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La coscienza non deriva dalla materia e il mito affronta la domanda: chi siamo noi?

Scrive William Sullivan nella sua notevole ricerca «Il mistero degli Incas» (titolo originale: «The Secret of the Incas», 1996; traduzione italiana di Daniele Ballarini, Casale Monferrato, Piemme Editrice, , 1998, 2001, pp. 407-09):

«Il positivismo scientifico afferma come articolo di fede che la coscienza deriva dalla materia, che è un sottoprodotto di innumerevoli archi sinaptici, sopravvissuti grazie alla strategia perfezionata da Nostra Signora Selezione Naturale. È questo mondo mitologico che ha fatto diventare la parola "mito" un sinonimo di "errore concettuale2; nel mondo scientifico la saggezza equivale ala codifica di leggi materiali. In tempi di crisi, si tratta di una filosofia molto pericolosa perché instilla nella mente delle persone l’idea che le risorse interiori, la coscienza, non siano altro che un gioco di specchi. Se James Lovelock [il chimico inglese autore dell’Ipotesi Gaia, che descrive il pianeta Terra con tutte le sue funzioni come un unico superorganismo] ha ragione nel ritenere che la coscienza umana appartenga a campi di intelligenza superiori effettivamente esistenti, il determinismo scientifico fomenta, sebbene inconsciamente,una presa di posizione estremamente pericolosa e retrograda: siccome la coscienza nascerebbe dalla materia, alla fine essa non conta nulla e noi ci ritroviamo completamente soli. Ma questo è un invito alla rinuncia totale.

Per questo motivo, il problema della nostra eredità mitica in quanto percezione o proiezione umana superai confini di un puro interesse per l’antichità: esso punta diritto ala questione fondamentale. Chi siamo e che cosa facciamo qui? La scienza non si pone questa domanda, anzi, ritiene che sia insensata. Non ci sono ponti, non c’è un aldilà, non esistono obblighi reciproci. L’universo è un pozzo di calore.

L’uomo moderno cerca di forgiare la sua anima lottando in mezzo a questa tensione fra mito e scienza. La scienza vuole soggiogare le forze dell’oscurità con la luce della ragione. Per quanto possa essere eroico, questo sforzo la induce a confondere i limiti della conoscenza con quelli della responsabilità. Allora, come sanno bene tutti coloro che vivono in questo secolo, le forze dell’oscurità sono molto vicine. Per converso, il mito si serve della lingua della natura e cerca di intavolare un dialogo con la coscienza per porle le Grandi Domande sulla natura e sulla portata della responsabilità umana. Il mito però rischia di farci lottare, come Gilgamesh, contro i limiti naturali per farci tornare a mani vuote.

Tuttavia, la sua forza permane immutata perché esso non solo riguarda la creazione, ma è creatività in sé, l’energia mercuriale che, nel crogiolo dell’esperienza umana, si tramuta in un vascello miracoloso in navigazione nel vasto mare del tempo: "In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio". Nei Veda, il mondo della materia è il sogno di Brahma, la cristallizzazione della pura coscienza nella forma. Non meno rispettosi, ma più coraggiosi, gli indigeni quechua avrebbero detto che fu il grande dio Viracocha a creare il sole, la luna, le stelle, gli uomini, le piante, gi animali e le leggi del culto e dell’interazione umana, e questo significava soltanto che la comprensione di tali questioni proveniva dall’alto, non dal basso.

Siccome condiziona la nostra concezione della natura della coscienza, la cultura scientifica influenza anche la nostra visione del passato. Nel bene o nel male, la scienza è ormai un sinonimo dei limiti della conoscenza. La sua forza risiede nella replicabilità degli esperimenti, e la sua debolezza sta nei limiti dei mezzi di misurazione. Quello che non si può misurare non potrà ancora essere conosciuto. Di conseguenza, nell’Età della Scienza esistono percezioni che trascendono la credibilità e non sono quantificabili – il "numinoso", la "saggezza del cuore", il "Segreto del Fiore Dorato (Crisantemo)" -, di qui la ricerca del mito. Tale ricerca viene confinata in discipline marginali, come la parapsicologia o le religioni comparate, rispetto alla corrente culturale dominante.

Peraltro, anche la storia sta vivendo tempi difficili. Attualmente, le dinamiche della natura umana vengono affidate all’analisi dei biologi, come se fossero un prodotto genetico o delle variazioni dela chimica ematica. In un mondo in cui la natura umana è determinata biologicamente, la storia diventa irrilevante. Se il passato non è altro che lo scoppio in serie successive di impulsi genetici, il suo contenuto serve solo come materiale d’archivio per gli ingegneri sociali. L’eroismo sarebbe soltanto l’espressione del testosterone, e così via. Se si riflette su ciò, ci si sente moto a disagio perché si viene indotti a credere che anche il presente è solo "il racconto di un idiota"…

Facendo un compromesso, abbiamo ridotto la storia a una cronaca di "comportamenti": "Nel passato, la gente non era diversa da noi, tranne per il fatto che oggi ne sappiamo più di loro; basta che studiamo un po’ la storia e saremo in grado di non ripetere gli errori passati". Questa formulazione assomiglia molto al discorso che fanno i genitori quando devono convincere un figlio a ingoiare l’olio di ricino.

Se la storia vuole avere un futuro, dovrà contribuire a vivificare la comprensione della natura umana…»

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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