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Nel valutare il tumultuoso e apparentemente inarrestabile sviluppo del neoempirismo, culminato nella speculazione logico-matematica di Bertrand Russell e nella critica del linguaggio del Circolo di Vienna, dominato dalla figura di Ludwig Wittgenstein, così si espresse il grande matematico Francesco Severi, già rettore dell’Università di Roma e uno dei massimi geni matematici mondiali del XX secolo: (in: F. Severi, «Dalla scienza alla fede», Assisi, Edizioni Pro Civitate Christiana, 1960, pp. 74-77):
«L’atteggiamento critico-rigorista, concretatosi verso la metà del secolo XIX nel cosiddetto indirizzo logico-matematico, attraverso l’opera di Boole, De Morgan, Schröder, Frege e di altri, si accentuò più che mai in Italia (paese che fu sempre in primo piano nelle matematiche) sul finire del secolo e culminò con la scuola di Giuseppe Peano (uno dei miei grandi maestri), la quale ebbe importanti riflessi in tutti i paesi colti.
Si cominciò così a ridurre varie branche della matematica in sistemi, che furono chiamati da Mario Pieri logico-deduttivi. È necessario sapere, almeno per sommi capi, di che cosa si tratta, onde capire la essenza del neoempirismo.
Si muove da certi vocaboli o da simboli che li rappresentano, ma dei quali non si conosce né si definisce il senso; per Peano erano le idee primitive. Più propriamente le chiameremo vocaboli primi o, come dice qualche neoempirista, originari. Si pongono fra questi vocaboli alcune relazioni, dette postulati (o antecedenti). Esse costituiscono la definizione implicita delle parole prime, perché null’altro si sa di queste, onde ragionarci sopra, aòl’infuori di ciò che è dichiarato dai postulati. Si assoggetta di poi il tutto a un meccanismo logico. Si opera cioè colle leggi di una logica, che per Peano era ancora la logica classica, ma che oggi può essere pei neoempiristi una qualunque delle varie logiche convenzionali; e si traggono dal meccanismo le conseguenze, relative a quella logica. Si realizza o si pretende così di realizzare quella "caratteristica universale" del pensiero, cui Leibniz aveva aspirato.
Le leggi logiche costituiscono la grammatica essenziale del linguaggio chiuso così creato; ed esse medesime possono essere rappresentate, anziché da vocaboli, da simboli.
Tutto ciò è chiarissimo per noi matematici, che ci siamo ginnasticati in certi esercizi. Le perspne colte basta ritengano questa conclusione: che si può creare l’algebra o grammatica, che dir si voglia, di un linguaggio, vuotando le parole prime di ogni contenuto concettuale e limitandosi a dar le regole per il loro uso. Così ogni nuova parola definita mediante le parole prime è essa pure vuota di ogni significato intuitivo.
Questo è l’indirizzo assiomatico della matematica. Per i neoempiristi è il modo di liberare il discorso umano, dicono loro, da ogni oscurità o imprecisione e dai problemi che non hanno senso, perché si aggirano perpetuamente nei circoli viziosi di parole di cui non si conosce un costante uso convenzionale, ma soltanto sfumature variabili da individuo a individuo. E ciò è in notevole misura vero, se di verità si può parlare dove non c’è né vero né falso. Vi assicuro che questo indirizzo ha molto giovato per affinare parecchi rami della matematica; ma ora si sta esagerando!
Ecco dunque la prima origine del fine che gli adepti del "Wiener Kreis" e i loro seguaci, in Italia e fuori, assegnano alla filosofia. È del fondatore del circolo, il viennese Lodovico Wittgenstein l’insegna sintetica: "alle Philosophie ist Sprachkritik" (tuta la filosofia è critica del linguaggio) e del Carnap uno studio approfondito ai fini filosofici della sintassi logica del linguaggio e l’altra insegna: "in der Logik gibt es keine Moral" (nella logica nessuna morale). Questo indirizzo è stato fiancheggiato anche da qualche esistenzialista, come l’Abbagnano […] e il Rickert.
Riassumendo, le tesi essenziali del neoempirismo sono:
a) Non esiste nulla (di controllabile) all’infuori della lingua.
b) Non esiste altro criterio di universalità, che distingua l’attività teoretica dalla pratica, all’infuori della controllabilità della lingua.
È il ritorno allo scetticismo di Hume.
La stessa mentalità logico-matematica si ritrova nella preoccupazione, del resto giusta, di bandire gli "Scheinprobleme" (problemi apparenti) costruiti su parole di cui non si è prefissato il preciso significato. È una conseguenza del modo come i matematici del secolo XIX si erano liberati dai problemi insoluti dall’antichità classica (trisezione dell’angolo, duplicazione del cubo, quadratura del cerchio) sciogliendoli una buona volta, per sempre, dopo aver appurato che la loro irresolubilità era soltanto relativa o apparente, perché non si era fissato con quali mezzi si volevano risolvere. È di quel tempo la pittoresca frase di Abel: "Porre i problemi della natura in forma tale che sia sempre possibile risolverli".
Ma è dunque proprio alla mia scienza, alla matematica, che risale la responsabilità di una filosofia la quale distrugge colla glaciale cortina della logica il calore dei sentimenti e delle più alte aspirazioni dello spirito umano? Non potrei accettare in pieno questa conclusione., perché io stessi venni, come ho accennato, da quella riva, voglio dire dal rigorismo logico; e la precisa cognizione ch ene ebbi, piuttosto che distaccare definitivamente la mia anima dalla sua umanità sentimentale, mi condusse a grado an grado, senza che la coscienza avvertisse mai in sé discontinuità alcuna, alla convinzione che, fuori delle scienze conoscitive, quell’intellettualismo esacerbato non può che sboccare nel’assurdo, giacché a un certo momento bisogna pur porre d fronte alla ragione, come diceva Pascal, le ragioni del cuore.»
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