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È la paura il nemico che ci tiene alla catena e ci rende schiavi del senso di colpa

«Sei diventata silenziosa.»

Sabina mi lancia un’occhiata di sotto in su, con quel suo caratteristico sguardo interrogativo e leggermente ironico, e risponde semplicemente:

«Che cosa c’è da dire? Davanti a una tale bellezza, si può solo contemplare e tacere.»

È vero.

Gli ultimi raggi del sole al tramonto si rompono e si riflettono sulle onde in mille piccole scaglie di luce dorata, con una dolcezza sontuosa che lingua mortale non potrebbe mai descrivere in maniera adeguata.

Meglio tacere, dunque, e lasciarsi carezzare il viso dalla brezza della sera, mentre l’aria risuona del rotolio sempre uguale delle onde in riva alla spiaggia.

Sulla sabbia, Sabina sembra disegnare qualcosa con la punta del piede, in un gesto quasi infantile, lo sguardo perso nell’azzurra lontananza.

«Tu, piuttosto: quando pensi, mi pare di sentire il rumore delle rotelle che girano, girano… Ma non sei mai capace di lasciarti andare al ritmo della vita?»

Le rispondo con un sorriso, stringendomi nelle spalle.

«Avanti, sentiamo a cosa stavi pensando.»

«Se proprio lo vuoi sapere… Stavo pensando che ciascuno di noi è il peggior nemico di se stesso, fino a quando il velo non gli cade dagli occhi e incomincia a vedere chiaramente, e non a guardare soltanto, senza capire.»

Lei annuisce, pensosa, sempre guardando la linea tremolante dell’orizzonte marino. Non conosco nessun altro nella cui espressione si uniscano così stranamente la leggerezza birichina del monello e la grave maturità dell’adulto abituato a riflettere intensamente.

«Più precisamente, pensavo a quanto la paura condizioni le nostre vite, rendendoci insicuri, ansiosi; oppure, all’opposto, aggressivi e frenetici, ma solo in apparenza.»

«Paura di che cosa, esattamente?»; e stringe gli occhi come due fessure, mentre il suo nasino all’insù, lievemente lentigginoso, pare anch’esso un punto di domanda.

«Ognuno ha la propria paura: chi di non essere amato; chi delle malattie; chi della bomba atomica; chi di perdere le persone care o il posto di lavoro, e così via. Ma non si tratta veramente di paure diverse, bensì dei mille volti dell’unica, radicata paura dell’essere umano: la paura della morte.»

«Continua», dice; e le sue labbra si schiudono quasi in una espressione di sfida.

«La paura ci tiene al guinzaglio come tanti cagnolini e ci rende apprensivi, nevrotici, irrazionali. La paura ci fa attaccare alle cose, come il naufrago si attacca alla tavola. Ma più ci attacchiamo alle cose e più cresce la nostra paura di non farcela, di non avere abbastanza presa. È così che ci attacchiamo ancora di più, sempre di più: non afferriamo gli altri, li artigliamo addirittura; tale è il nostro terrore di rimanere soli, indifesi, abbandonati a noi stessi.»

«Ma da dove nasce, la paura?»

«Ci ho pensato parecchio e non credo nasca solo dal fatto della morte. Credo che abbia anche a che fare con il senso di colpa.»

«Spiegati meglio.»

«Non dico che ciò valga per tutti, ma per molti. Noi ci sentiamo in colpa per il semplice fatto di esserci. I nostri nonni sono già morti, i nostri genitori moriranno prima di noi… Noi sappiamo che resteremo soli, e sarà come se avessimo rubato loro lo spazio per vivere. La nostra vita si sviluppa a scapito della loro, inevitabilmente. Questo ci fa sentire in colpa, anche se, in genere, non ne abbiamo consapevolezza. E il senso di colpa ci rende paurosi. Trasferiamo su svariati oggetti la nostra paura fondamentale, quella di morire, che nasce dal disagio e dal senso di colpa per il fatto che, ora, stiamo vivendo, e rubiamo l’ossigeno – per così dire – a quelli che sono già morti o che ci lasceranno presto.»

Sabina riflette a lungo, accigliata; sembra proprio più imbronciata che mai. Ed ecco, all’improvviso, la sua espressione si distende in un luminoso sorriso e una luce impertinente le brilla nello sguardo, mentre dice lentamente:

«Ma forse è più semplice. Forse abbiamo paura perché temiamo i cambiamenti; e la vita è un continuo cambiamento, che ci piaccia o no.»

Come spesso accade dopo che ha buttato lì, con noncuranza, una frase profonda, Sabina sospira e si mette a ridere, come una bambina che l’ha fatta grossa. E, come sempre, mi sbircia in tralice, osservando la mia reazione.

«Tu non ne hai di certo», osservo, con calma.

«Tutti ne abbiamo, e lo sai benissimo. C’è chi la mostra di più e chi di meno; e c’è perfino chi sguazza allegramente in mezzo ai cambiamenti, li aggredisce per non essere aggredito.»

«Il cambiamento è vita, tuttavia. Secondo te, abbiamo più paura della vita che della morte?»

«Ma certo. La morte, fa paura solo in apparenza: in realtà ci attrae, perché ci garantisce un porto di quiete, dopo tutto. Invece la vita… la vita è imprevedibile, chi lo sa che stangate ci potrebbe riservare: chi ha il coraggio di fidarsene fino in fondo?»

«Aspetta, fammi pensare. Se la nostra paura fondamentale è quella del cambiamento, ossia quella legata al fatto di essere esposti agli imprevisti dell’esistenza, allora il senso di colpa non è più dovuto alla coscienza di essere vivi, ma al timore di non vivere nel modo giusto; mentre c’è chi vorrebbe vivere ancora e, invece, deve prepararsi a morire.»

«E chi te lo dice che ci sia in giro tutto questo gran senso di colpa?», ribatte Sabina, portandosi una mano a visiera all’altezza della fronte e fingendo di scrutare in lontananza.

«Tu non riesci a scorgerlo?»

«A dire il vero, scorgo il tuo e quello di pochi altri; ma non mi sembra una cosa particolarmente diffusa. Del resto, tu stesso avevi ammesso che non riguarda tutti quanti…»

«Guarda, però, che noi umani siamo assai abili a nasconderlo nelle pieghe della nostra anima, magari all’insaputa di noi stessi.»

«Può darsi. Ora però non metterti a fare della psicopolizia, rovistando nelle cantine della coscienza, come il tuo caro amico Sigmund…»

Ridiamo entrambi, poiché lei sa bene cosa ne penso di Freud e della psicanalisi; poi riprendo:

«Eppure, sono convinto che le due cose – la paura e il senso di colpa – sono strettamente legate, anche se in maniera non evidente; e che, per spezzare le catene dell’una, bisogna infrangere anche quelle dell’altro.»

«Siamo schiavi, hai ragione; ma schiavi che non hanno alcuna voglia di ribellarsi. Schiavi che stanno fin troppo bene con le loro lunghe, dorate catene ai polsi e alle caviglie…»

«Adesso non fare la cinica.»

«E tu non fare il moralista.»

«Non hai proprio rispetto di nulla, svergognata? Non ti commuove nemmeno lo spettacolo di questa umanità incatenata e avvilita, che si aggrappa alle cose per il terrore di affogare e che si tortura nelle fiamme del senso di colpa… E se non piangi di ciò, di che pianger suoli?»

Sabina, adesso, drizza il busto e mi batte ironicamente le mani, come ad un istrione da palcoscenico:

«Bene; bravo.»

«Perché poi perdo il mio tempo a parlare con te? È tutta fatica sprecata… come voler raddrizzare le zampe ai cani, direbbe don Abbondio.»

«E non ti vergogni a paragonarti a don Abbondio?»

«Sempre meglio che essere come la monaca di Monza, cara Gertrude.»

Sabina ridacchia, poi torniamo a guardare il mare dove, ormai, il sole è scomparso dietro la linea tremolante dell’orizzonte, in una gloria struggente di rosso e d’arancio.

«Ad ogni modo – riprendo -, che la nostra paura fondamentale sia quella del vivere o quella del morire, in entrambi i casi ha origine da una forma di attaccamento. È quello il male fondamentale, dal quale dobbiamo imparare a liberarci.»

«Essere attaccati alla vita o esserne disgustati, però, non sono la stessa cosa.»

«E perché no? Sono le due facce della stessa medaglia. E producono lo stesso effetto, la paura: di morire, nel primo caso; di vivere, nel secondo.»

Le labbra di Sabina si piegano appena in un accenno di sorriso e i suoi occhi si socchiudono, mentre riconosce, quasi fra sé e sé: «Forse è proprio così.»

Poi si volta a guardarmi, di scatto: «E allora, come se ne viene fuori?»

«Prima di tutto, bisogna vedere se si ha voglia di venirne fuori. Molta gente, anzi, moltissima, ci sta fin troppo bene: la paura è un vestito che, all’inizio, può riuscire un po’ scomodo; ma poi, quando ci si è fatta l’abitudine, non è niente male. Almeno per un certo tipo di persone.»

«Quali, esattamente?»

«Quelle che non osano guardarsi dentro sino in fondo, mettersi a nudo di fronte a se stesse. Che preferiscono attaccarsi alla paura, piuttosto che prendere in mano la propria vita e fare di essa esattamente quello che sono state chiamati a farne.»

«E cioè?»

«Il regno della libertà e, al tempo stesso, dell’armonia. Perché la vera libertà non è agire in modo arbitrario, ma trovare l’accordo con il grande flusso della vita universale. Lasciarsi afferrare dal suo ritmo, dalla sua bellezza, dalla sua perfezione.»

«Non giudicare le cose, ma accoglierle con stupore e gratitudine…»

«Questa l’ho già sentita da qualche parte. Di’ un po’, stai per caso facendomi il verso?»

Lei assume l’aria della finta innocente e risponde, quasi scandalizzata:

«Ma che dice mai, professore! Non mi permetterei di certo…»

«Che carogna sei.»

Questa volta la risposta è solo uno sguardo assassino e una mezza boccaccia; poi torna a guardare il mare che si sta tingendo tutto di rosso e di violetto.

Restiamo a lungo in silenzio, mentre un’ultima vela bianca si affretta in direzione del vecchio faro, all’imbocco del porto. Si è levata una brezza vigorosa che fa sbattere con forza la bandiera e frusta con essa il palo cui è legata.

«Tu nei hai parecchi di sensi di colpa, vero?», mi chiede, dopo un poco.

«Insomma, non c’è male.»

«Ti sarai chiesto per quale motivo, immagino.»

«Sì. Perché mi sento responsabile per un sacco di cose.»

«Quali cose, per esempio?»

«Tutte.»

Le scappa un fischio a mezza bocca:

«Accidenti; allora vuol dire che sei proprio un caso disperato.»

«E lei, dottore, cosa propone per venirne fuori?»

Sabina inarca le sopracciglia e sbatte le palpebre un paio di volte, assumendo una solenne aria di sussiego:

«Oddio, dei modi ci sarebbero… Però il paziente deve seguire ciecamente le mie indicazioni; altrimenti non rispondo di nulla e me ne lavo le mani..»

«Sentiamo, dottore. Sono tutto orecchi.»

«Bene, prima di tutto…»

«Come ha detto? Non capisco, dottore. Potrebbe parlare un po’ più forte?»

«Oppure potrebbe avvicinarsi lei alla mia bocca, caro paziente… Forse quello che devo dirle non è cosa che si possa pronunciare a voce troppo alta.»

«Ecco, va bene così? Ma non scherzi troppo; il paziente è molto ammalato…»

«Sì, direi che può andare… per cominciare.»

Ora non si ode che il suono della risacca e lo sbattere incessante della bandiera.

Venere, la prima stella della sera, si è ormai accesa nell’azzurro del cielo, verso occidente, e brilla e pulsa come se fosse una creatura vivente, mentre le prime ombre incominciano ad allungarsi sulla sabbia tiepida.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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