine e conseguirebbe in relazione alla sua esistenza; ma sempre e solo — casomai — in relazione al suo sapere.

Anche se, sapere che si è beati non significa condursi sic et simpliciter a una vera e piena esperienza di beatitudine.

Qui Fichte pecca – per dir così – di INTELLETTUALISMO ETICO. Quasi avesse ritrovato la cogenza dell’antico intellettualismo etico già professato da Socrate…

Ma la verità è un’altra; la verità è che il mortale vuole SERENITÀ; ossia, ciò che mai gli è dato di sperimentare in questa vita e nelle sue infinite peregrinazioni.

Vuole qualcosa che sa di non avere; che sa, ma non ha, dunque. Che non ha per il semplice fatto di SAPERE CHE LA VUOLE:..»

Fonte dell'immagine in evidenza: sconosciuta, contattare gli amministratori per chiedere l'attribuzione

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.